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Full text of "Le opere di P. Virgilio Marone, con le versioni di A. Caro, D. Strocchi, C. Arici"

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BIBLIOTECA 

LATINA ITALIANA 

OSSIA 

RACCOLTA 

ni CLASSICI LATINI 

CON VERSIONI ITALI INE E NOTE 



VOLUME QUARTO 

P. VIRGILIO MARONE — 0. ORAZIO FLACCO — 
TITO LUCREZIO CARO — FEDRO. 



/ 



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LE OPERE 



DI 

P. VIRGILIO MARONE 



CUN LE VERSIONI 



A. CARO, D. STROCCHI, C. ARICI 




NAPOLI . 

mksso ACHILLE MORELLI timoni; 
Strado S. Srl. astiano n. 51 

mi 



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E 



DI VIRGILIO 

DELI- E SUE OFEBE (1), 

DELLA TRADUZIONE DI AISMBAL CARO 

e de' Iradultori italiani in genere. 



i. 

Pochi sono gli scrittori che abbiano par- 
lalo tanto parcamente di sò nelle opere loro, 
quanto Virgilio : il che devesi attribuire al- 
l’ indole de* subietti da lui trattati e alla sua 
naturale modestia. Ha pochissimi altresì vi 
inno saputo dal primo al! ultimo verso di- 
pinger sé stessi con egual candore, ed espor- 
vi tutte le abitudini della vita. Nella Buccoli- 
ca facilmente trovi espressa la giovinezza con 
la reminiscenza delie sue gioie innocenti e 
delle sofferte sventure ; nella Georgica trovi 
1* età più matura, quindi studi più sodi, e 
rivolli, più che al diletto, ad una pratica uti- 
lità ; nell' Eneide riconosccsi 1’ uomo pro- 
vetto, che, avendo allargato le sue idee sulla 
storia dell' umanità, non più si contenta di 
ritrarre in un libro, come nell’ Eglughe e 
nelle Georgiche, una sola condizion di vita, 
ma tutte comprendendole in un gran quadro 
insegna alla più grande delle nazioni la sua 
origine, il suo avanzamento e gli alti destini 
a cui i numi ancor la riserbano. 

Cresciuto all - aura aperta de' mantovani 
campi, lungi da'rumori politici, il suo genio 
s' ispirò sotto il raggio di quel purissimo cie- 
lo a cantare i poderi, le selve ed il patrio nu- 
me, togliendo a modello de' suoi canti Teo- 
crito. Ma, quantunque in sò potentissimo 
sentisse T ingegno per diventar poeta, non 
volle per altro abbandonatisi prima d' aver 
nutrita la mente di buone dottrine. Avendo 
un padre agiato e, per quel che pare, molto 



sollecito della sua educazione, potò per gli 
studi andare a Cremona, a Milano, poi a Na- 
poli, ove più s’ internò nello studio delle 
greche lettere. Diede opera nello stesso tem- 
po alla filosofia, e perfino alla medicina e 
alle matematiche, e tanto s'approfondò nelle 
scienze, da esser chiamato dottissimo dei 
poeti. E veramente per Virgilio si compie il 
voto di Platone, che la sapienza sfolgoreggi 
davanti ai nostri occhi in sua divina bellezza 
e desti maraviglioso amore di sò. E meglio 
di tutti sei vide l'Allighicri, che l’umana sa- 
pienza volle in Virgilio simboleggiala, o Vir- 
gilio chiamò suo duca, signore e maestro, 
e il savio genlil che ludo seppe. 

Quando gli parve potersi dare all' arte dif- 
ficile dello scrivere, volea tentare 1' epico 
canto, ma Apollo, com’ ei dice, soavemente 
prendendolo per T orecchio gli susurrò che 
meglio era per lui scegliere argomenti più 
tenui, e cantare i pastori e gli armenti. 

A mantenere il tranquillo stato che nelle 
Buccoliche è descritto molto contribuiva Asi- 
nio Pollione, capitano rinomatissimo di quei 
tempi o letterato de' primi, allora governato- 
re della Venezia (A. R. 112 ). Celebrando il 
poeta la felicità de' pastori in quella provin- 
cia, loda indirettamente la saviezza del capi- 
tano, il qualo in mezzo alle guerre che arde- 
vano di quei tempi concedeva loro ozi si lie- 
ti. Quando gli pervenne all' orecchio il ro- 
more della battaglia di Filippi, dava sfogo 
all' anima afflitta da quelle stragi cittadine, 
piangendo la cruda morte di Cesare, dalla 



(I) Dal Discorso di G. Arcangeli posto.in fronte all'edizione di Prato. 

Vnciuo, voi. carco * a 



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«I 



DI VIRGILIO E DELLE SI li OPEIIE 



(|uale ripeteva lutti quei mali, impcroccliè, 
al contrario dell' altro gran l ombardo suo 
coetaneo, Tilo Livio, proverbialo perfino da 
Augusto come pompeiano, Virgilio avea dai 
primi anni partecipato all' entusiasmo desta- 
to nelle provincic dalle vittorie di Cesare ed 
area sperato il compimento delle magnifiche 
promesse di quello. 

Dopo la vittoria de' Cesariani a Filippi, i 
tribuni pensarono, atteso lo esaurimento dei- 
fi erario, di pagare i veterani in terre : Otta- 
viano distribuì ai suoi la provincia cremone- 
se, e siccome quei terreni non bastavano ni- 
fi avidilà soldatesca, se nc aggiunse buona 
parte di ' mantovani. 1 soldati corrcano sui 
poveri campi o ne cacciavano i pacifici pos- 
sessori e i vecchi coloni, e questi, lasciando 
ai predatori tulle le case loro, andavano ra- 
minghi pel mondo a cercar d' un asilo. Vir- 
gilio, avvolto nella comune disgrazia, dovè 
sgombrare dal suo poderello. e se non era 
l'amicizia di l'ollione, il principe de’ poeti 
Latini sarebbe sialo ridotto all'estrema ne- 
cessitò. Quel buon patrono fi indirizzò a Me- 
cenate, fin ilo quel lempo potentissimo sul 
cuore d'dllaviano ed .unicissimo delle lede- 
re c degenerali : il quale, accoltolo nella sua 
buona grazia. lo pre-enlò al triumviro, c Ion- 
io caldamente si adoperò che fi aviio podere 
gli fu tosto restituito. Sennonché il benefizio 
conseguilo |>oco mancò clic non gli tornasse 
vano, perocché ritornalo al suo campiscilo 
incontrò una fiera resistenza nel nuovo pos- 
sessore, un certo Ario centurione, il quale, 
avendo per nulla il dccrelo d' Ottaviano, gli 
si scagliò conico e lo costrinse a precipitarsi 
nel Mincio per salvare a nuoto la vita. Ed 
ecco il poeta mettersi nuovamente sulla via 
di Roma, ove accollo anche questa seconda 
volta con grandissima benevolenza, riebbe 
tulio quello che avea perduto ; ed invitato 
dalla cortesia dei patroni, fermò la sua stan- 
za colò, dove gli si offeriva maggiore op- 
portunità per comporre le sue opere. Le liete 
brigate degli amici nelle case di Mecenate, le 
conversazioni con Orazio, con Vario, con 
Gallo e con altri dotlissimi ed elegantissimi 

(!) Ecl. i. 



spiriti, le cene, i passalcmpi della grande 
città gli fecero dimenticare per poco le pas- 
sate disgrazie. 

Se lieto gli pareva il presente, più lieto nel- 
la benevola immaginazione gli si rappresen- 
tava il futuro. In questa speranza lo veniva a 
confermare anclie la pace di quel lempo con- 
chiusa a brindisi fra Ottaviano c Antonio per 
opera di l'ollione c di Mecenate. In questa 
occasione compose ed a Polliono dedicò quel 
misterioso canto, nel quale si presagisce il 
vicino nascimento d' un fanciullo divino clic 
discendendo dal cielo rinnoverebbe il mon- 
do, incamminerebbe il secolo ringiovanito 
per altre vie, e le Iracce delle auliche colpe 
cancellerebbe (I). A chi poteva» convenire, 
dice il Canlù (2), presagi tanto superbi? Non 
ad un figlio di Pollione. governatore d' una 
provincia : non a Marcello, del quale incinta 
Ottavia sorella d' Ottaviano andava sposa di 
Antonio nel di della pace di brindisi, perché 
non germe del triumviro, ma del primo ma- 
rito, nulla aveva a che fare col futuro pacifi- 
catore del mondo ; non al figlio clic polca 
nascere dalle nozze d' Ottaviano e Scribonia 
conchiusc in quell'anno stesso, perchè Olia- 
vamo avea spartito allora le proiincic co' due 
colleglli uè polca sperare per qnel figlio la 
successione alfi impero. Non trovandosi un 
fanciullo al quale questi presagi si convenis- 
sero, fu pensalo che il poeta alludesse non 
più a un individuo, ma ad un’ intiera gene- 
razione migliore, che nella sua fantasia spe- 
rava ancor di vedere; o, se pure ad un indi- 
viduo si dovesse tornare, si ricorse alfi anti- 
ca supposizione d’ alcuni eruditi che videro 
in quel fanciullo annunziato il Cristo. Virgi- 
lio cerio non era profeta ; ma parla a nome 
della Sibilla Cumana, i cui vaticini sono pu- 
re citali dagli scrittori ecclesiastici. La tradi- 
zione d' un vicino redentore era diffusa per 
tutto l’Oriente : poteva egli benissimo averla 
udita da qualche Ebreo d' Alessandria, e tra- 
sfusa in un canto come simbolo di quella fe- 
licità che si compiaceva di vedere nel futuro. 

La pittura della sua vita privata, dalle gioie 
campestri dell' età prima lino agli sludi suoi 

(2) Si. Un hi- II. 



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DI VIRGILIO E DEILE SUE OPERE 



filosollci, era congiunta a quella più nobile C 
più commovente delle sciagure pubbliche da 
lui fortcmenlo sentite e compiante. E questi 
canti soavi erano destinali appunto, sotto il 
velo assai trasparente deU'allcgorin, a dipin- 
gere le calamità cagionate dalla guerra civi- 
le, e s' indirizzavano ad una generazione re- 
sa tanto infelice dalla maledetta cupidigia di 
sovrastare. Polevasi trovar poesia più capace 
a richiamare 1’ umanità a più miti pensieri ? 

Virgilio, prima di spiccare il volo, avea 
fatto sperimento delle suo forze, c quando ne 
Tu sicuro disse animosamente a sè stesso : 
Surgamm : sole! esse gravi» cantanlibus umbra. 

Ed. Kb 

E lasciando 1' oscurità sorse tant' allo, da 
esser poi concordemente appellato principe 
de' poeti Latini. 

L’ opera che in gran parte gli mcrilò que- 
sto titolo fu la Gcorgiea, nella quale impiegò 
selle degli anni più vigorosi. A quel modo 
che nell' egloghe tolse a modello Teocrito, 
qui Virgilio dice da sè medesimo d’ aver se- 
guitale l'orme di Esiodo. Ma cosi esprimen- 
dosi egli rende omaggio, più clic ad Esiodo, 
alla greca letteratura, dalla quale molto ave- 
va appreso e molto era ancor per apprende- 
re rispetto alla forma dol favellare. In quanto 
poi alla materia, la Geòrgie» è I' opera chu 
mcn delle altre riscnlcsi della greca influen- 
za : opera veramente romana per l'argomen- 
to che tratta ; più romana ancora pel fine al 
quale dal poeta nazionale 6 rivolta. E in ve- 
ro, il carattere che distinse il genio latino lo 
trovi nell' agricoltura c nello leggi : dall' a- 
ratro si passava alle prime magistrature e al 
comando degli eserciti, c da questi gloriosi 
carichi si ritornava con cilladina modestia 
all'aratro. Sennonché poi le conquiste porta- 
rono le ricchezze, le ricchezze il lusso, e que- 
sto i corrotti costumi, da' quali ogni male. 
L'agricoltura s'ebbe in dispregio quanto pri- 
ma era stata onorata. Yeniicr le guerre civili 
irmiscr tutto sossopra : le campagne si de 
tastarono; cacciali gli antichi coloni, vi s' i- 
stallarono i soldati, più atti a metterle a ru- 
ba che a coltivarle. Gli eifclli di queste vio- 
lenze si fecero presto sentire : la miseria e la 
fame errante per le campagne s'accostava di 



VII 

giorno in giorno alla popolosa città; gli umo- 
ri per poco ricomposti s'uudavau nuovamen- 
te turbando. Virgilio ben conobbe in questa 
condizione di cose il tema più accomodato 
a’ suoi canti : rimettere cioè in onore 1" ara- 
tro abbandonalo allora e spregiato con tanto 
danno delio nazione : oltre il hello idealo 
delia vita campestre ritratto nella Buccolica, 
i dimostrare i vantaggi reali che da quella vi- 
ta si poteano ritrarre ; quindi detlare i pre- 
cetti di quell'arte benefica. E per mettersi in 
una condizione di vita consentanea al suo 
genio amico della solitudine e della campa- 
gna, abbandonò la vita agitata di Roma, elio 
gii cominciava stranamente a pesare, c si 
trasportò dapprima nella dolce quiete dei 
campi Tarcntini ; indi sulle rive dello Spcr- 
chio, sul Taigclo e nelle ombrose valli del- 
l'Kino, beala sede delle boscherecce divinità. 

.Nel tempo che ii poeta era lutto in questi 
paciflci studi, divamparono nuove cagioni di 
discordia fra Ottaviano e Antonio. Virgilio 
muove lamcnloso grido a quel romoro di 
guerra clic dalla Germania sino alle rivcdcl- 
l'Eufrale si distendeva, e benevolo come suo- 
le ad Augusto non sa trovare miglior parlilo 
a giuslilicarlo clic il rappresentarcelo trasci- 
nato da’ duri eventi, il mondo stette anche 
adesso sospeso sopra i suoi fati ; ma la lotta 
non fu tanto lunga quanto poteva temersi, e 
tosto Roma ebbe a gioire delia nuova che 
Antonio e Cleopatra s‘ eran dati disperata- 
mente la morte. 

Omai.non restava più segno alcuno di di- 
scordia civile, nessun ostacolo più si oppo- 
neva alle disposizioni beneficile per la re- 
pubblica che Ollaviano aveva negli ultimi 
tempi manifestale. Sopra lui solo tutte le 
ambizioni, tulle le speranze si concentrava- 
no. Ed egli, venuto al colmo della gloria e 
della potenza, si dimostrava di sì modeste 
voglie, elio i più de'conteniporanci si potero- 
no sulle sue vere intenzioni ingannare. 

Virgilio, coll' animo sì ben disposto verso 
Augusto, più si confermava nelle concepite 
speranze. Le guerre civili da lui tanto lamen- 
tale eran terminate per sempre ; chiuso il 
tempio di Giano ; a migliori costumi il po- 
polo incamminato : veramente il nuovo orili- 



vili 



DI VIRGILIO E DELLE SUE OPERE 



no di cose da lui proretato sorgeva. Coll’ ac- 
cesa fantasia egli riandava tutta la storia di 
quel popolo maraviglioso che da si umili 
principi avea disteso il terror del suo nome 
fino alle ultime regioni del mondo ; vedeva 
qual era ancora, benché lacero e pesto dalle 
civili discordie, c quale ancor diverrebbe al- 
lorché le arti della pace avessero risanale le 
antiche piaghe c ringentiliti i costumi; quan- 
do, alTralcllandosi a lui tutti i popoli delle 
provinole italiane in una grande cittadinan- 
za, non formerebbero che un sol popolo, una 
città sola ; non una Roma romana, ma una 
Roma italiana. Questo vasto progetto di Ce- 
sare, che pareva fosse morto con lui, lo ve- 
deva adesso risuscitalo, vicino ad effettuarsi; 
raccoglieva nell" Eneide le sparse tradizioni 
di tuli' i popoli dell' Italia, le collegava con 
quelle del popolo Romano; esaltando le menti 
con la narrazione delle glorie passale, mag- 
giori ne vaticinava nel futuro, c cantava l'im- 
pero derno del popolo rigeneralo. 

Dirigendo l' opera sua ad uno scopo mo- 
rale c politico, il poeta volle rieducare il po- 
polo Romano giunto al colmo della corruzio- 
ne, e così rieducalo avviarlo a continuare e 
compiere la sua alla destinazione d' incivilire 
il mondo co' suoi esempi e con le sue leggi. 
Con la pittura de' semplici costumi pastorali 
richiamava gli animi dal lusso vituperoso, 
dall’ amore soverchio delle ricchezze, e rac- 
comandava la cittadina modestia; col rimet- 
tere in onore l’ arte de’ campi glorificava la 
parsimonia de' padri, quando il patrimonio 
privato era piccolo, grandissimo quello del 
pubblico ; col contare finalmente a' Romani 
l’ origine loro divina c le solenni promesse 
di Giove, ridestava ne’ pelli il sentimento di 
nazionale grandezza, e gli spingeva ad esten- 
dere sempre più quell" impero che i fati pro- 
mettevano eterno. 

Questo nobile scopo che si era proposto 
nel triplice suo lavoro Virgilio non consegui: 
le speranze create dalla sua benevola fanta- 
sia svanirono come la libertà ; i costumi, ri- 
formali per leggi, più si corruppero ; la re- 
ligione cadeva a misura che nuovi templi si 
fabbricavano, e si cantavano nelle feste resti- 
tuite gl'inni sacri. Il clic proverebbe elio un 



libro, sin pur qual vogliasi, non basta a ri- 
mettere nella diritta via il popolo che cam- 
mina a ritroso; ma non scemerebbe la lode 
a quel sommo che potentemente volle il be- 
ne di Roma e d' Italia, c a questo consacrò i 
più bei versi che abbian mai risonato su lab- 
bro mortale. 

Quando imbarcò per Alene, Orazio gli di- 
resse quell’ode nella quale prega Venere, le 
lucenti stelle de' fratelli d'EIcnacilrc dei 
venti a voler proteggere la nave su cui il 
gran poeta, me/ <i dell' anima sua, si tra- 
sportava nell' Attica. Giunto Virgilio in Ate- 
ne, meditava di recarsi nell'Asia Minore per 
visitare i luoghi da lui cantali, e dall'ispira- 
zione di quelle eroiche memorie prender 
nuova lena per ricorregger l' Eneide. Ma la 
salute gli si alllcvolt di tal fatta clic, invece 
di proseguire, dovè pensare a ritornare in 
Italia, nel dolce clima della Campania. Au- 
gusto, reduce dall' Oriente, passando per 
Alene, lo invitò a continuar seco il viaggio 
per Roma ; ma dovè lasciarlo in Mcgara, do- 
ve il male stranamente gli si aggravò. Quan- 
do parve al poeta d' essersi riavuto, si rimi- 
se in mare, tanto era l' amore che all' Italia 
lo spingeva ; ma questa nuova fatica lo fece 
assai peggiorare c appena potè giungere a 
Brindisi. Quivi, dopo alcuni giorni di dolo- 
roso languore, il 22 di settembre pagò il co- 
mmi debito alla natura nell'età ancora verde 
d' anni cinquantadue. 

Prima di morire, chiese caldamente gli 
fosse data 1’ Eneide, deliberalo di darla alle 
fiamme come opera indegna per la sua im- 
perfezione d' esser lasciala nelle mani del 
pubblico e tramandata a' posteri. Quello che 
non potè fare da sé, ordinò fosse fatto da al- 
tri ; ma Vario e Tucca gli dissero che Augu- 
sto non avrebbe permesso mai quello stra- 
zio ; ed allora lasciò loro il poema a patto 
che nulla vi fosse aggiunto o levalo. 

Per ordine d' Augusto furon le ossa di lui 
trasportate a Napoli c sepolte sulla via cho 
conduce a Pozzuoli. Quella tomba fu sem- 
pre visitata da’ piò grandi ingegni, antichi c 
moderni, i quali vi cercarono nuove ispira- 
zioni a’ loro versi : fra gli altri Stazio, Silio 
Italico, il Boccaccio, il Petrarca, e quel San- 



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DI YinGILIO E DELIE SUE OPERE 



li 



nnzzaro clic bramò e ottcnno d'avervl vicino 
il sepolcro. 

Virgilio fu grande della persona, di larghe 
spalle, di colore olivastro, di rusticana fac- 
cio, tanto trascurato nel vestimento che gli 
amici lo proverbiavano. Non ebbe nelle ma- 
niere neppure il segno di quell'eleganza che 
squisitissima ebbe ne’ versi ; era anzi rozzo 
e impacciato nel discorrere come nel cam- 
minare. Derivava ciò da un modesto ritegno 
che talora aveva del selvatico. Se nel passar 
per le vie si accorgeva d' esser mostralo a 
dito dalle genti per P uomo grande eh’ egli 
era, fuggiva a celarsi nella casa più vicina. 
Epperò pochi ebbero la comune estimazione 
al pari di lui, tributata non tanto all' inge- 
gno, quanto alle sue singolari virtù. A Na- 
poli per la sua continenza era chiamato Par- 
tenia, cioè vergine : c questa lode la merita 
pure per la castigatezza del costume, rara in 
quel tempo, che regna in tutte le sue opere. 

II. 

Niuno, o che c' inganniamo, ha giudicato 
con maggior sicurezza di discernimento e di 
gusto delle traduzioni de' classici Latini fat- 
te nc’vari secoli della nostra letteratura, che 
il Cereselo nella sua eccellente Storia delta 
Poesia in Italia. Epperò ci è avviso che non 
sia per esser contrastata l' opportunità della 
citazione, se qui riporteremo alcuni brani 
della della opera, i quali varranno a viem- 
meglio spiegare e confermare le ragioni, se- 
condo le quali ci siamo determinali nella 
scelta delle versioni, e che già abbiamo ac- 
cennate in altri volumi di questa raccolta. 

« Si potrebbe dire di quei dotti del Quat- 
trocento ( cosi il sullodato autore nella sua 
Lez. XLYI ) una cosa che sembrerebbe un 
paradosso, ed è vera, che cioè studiarono 
accanitamente — scusale il vocabolo — ma 
non sentirono l’antichità. ., Quegli affaccen- 
dali adunatori di letterarie dovizie giacque- 
ro per la massima parte senza molla gloria ; 
ma i ncpoli loro, giovandosi de' tesori appa- 
recchiali, empierono del loro nomo e della 
loro fama il secolo in cui vissero. Anzi il Cin- 
quecento godette siffallamento della eredità 



legatagli dagli antecessori, che spesso di- 
menticò di fare da sè, sognandosi di poter 
risuscitare l' età di Pericle e d’ Augusto. E 
per fermo, un tale ritorno non sarebbesi mai 
potuto credere tanto possibile, quanto in 
questo secolo, nel quale scrivcvasi e parla- 
va» latino quasi come a’ tempi d' Orazio e 
di Virgilio, disputavasi presso il Rucellai 
della filosofia greca siccome negli orti d' Ac- 
cadendo, e lenta vasi di dare aspetto c forma 
greca e latina, ossia pagana, anche a' doni- 
mi ed a’ riti del Cristianesimo. Ora, essendo 
cosi un tale studio passato in succo e sangue, 
non è a stupire che il Cinquecento traduces- 
se molto, e traducesse felicemente. Quel se- 
colo pensava e sentiva come gli originali che 
proponcasi di far conoscere. 11 Trecento tra- 
dusse mollo, ma conservando sempre T im- 
pronta propria e originale ; il Cinquecento 
può dirsi che traducesse quasi sempre, anche 
allora che scriveva di proprio. 

ii Dna bella prova di ciò che vi dico sem- 
brami di vederla in quella dote singolare 
delle versioni del Cinquecento, le quali sono 
fatte con tanta libertà e franchezza, che leg- 
gendole siete ognora tentato di credere d'a- 
vere innanzi agli occhi gli originali. Prende- 
te il Tito Livio di Jacopo Nardi, il Tacito di 
Bernardo Davanzali, c voi potete andare da 
un capo all’ altro di quei libri senza pensare 
clic i due storici abbiano scritto in altra lin- 
gua. Leggete i versi del Caro e dell’ Anguil- 
laia, e voi direte che T autore dell' Eneide 
e quello delle Metamorfosi non sarebbersi 
per avventura espressi diversamente, scri- 
vendo nel nostro volgare. 

« Ciò che vi dico di qnesti volgarizzatori, 
che debbono a mio avviso tenersi come i 
principi, puossi con egual dritto applicare 
al Machiavello, al Firenzuola, al Segni, al 
Bonfadio, al Varchi, all' Adriani, al Castel- 
vetro, e in somma a quanti posero allora la 
mano a tradurre.... 

« I pedanti dc'sccoli posteriori, intenden- 
do la fedeltà a modo loro, cioè in un senso 
lutto grammaticale, gretto c arido, abusaro- 
no le più volle dell' arte critica, istituendo 
una specie di nolomia poetica; c posta, per 
esempio, di fronte la lesta coronata di Yirgi- 




X 



M VIRGILIO E DELLE Sl'E OPERE 



lio a quella del commendatore Annibai Caro, 
sentenziarono: Vedete/ quelle linee non sono 
eguali; mancano alcune pennellale, quel- 
le rughe tono meno profonde, o cosi via. 
Talvolta presero i versi d' Ovidio, e staccan- 
doli ad uno ad uno vollero poi appaiarli con 
quelli dell'Anguiilara, stillandosi il cervello 
per cercarne le differenze... Sennonché, ad 
onta di tulli questi sforzi, non si giunse mai 
a spodestare nè il Nardi, nè il Davanzali, nò 
il Caro, nè l' Anguillara, e lo comune debi- 
tori con la scorta del buon scuso riuscì a ri- 
spondere alle freddure grammaticali, conti- 
nuando a leggere quei volgarizzatori del Cin- 
quecento, i quali tradussero più liberamen- 
te, ma sentirono meglio d' ogni altro gli an- I 
tic hi. i 

IH. 

Tenendo poi a parlare più particolarmen- 
te del Caro c delta sua versione dell'Encide, 
cosi si esprime il Ccrcscto : 

o II Caro non istancossi mai di adoperare 
intorno a' suoi lavori la lima... c quando per 
lo inllevolimcnlo della salute scntivasi giù 
costretto a desistere da ogni pubblico ufllzio 
c a cercar riposo in una amena villetta di 
Frascati, egli protcstavasi di non voler più 
sapere nè di poeti nè di poesia, nè di prose 
o prosatori; ma intanto non lasciava di dare 
l' ultima mano alle cose sue, c per tratteni- 
mento dallo scioperio preparava il suo più 
grande lavoro, cioè la versione dell' Eneide. 
Narrano ( ed egli medesimo panni ne accen- 
ni in alcuna delle sue scritture ) che medi- 
tasse di scrivere un poema, c clic la versio- 
ne dclUEneidc non avesse a giovargli se non 
come una prcpnrazionc alla grande intrapre- 
sa. Non so quanto fosse per essere felice il 
suo concetto... , ma noi dobbiamo almono 
rallegrarci che il pensiero di quella futura 
epopea cacciassclo anche non volendo nella 
fatica del volgarizzare, a 

E più innanzi : 

a II Caro, quantunque nelle sue Rime si 
adoperasse di sceverarsi alcun poco dalla 
comune de' Petrarchisti, sarebbe, non meno 
di tanti altri conlcm poranci suoi, caduto 



nella dimenticanza, so in qualità di poeta 
non si fosse serbalo un bello c luminoso di- 
ritto alta corona poetica con la versione del- 
l' Eneide, con la creazione di quel verso 
sciolto che puossi dire veramente tutto suo. 
con quello stupendo lavoro, che egli, senza 
per avventura sospettare che ad esso princi- 
palmente avrebbe il nome suo raccomanda- 
to, ci lasciò appena compiuto morendo. Sic- 
ché, per dirla con le parole del Carrcr, co- 
in' era toccato di rimanere senza l' ultima 
mano all’ originale Eneide, toccò pure di ri- 
manere alta tradotta, e nell’ un caso c'ncl- 
U altro per morte de’ loro autori. 

« 11 Caro, per conservare la nobiltà grave 
dell’ armonia virgi liana, tennesi in debito di 
rinunziare al soccorso della rima, e in ciò 
diede un duplice esempio d' accorgimento 
artistico c di non comune ardimento. Quan- 
tunque il verso sciolto risponda a maraviglia 
all' esametro latino, pure il Caro, se fosso 
stalo uomo di minor gusto e forza, avrcbbelo 
ad ogni modo rifiutalo, avendo innanzi a sè 
l' infelice tentativo del Trissino ed altri poco 
più felici.. .. a 

A'quali brani del Ccrcscto ci sia lecito ag- 
giungere pur questo luogo d' un altro critico 
di linissimo senso c giudizio, vogliam diro 
di P. Pellegrini, il quale nel suo Indice del- 
le scritture del leopardi, in proposito delta 
versione del libro secondo dell'Encide, lavo- 
ro giovanile di quel grande, cosi scrive: 

« Il nostro giovine poeta studia suo passo, 
compone la persona, gli atti, la voce, tutto 
pendendo riverente c trepido dal suo Virgi- 
lio, c non può intanto nè quello rappresen- 
tare nè sè medesimo. Il Caro all’ incontro 
non s' affanna di contraffare Virgilio, non 
bada a' suoni della sua voce, non alle peste 
delle sue piante; ma giltandosi per quei sen- 
tieri che più sono dal suo gusto e dalle suo 
forze, con quelle parole che la cosa gli dà, 
che dal suo affetto prorompono, non batte la 
stessa via, ma fa pari cammino, c con lui 
giunge pari ad un medesimo termine. » 

E nello stesso senso il Giordani, in queste 
parole che pone in bocca ad esso Annibal 
Caro : « — Prenderò le cose di Enea : ripe- 
terò il racconto virgiliano ; darò i falli c le 



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DI VIRGILIO E DELLE Sl'E OPERE 



il 



persemi;, anche gli alleili e le scnlcnzo del 
poela Ialino: ma riceveranno vollo e abito 
da me: di latini voglio che divengano ita- 
liani. Non pretendo alla maestà di Virgilio; 
comparirò non da principe, ina da gentiluo- 
mo. Non lo uguaglierei nella dignità, lo vin- 
cerò nell' evidenza. — E appunto di questo 
( soggiunge il Giordani ) Io supera manife- 
stamente ; poiché dell' altra, o volontario o 
impotente, gli cedclle. E in prova mi basii- 
no lo sterminio di Troia, le smanie della 
sfortunato Didone ; senza eh' io ne adduca 
altri luoghi non pochi. Sebbene quando volle 
mostrò di poterlo pareggiare; e ben gli stelle 
dappresso in una qualità diffìcilissima, che 
dall' indole e dagli scritti di lui non si aspet- 
terebbe ; ed è la nobile espressione di una 
o avità d' affetti delicati, ccc. ere. » 

Il Cinquecento però non ci à trasmessa 
una versione della Buccolica nè della Geor- 
gica, che valesse quelle di due poeti del se- 
colo nostro, riusciti interpreti degni dcU'ctà 
classica dello traduzioni: l'Arici e lo Shoc- 
chi : 

n Cesare Arici ( citiamo ancora il Ceresc- 



lo ) scrisse di molti versi o tentò quasi tutl'i 
generi di poesia, ma o fosse natura d' inge- 
gno, o indirizzo di studi, pane nato alla di- 
dascalica. Esordi col poema intitolato la Col- 
tivazione degli Ulivi, ma con quello sulla 
Pastorizia si mostrò tosto artefice consuma- 
lo. La Pastorizia è l'opera più finita, l'ope- 
ra dove sfolgoreggia in tutto la sua virtù l'in- 
gegno dell’ Arici, o come diceva con insolita 
lode il Giordani, l'opera classica e destina- 
ta durarca per l' onore d' Italia, s 

Le qualità dell' Arici poeta si ritrovano 
ncll'Arici traduttore, e la sua Buccolica mo- 
stra bene eh’ egli à sentito Virgilio, onde chi 
non può legger questo nell' originale non à 
mollo da rammaricarsi leggendolo nella sua 
versione. 

E lo stesso dicasi della Georgica volgariz- 
zato da Dionigi Shocchi, che per delicatezza 
e per grazia attica sto forse innanzi a tuli' i 
moderni traduttori. 

Sicché, dando la preferenza in questo no- 
stra Raccolta al Caro, all' Arici e allo Shoc- 
chi, noi crediamo non ci si possa contrasta- 
re d' aver posto a fronte del lesto virgiliano 
he classiche versioni. 






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DELL’ ENEIDE 






LIBRO PRIMO 



llle ego, qui quondam gracili modulato» avena 
Carmen, et, cgrcssus silvia, vicina coégi 
Ut quamvis avido parermi arva colono, 

(•rallini opus agricolis, al nunc liorrenlia Marti» 
Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris 
Italiani, fato profugus, l.avinaquc venit 
l.itora ; multum ilte et tcrrìs iaclatus et alto 
Vi superòm, saevac memorem lunonìs ob iram: 
Multa quoque et bello passus, dum cnndcrcl urbem, 
Inferrelquc deos Latio: genus linde I.alinum, 
Albaniquc patres, atque aline moenia llomac. 



Musa, mihi caussas memora, quo numinc laeso 
Quidve dolcns regina dcùm tot volvere casus 
Insignem pietale virum, tot adire laborrs, 
Impulerit. Tanlaene animis coeleslibus irae? 



Urbs antiqua fuit, Tjrii Icnuerc coloni; 
Carthago, Ilaliam conira Tibcrinaque longc 
Ostia, dives opttm, sludiisque asperrima belli: 
Qtiam Iuno fcrlur terris magis omnibus imam 
Postbabila coluisse Samo. Ilic illius arma, 

Ilio curri» fuit; hoc regnum dea genlibus esse, 
oiu’sainiu:, voi. III. 



Quell’ io che già tra selve e Ira pastori 
Iti Tiliro sonai l'umil sampogna, 

K clic, de'bosclti uscendo, a mano a mano 
Fei pingui e colti i campi, c pieni i voti 
U’ogni ingordo colono, opra che forse 
Agli agricoli è grata: ora di Marte. 

I.’armi canto, c "I valor del grand’eroe 
Che pria da Troia per destino ai liti 
D’Italia c di Lavinio errando venne; 

E quanto errò, quanto sofferse, in quanti 
E di terra e di mar perigli incorse, 

Come il trace l’insupcrabil forra 
Del ciclo, c di Giunon l’ira tenace; 

E con che dura c sanguinosa guerra 
Fondò la sua rilladc, c gli suoi Dei 
Ripose in Lazio; onde cotanto crebbe 
Il nome de'Lalini, il regno d’Alba, 

E le mura e l'imperio alto di Roma. 

.Musa, tu ebe di ciò sai le cagioni, 

Tu le mi détta: qual dolor, qual onta 
Fece la Duo, ch’é pur donna e regina 
De gli altri Dei, si nequitosa ed empia 
Contra un si pio; qual suo nume l’espose 
Per tanti casi a tanti affanni. Ahi I tanto 
Possono ancor lassù l’ire e gli sdegni? 

Grande, antica, possente e bellicosa 
Colonia de’ Fenici era Carlago, 

Posta da lungc incontr’ltalia e ’ncontra 
A la foce del Tcbro: a Giunon cara 
Sì, che le fur men care ed Argo c Samo, 
Qui pose Farmi sue, qui pose il carro, 

« 



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1 



HE 1.1.’ ENEIDE 



Si qua falò siuant, iam lum Icnditque fovclquc. 
Progcnicm scd onim Troiano a sanguine duci 
Audierat, Tyrias olim quae vertere! arces; 
llinc populum, late regem belloquc superbum, 
Venturoni eicidio l.ibyae: sic voi vere Parcas. 

Id nietuens, veterisqnc memor Saturnia belli. 
Prima quod od Troiam prò caris gesserai Argis: 
Nec dum eliain caussac irarum saevique dolorcs 
Ezciderant animo; manct alla mente repostum 
Iudicinm Paridi, , spretaeque iniuria fnrrnoe. 

Et genus invisum, et rapii Ganymcdis bonoros: 
His accensa super, iactatos aequorc loto 
Troas, relliquias Danaum atque immilis Achilli, 
Arcebai longe balio: multosque per annos 
Errabant, acli fatis, maria omnia circum. 

Tantao molis orai Romanam condere gentem. 



Vi* e conspectu Siculae telluri* in allum 
Vela dabant laeti et spumas salis aere rucbanl, 
Quum limo, aetcninm senans sub pectore vulnus, 
lloec secum: Meno inccpto desistere viclom, 

Nec posse Italia Teucrorum avertere regem? 
Quippe vetor fatis. Pallusne esurere classem 
Argivftm, atque ipsos potuil submergere ponto, 
Enius ob nolani et furias Aiacis Oilei? 

Ipsa, lovis rapidum inculata e nubibus ignem, 
Disiccitquc rates, everlitque aequora venlis, 
lllum, evspiranletn transflzo pectore flammas, 
Turbine corripuil, scopuloque infixil acuto. 

Ast ego, quae ditóni incedo regina, lovisque 
Et soror et coniuz, una cum gente tot annos 
Bella gero. Et quiaquam numcn lunonis adorni 
Praeterea, aul sappici aris imponal honorem? 



Qui di porre avea già disegno c cura 
(Se tal era il suo fato), il maggior seggio, • 
E lo scettro anco universal del mondo, 
ila già contezza avea ch'era di Troia 
Per uscire una gente, onde vedrebbe 
l.e sue torri superbe a terra sparse, 

E de la sua ruina alzarsi in tanto, 

Tanto avanzar d'orgoglio c di potenza, 

Che ancor de l'Universo imperio avrebbe 
Tal de le Parcho la voluhil rota 
Girar saldo decreto. Ella, che tema 
Avea di ciò, non posto anco in obblio 
Come a difesa de'suoi cari Argivi 
Posse a Troia acerbissima guerriera, 
Ripetendone i semi e le cagioni, 

Se ne senlia nel cor profondamenta 
Or di Pari il giudicio, or l'arroganza 
ll’Antigonc, il concubito d’Eletlra, 

Lo scorno d’Ebe, alfin di Ganimede 
E la rapina c I non dovuti onori. 

Da tante, oltre il timor, faville accesa 
Quei pochi alRilti c miseri Troiani 
CIFavanzaro a gl'incendi, a le ruine, 

Al mare, ai Greci, al dispieiato Achille, 
Tcnea lungo dal Lazio; onde gran tempo 
Combattuti dai venti e dal destino 
Per tutti i mari andàr raminghi c sparsi. 

Di si gravoso affar, di si gran molo 
Fu dar principio a la Romana gente. 

Eran di poco, e del cospetto appena 
Ile la Sicilia navigando usciti, 

E già, preso de l'alto, a piene vele 
Se ne gian baldanzosi, e con le prore 
F. co' remi farcan Fonde spumose; 

Quando punta Giunon d'amara doglia. 
Dunque (disse) ch'io ceda? e che di Troia 
Venga a signoreggiare Italia un re? 

Ch'io noi distorni? Oh mi son ronlra i Fati! 
.Mi sieno. Osò pur Pallade, c polco 
Ardere e soffocar già de gli Argivi 
Tanti navilii, c tanti corpi ancidcre, 

Per Beve colpa c folle amor d'un solo, 
Aiace d'Oflèo. Conira costui 
Ella stessa vibrò ili Giove il telo 
Gii! da le nubi; ella commosse i venti 
E turbò '1 mare e i suoi legni disperse: 

E quando ei già dal fulminato petto 
Sangue e fiamme anelava, a tale un turbo 
In preda il diè, che per acuti scogli 
Miscrabil ne fe'rapina e scempio. 

Tanto può l'olla? Ed io, io de gli Dei 
Regina, io sposa del gran Giove e suora, 
Son di qncst'una gente onuii tant'anni 
Nimica in vano? E chi più de' mortali 
Sarà che mi sacrifichi, e m'adori? 



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unno primo 



3 



Tuba Ruminalo scema (leu curde (ululili)*, 
Mmboruui in palriam, loca Tela furenlibus austri*, 
Acoliam renil. Ilic vasto rex Aeolus antro 
Luctanles ventos Irmprslatesque sonortis 
Imperio prendi, ac vinclis el carcere frenai. 

Illi indignarne* magno nini murmurc molili* 
Circum claustra fremimi: celsa sedei Acolus arce 
Secplra tcnens, mollitque animo*, el temperai iras: 
Si furiai, maria ac lerras eoelumque^irofundum 
Quippe fcrant rapidi secum, vcrronlquc per auras. 
Sed pater omnipolensspeluncis abdidit alris, 

Hoc motuens: molemque el monlcs insuper allos 
Imposuil, regemque dedii, qui focderc cerio 
Ki premere, et laias sciret dare iussus habenas. 

Ad quein lum luno supplex bis vocibus usa esl: . 



Acolc, namque libi divùm paler alque boininuin rea 
Ki mulccrc dedit lluctus el (oliere senio; 

Gens inimica mibi Tyrrhcnum navigai aequor, 

1 1 in m in Ilaliam porlans riclosquc Pcnales: 

Incute vim venlis, submersasque obrue pupprs; 

Aul agc diverso», et disiiec corpura ponto. 

Sunl mibi bis septem prncslanli corporc Nymphae, 
Quarum quae forma pulcherrima, Defopeam 
Connubio iungam slabili propriamque dicabo: 

Omnes ni lecum mcrilis prò talibus aiinos 
Eligai, el pulrhra faciat le prole parentem. 



Acolus liacc eonlra: Tuus, o regina, quid oples, 
Esplorare tabor; niilii iussa capessero fas est. 

Tu mibi, qundeniiiijnchnr rcgqj, ||| ggpplfl |(p'Q"<pm 
CrnirmSTTln das epulis accumberc divùm, 
THHItfÒrutliqdc faris lempeslalumquc polcnlem. 



Hacc ubi dicla, eavum conversa cuspido montem 
Impubi in latus; ac venti, velul agniine facto, 

Qua data porla, ruunt, et lerras turbine perflant. 
Incubuere mari, lolumque a sedibus imis 
lina Eurusque Notusquc ruunl creberque proccllis 



Ciò fra suo cor la Dea fremendo ancora, 
Giunse in Eolia, di procelle e d’austri 
E de le furie lor patria feconda. 

Eolo è suo re ch’ivi in un antro immenso 
Le sonore tempeste c i tempestosi 
Velili, si com’è d’uopo, afTrcna c regge. 

Eglino impetuosi c ribellanti 

Tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremilo. 

Che ne trema la terra c n’urla il monte. 

Ed ci lor sopra, regalmente adorilo 
Hi corona c di scettro, in alto assiso 
I.’ira e gl’impcli lor mitiga c molce. 

Se ciò non fosse, il mar, la terra e ’l cielo 

l acerali da lor, confusi e sparsi 

Con essi andrian per lo gran vano a volo. 

Ma la possa maggior del Padre eterno 
Provvide a tanto mal; serrigli e tenebre 
D'abissi e di caverne, e moli e monti 
!.or sopra impose; ed a re tale il freno 
Nè diè, cli’ei ne potesse or questi, or quelli 
Con rcrla legge o ratlenere, o spingere. 

A cui d’avauli l’orgogliosa Giulio. 

Allora umile e supplichovol disse: 

KOIo, poi clic il gran Padre del cielo 
A lauto miuislcrio ti propose 
Di correggere i venti c turbar Tonde, 

Gelile inimica a me, mal grado mio. 

Naviga il mar Tirreno; c giunta a vista 
È giù d'Halia, al cui reame aspira, 

E d'ilio le reliquie, ami Ilio lutto 
Seco v’adduce e i suoi vinti Penati. 

Sciogli, spingi i tuoi votili, gonfia Tonde, 
Aggirali, conrondili, sommergili, 

0 dispergili almeno. Appo me sono 
Sette e sette leggiadre ninfe c belle; 

E di tutte e più bella è più leggiadra 
fi Dciopéa. Costei vogl’io, per merlo 
Di ciò, che sia tua sposa, c che tu seco 
Di nodo indissolubile congiunto 
Viva lieto mai sempre, c ne divenga 
Padre di bella e di te degna prole. 

Eolo a rincontro: A le, regina (disse), 
Conviensi che tu scopra i tuoi desiri, 

Ed a me ch'io gli adempia, lo, ciò clic sono, 
Son qui per te. Tu mi fai Giove amico. 

Tu mi dèi questo scettro e questo regno; 

Se re può dirsi un che comandi a’venti. 

Io, tua mercè, su co'Celcsli a mensa 
Nel ciel m’assido; e coi mortali in terra 
Son di nembi posscnlo e di tempeste. 

Cosi dicendo, al cavernoso monte 
Con lo scettro d’un urlo il Ranco aperse; 

Onde repente a stuolo i venti uscirò. 

Avcan già co’ lor turbini ripieni 
Dì polve e di tumulto i colli e i campi, 



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I 



DELL' ENEIDE 



Africuj, ri vaslos volvunl ad lilora fi udii» . 

Imequitur damorquc virimi stridorque rallentimi. 
Eripiunl subilo nubes eoelumque ilirmque 
Tcuerorum cv ocillit: potilo noi incubai Dira. 
Inlonuere poli, et crebri.* mirai iguibus ocllirr: 
Pracscnlcmque «iris inlrnlanl omnia niorlcm. 
Estemplo Aencac soDuntur frigorc inombra. 

Ingenui, cl, duplice* Icndcns ad sidera palma», 

Talia voce refert: 0 lerquc qiioterque beali. 

Qui aule ora palrum Troiae sub nioenibus alti* 
Contigli oppeierel 0 Danaum forlissiine genlis, 
Tydide, mene Iliaci» occumbere campi» 

Aon potuissc, Inaque animam liane eDunderc delira. 
Sacvus ubi Acacidac telo iaccl llcrlor, ubi ingcns 
Sarpedon: ubi lol Simois corrcpla sub tindis 
Scula virtìm galea sepie et forlia corpo» \otvil? 



Talia iactnnli stridens Aquilone procella 
Vclum adversa ferii, fluclnsquc ad sidcra lullil. 
Frangunlur renai : lum prora averli! ri undis 
Dal latus: insequilur cumulo pracruplus aquac mons 
Ili smunto in fluelu pendrnl: bis unda debiscons 
Tcrram inlrr llticlus npcril; furi! acslus arrnis. 

Trcs iSolus abreplas in saia lalrnlia lorqucl, 

.Saia, vocali! Itali mcjliis quae in fluctibus Ara», 
llorsiiin immane mari stimino: trcs Eurus ab allo 
In brevia cl Syrlcs urget, miserabile visu, 
llliditqur vadis, atquc aggerc cingi! arrnac. 

Dilani, quae Lycios lldumque vrlirbal Oronlcn, 

Ipsius ante oculos ingcns a vertice potilo» 

In puppim ferii : nciililur prouusquc magislrr 
Volvilur in caput: asl ili un ter flurtus ibidem 
Torqurt agcns circum, et rapidus voral arquore verini. 
Apparcnl rari nanles in gurgitc vasto; 

Arma virAm, labulacquc, ri Troia gara per undas- 
laro validam llionci navrm, iam fortis Acbalac, 

Kl qua vrelus Abas, cl qua grandaevus All'Ics, 

Tiril liicnis: laiis lalcrum compagino» oninrs 
Aeeipiunt iuimirum inibrem, riuiisquc fali-euul 

t 



Quando quasi in un gruppo ed Euro e Aulo 
Savvenlaron net mare, c liti da l'imo 
l.o lurliàr si, clic nc fèr valli c monti: 

Molili, ch'ai ciel quasi di lieve aspersi, 

Snrli l'un dopo I alini, a mille a mille 
Volgendo, se ne glan caduchi e mobili 
Con suono e con ruiiia i liti a frangere. :i 
Il grido, lo stridore, il cigolare 
De' legni, de 4c sarte e de le genti, 

I nugoli chc'l ciclo e'I dì velavano, 
l.a buia nollc, ond'era il mar covcrlo, 

I luoni, i lampi spaventosi e spessi, 

Tulio ciò che s'udla, ciò clic vedevasi 
Rappresentato orror, perigli e morte. 

Smarrissi Enea di tanto, c tale un gelo 
Sentissi, che tremante al ciel si volse 
Con le man giunte, e sospirando disse: 

0 mille volte fortunati c mille 
I Color clic scilo Troia e nel cospcllo 
Dc'padri c de la patria ebbero in sorte 
Di morir comballendo! 0 di Tidéo 
Follissimo ligliuol! che io non potessi 
Cader per le tue inani, e lasciar ivi 
Questa vita alTaunosa, ove lasciolla 
Vinto per man del bellicoso Aditile 
F.llor famoso e Sarpedonle alierò? 

E se d'acqua perire era il mio falò, 

Perché non dote Xant», o Simoènla 
Volgoli lanl'armi c laidi corpi nobili ? 

Cosi dicca: quand'ecco d'Aquilone 
Tua bulTa a rincontro, che stridendo 
Squarciò la vela, c il mar spinse a le slello. 
Fiaccàrsi i remi; o là 've era la prua, 

(ìirossi il banco; e d'acqua un monlc intanto 
Venne come dal cielo a cader giù. 

Pendono or questi or quelli a Tonde in cima; 

Or a questi or a quei s'apre la terra 
Fra due liquidi monli, ove l'arena 
Aon mcn cli'a i liti, si raggira c ferve. 

Tre nc furori dal Nolo a Tare spinte: 

(Are chiamali gli Vusonii un sasso alpestre 
Da l'allena de Tonde allor celalo, 

Clic sorgea primo in allo mare altissimo) : 

E Ire ne fur dal pelago a le Sirli, 

.Miserabile aspetto I nc le secche 
Traile de l'Euro, e nc l'arena immerse. 

Una, che 'I carco aveu del fldo Oronlc 
Con le genli di Licia, avanti agli ocelli 
Di lui perì. Venne da Borea un'onda, 

Ami un mar che da poppa in guisa urlolla, 

Clic 'I temoli fuori o 'I lenionicr nc spinse; 

E lei girò si clic ’l suo giro slesso 
Le si fe' sotto c vortice e vorago, 

Da cui rapila, vacillante e china, 

Quasi slamo palèo, Ire volle volta 



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LIB110 i'HIJIO 



S 



Inlorea magno misteri murmurc poolum, 
Emissamquc liicmcm sensi! Neplunus, et imis 
Staglia refusa vadis. Gravitar commotus, et allo 
Prospicicns, somma placiduin caput citulil unda. 
Ilisicctam Aenoae (olo vide! acquorc classem: 
Kluclibus oppressos Troas cocliquc ruina. 

Ncc lalucrc doli fralrem lunonis et irac. 

Eurum ad se Zephjrrumque vocat; dcliinc lalia fatar: 



Tantanc vos generis tenuil fiducia rostri? 
lutti coelum (erramque, meo sinc numinc, venti, 
Itlisccre, et lantas audetis tollero nioles? 

Quos ego — Sud ifiolos pracslat componerc fluctus. 
Posi mitii non simili poena commossa luetis. 
naturate lugani, regique liaec dicitc vcslro: 
kon illi impcrium pclagi saevumque tridentem. 

Sud milii, sorte datum. Tenet ille immania saia, 
Vcslras, Euro, domos: illa se iactet in aula 
Acoius, et clauso ventorum carcere regncl. 



Sic ail, et dicto citius tumida acquora placai: 
Collectasque fugai nubes, solcraquc reduci!. 
Cymothoè simul et Trilon adnixus acuto 
Detrudunt naves scopulo: levai ipso tridenti; 

Et vastas aperii Syrtes, et temperai acquor; 

Alque rolis sutnmas levibus perlabilur undas. 

Ac, veluli magno in populo quum saepe coorla est 
Scdilio, sacvitquc animis ignobile vulgus; 
lamquc faces et sava volani; furor arma ministrai: 
Tum, piotate graverò ac mcritis si forte virum quem 
Conspcxere, sileni; arreclisquc auribus adslanl; 
lllc rcgil dici» animos, et pectora mulccl: 

Sic cunclus pclagi cecidil fragor, acquora postquam 
Prospicicus genilor, cocloquc inveelus aperto, 
Flcclit cquos, curruque volatis dal lora sccundo. 



Calossi gorgogliando, c s'alToudù. 

Già per l'ondoso mar disperse e rare 
Le navi e i naviganti si vedevano: 

Già per tutto di Troia a Tonde in preda 
Arme, tavole, arnesi a nuoto andavano: 

Già quel ch'era più valido c più forte 
Legno d'Ilioneo, già quel d'Acale 
E quel d'Abantc c quel del vecchio Alete, 

Ed al fin tutti sconquassali, a Tondo 
Micidiali arcano i fianchi aperti; 

Quando a tanto rumor da l'antro uscito 
Il gran Nettuno, e visto del suo regno 
Rimescolarsi i più riposti fondi: 

Oh, disse irato, ond'è questa importuna 
Tempesta? E grazioso il capo fuori 
Trasse de Tonde; c rimirando intorno, 

Per lo mar tutto, dissipati c laceri 
Vide i legni d'Enea; vidi Io strazio 
Oe’suoi, ch’a la tempesta, a la ruina 
E del mare e del ciclo erano esposti. 

E ben conobbe in ciò, come suo frale. 

Che ne fora cagion Tira c la froda 
De Tempia Giuno. Euro a sò chiama c Zefiro, 
E ’n (al guisa acremente li rampogna: 

Tanta ancor tracotanza in voi s'allctta, 

• Razza perversa? Voi, voi, senza me, 

Nel regno mio, la terra e T cicl confondere, 

E far nel mare un si gran moto osate? 

Io vi farò Ma di mestiero è prima 

Abbonazzar quesfonde. Altra fiata 
In altra guisa il fio mi pagherete 
Del fallir vostro. Via tosto di qua, 

Spirti malvagi; e da mia parte dite 
Al vostro re, che questo regno c questo 
Tridente è mio, e che a me solo è dato. 

Per lui sono i suoi sassi e le sue grotte, 

Case degne di voi. Quella ì sua reggia: 

Quivi solo si vanti; c per regnare, 

De la prigion de’suoi venti non esca. 

Cosi dicendo, in quanto appena il disse, 

Lo tempesta cessi, s’acquetò ’l mare, 

Si dileguàr le nubi, apparve il sole. 

Cimolòc c Triton, l'utia con Tonde, 

L'altro col dorso, le tre navi indietro 
Ritirir da lo scoglio in cui percossero. 

Le tre che ne l'arena cren sepolte, 

Egli stesso, le vaste sirli aprendo, 

Sollevò col tridente, ed a sè Irassele. 

Poscia sovra ai suo carro d’ogn’inlorno 
Scorrendo lievemente, ovunque apparve, 
Agguagliò T mare, c lo ripose in calma. 
Come addivicn sovente in un gran popolo, 
Allor che per discordia si tumultua, 

E ’mperversando va la plebe ignobile. 
Quando Caste e le faci e i sassi volano, 



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« 



I tlL' ENEIDE 



Defessi Aeneadao, quae prolima litora, ciirsu 
Contendimi petcrc, et I.ibyac tertuntur ad oras. 

Est in secesso longo loctis; instila portimi 
Efflcil obicclu late rum, quilius onuiis ab alto 
FrangilurThque sinus scindit sc*e linda rednetos. 
Uìtic atqurhlnc Tnstae rupcs geminique minunlur 
In coclum acopuli; quorum sub vertice late 
.Equora tuta sileni: tum sii vis scena coruscis 
Desuper, horrcnlique alruìR nemus imminet umbra. 
Eronlc sub adversa scopulis pendcnlibus antnim; 
lutila aquae dulc.es, viroque sediba saio; 
Nympbaruui domus. Ilio fessas non vincola naves 
lilla tenenl; urico non alligai ancora morso. 

Due. seplcm Aeneas collcclis navibus ontni 
Ex numero subii: ac. magno tclluris amore 
Egressi, optala pntiunlur Trocs arena, 

Et sale tabentes arlus in lilorc ponunl. 

Ac primum silici scintillam eicudil Aeliates, 
Susccpilquc ignem foliis, alque arida circiim 
Mulrimenla dedit, rapuilque in romite (lammam. 
Tum Ccrerem corruptam undis Cercaliaquc arma, 
Eipediunt fessi rerum| frugesque receplas 
Et torrerc parant flammis et frangere saio. 



Aeneas scopulurn interra conscendil, et tunnem 
Prospeclum late pelago petit; Antliea si quem 
Iactalum Tento videal, Plirygiasquc biremes, 

Aut Capyn, aut celsis in puppibus arma Caici. 
Navcm in conspeetu nullam, tres lilorc cervos 
Prospicil erranles: hos tota armenta sequuulur 
A tergo, et longtim per vallcs pascitur agmen. 
Constili! hic, arcumque manu ccleresquc sagitlas 
Corripuit, fidus quae tela gcrebal Acbates; 
Ducloresque ipsos primum, capila alta fcrcntcs 
Cornibus arboreis, sterni!; tum vulgns;ol omnem 
Miscct agcns lelis nemora inler frondea turbam; 
Nec prius absistit, quam seplcm ingentia viclor 



E l'impeto e 'I furor l'arme ministrano; 

Se grave personaggio e di gran merito 
Esce lor contro, rispettosi c timidi, 

Patto silenzio, attentamente ascoltano, 

Ed al detto di lui tulli s'acquetano: 

Cosi d'ogni ruina e d'ogni strepilo 
Fii 'I mar disgombro, allor che umile e placido 
A cielo aperto il gran rellor del pelago 
Co'suni lievi destrier volando scorselo. 

Slancili i Troiani a i liti ch'eran prossimi 
Drizzare il corso, e 'il l.ibia si trovarono. 

É di là lungo a la riviera un seno. 

Anzi un porto; che porlo un'isoletta 
Lo fa. che in su la bocca al mare opponsi. 
Questa si sporge cosuoi fianchi in guisa 
Ch'ogni vento, ogni finito, d’ogni lato 
Che vi percuota ritrovando intoppo, 

0 si frange, o si sparle, o si riversa. 

Quinci e quindi alti scogli e rupi altissime. 
Sotto cui stagna spazioso un golfo 
Securo e quelo: e v'ha d’alberi sopra 
Tale una scena, che la luce e 'I solo 
Vi raggia, c non penèlra: un'ombra opaca, 

Anzi un orror di selve annose e folte. 
D'incontro è di gran massi e di pendenti 
Scogli un antro muscoso, in cui dolci acque 
Fan dolce suono; e v'ha sedili c sponde 
Di vivo sasso: albergo veramente 
Di ninfe, ove a fermar le stanche navi 
Kè d’àncora t'è d'uopo, nè di sarte. 

Qui sol con selle, che raccolse appena 
Di tanti legni, Enea ricovcrossi; 

Qui stanchi lutti c maceri, c del maro 
Ancor paurosi, i liti appena attinsero. 

Clic a terra avidamente si gettarono. 

Arale fece in pria selce c focile 
Scintillar foco, e diegli esca c fotnrnlq^ 

Altri poscia d'intorno ad altri fuochi 
(Come quei clic di villo avean disagio, 

E le biade trovar corrotte e molli) 

Si dier con vari studi e vari ordigni 
A rasciugarle, a macinarle, a cuocerle. 

Intanto Enea, sovr'un de'scogli asceso, 
Quanlo si discopria con l'occhio intorno, 

Slava mirando se alcun legno fosse 
Per alcun luogo apparso, o quel di Antéo, 

0 quel di Capi, o pur quei di Calco 
die in poppa avea la più sublime insegno, 
fiìun ne vide; ma ben vide errando 
Gir per la spiaggia Ire gran cervi, e dietro 
D’altri minori innumcrabil torma, 

Che in sembianza d’armenti empian le valli. 
Fcrmossi: c pronto a colai uso avendo 
L'arco e 'I turcasso (chè quest'armi appresso 
Gli portava inai sempre il lido Acale), 



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LIBRO PRIMO 



1 



Corpora fumisi Rumi, et numerimi cum navibus acquei. 
Dine portum polii, et soo.ios parlilur in omnes. 

Vina, bonus quac deinde cadis onerarsi Aceslcs 
Lilore Trinacrio dederalque abeuntibus lieros, 

Dividi!, et diclis moerenlia pecioni mulcct: 



0 soci), (neque cnim ignari sumus ante malorum) 
0 passi graviora; dabil deus his quoque flnem. 

Vos cl Scyllacam rabicm pcnilusqiie sonanles 
Acccslis scopulos; vos el Ciclopia saia 
Eipcrti. Revocate animo», moestumque limorem 
Minile. Forsan el baec olim meminisse iuvabil. 

Per varios casus; per tol discrimina rerum 
Tendimus in Lalium, sedes ubi fata quietas 
Oslondunl; illic fas regna resurgere Troiae. 

Durale, cl vosmet rebus servale sccundis. 



Talia voce rcferl: curisque ingenlibus aeger 
Spem vullu simulai, premil alluni corde dolorem. 
liti se praedac accingimi dapibusque fuluris: 

Tergora deripiunt coslis, cl viscere nudanl; 

Pars in frusta secanl, veribusque tremenda figunl, 
Lilore aèna locanl alii, flammasque minislrant. , 
Tum vjctu revocanl vircs, fusique per berbam 
Implenlur veleria Bacchi pinguisque ferinae. 

Poslquam eiemla fames epulis, mensaeque remoiae, 
Amissos longo socios sermone requirunl; 

Spcmque melumquo inler dubii, seu vivere credanl, 
Sive estrema pali, nec iam exaudire vocalos. 

Praccipue pius Aeneas, nunc acris Oronli, 

Nunc Amjrci casum gemil, et crudelia secum 
Pala Lyci, forlemque Gyan, forlemque Cloanlhum, 



Diè lor di piglio; c saellando prima 
I primi Ire, che più vide allamenle 
Erger le leste c inalberar le corna, 

Contra '1 volgo si volse; e 'I Ilio c '1 bosco, 
Ovunque gli senrgea, fulgurò tulio. 

No caccio, ne feri, strage ne fece 
A suo diletto: nè si vide prima 
Sazio, che come sette cran le navi, 

Selle non ne vedesse a terra stesi. 

In questa guisa, ritornando al porlo, 

Gli sparti parimente a’suoi compagni : 

E con essi del vin, clic il burnì Acesle 
A l'uscir di Sicilia in don gli diede, 
Molt'urne dispensò per ricrearli. 

Poscia, a conforto lor, cosi lor disse: 
Compagni, rimembrando i noslri affanni, 
Voi n’avete infiniti ornai sofferti 
Vie più gravi di questi. E questi fine 
Quando che sia, ia dio mercede, avranno. 
Voi la rabbia di Scilla, voi gli scogli 
Di lutti i mari ornai, voi de' Ciclopi 
Varcaste i sassi; ed or qui salvi siete. 
Riprendete l'ardir, sgombrale i pelli 
Di temo e di tristizia. E verrà tempo 
Un di, che tante e cosi rie venture, 

Non cb'ailro, vi sarai! dolce ricordo. 

Per vari casi, per acerbi e duri 
Perigli è d'uopo far d'Italia acquisto. 

Ivi riposo, ivi letizia piena 
Vi promettono i Fati, e nuova Troia 
E nuovi regni al fine. Itene intanto; 
Soffrite, mantenetevi, serbatevi 
A questo, che dal ciel si serba a voi, 

SI glorioso e si felice stalo. 

Così dicendo a’suoi, pieno in sé stesso 
D'alti e gravi pensicr, tcnca velalo 
Con la fronte serena il cor doglioso. 

Fecer tulli coraggio; e di cibo avidi 
Già rivolli a la preda, altri le tergora 
Le svclgon da le coste, altri sbranandola, 
Mentre è tiepida ancor, mentre che palpila, 
Lunghi schidioni c gran caldaie apprestano, 
E l’acqua intorno e’I fuoco vi ministrano. 
Poscia d'un prato e seggio c mensa fattisi. 
Taciti prima sopra l'erba agiandosi, 

D'opima carne e di vin vecchio empiendosi, 
Quanto puon lietamente si ricreano. 

Poiché Tur sazi, a ragionar si diero, 

Con voce or di timore or di cordoglio. 

De' perduti compagni, in dubbio ancora 
Se Tesser vivi, o se pur giunti al fine 
Più de'richiami lor nulla curassero. 

Enea vie più di tutti, e di piotate 
E di dolor compunto, il caso acerbo 
Or d'Amico, or d'Oronle, e Lieo e Già 



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DEI.L* ENEIDE 



Et iam finis orai, qiium Inpilcr, nolliere summo 
Dcspicicns mare velivolum, lerrasque iaconlos, 
Liloraqtic, et latos populos, sic vortice cucii 
Conslitit, et Libyae defivit lumina regnis. 

Atque illum, lales iaclaniom pcclorc furar, 

Tristior et lacrimis oculos soffusa nilentos, 
Alloquilur Vcnus: 0 qui res hominùmque dcòmquc 
Jvtcrnis regis imperiis, et Fulmine terrcs, 

Quid meus Aoncas in te comminerò tantum, 

Quid Trocs potuore, quibus, tot renerà passis, 
Cunctus ob llaliam lorrarum olaudilur (irbis? 

Certe bine Romanos olim, «olvenlibus annis, 

Dine foro duclorcs, revocato a sanguine Teucri, 

Qui mare, qui terras omni ditiona lonoront, 
Pollicitus. Quac le, gonilor, sontenlia verbi? 

IIoc equidem occasum Troiac trislesquc ruinas 
Solabar, Fatis contraria Fata rependens. 

Nunc eadem Fortuna viros tot casibus aclos 
Insequitur. Quem das finem, rei magne, laborum? 
Anlenor potuit, mediis etapsus Achitis, 
lllrricos penetrare sinus atque intima lutus 
Regna Libtirnorum, et Fonlem superare Timavi, 
t'mlc per ora novem vasto cum murmurc monlis 
It mare proruptum, et pelago premil arva sonanti, 
llic tamen ille urbcm Palavi sedesque locavi! 
Teucrorum, et genti nomcn dedit, armaque fivit 
Troia; nunc placida compostus pace quicscit. 

Kos, tua progenies, coeli quibus adnuis arccm, 
Navibus (inFandum) amissis, unius ob iram 
Prodimur, atque Italis longc disiungimur oris. 
llic piclatis honos? sic nos in sceptra reponis? 



Ne'snspir richiamala e'I buon Cloanlo. 

Erano al line ornai; quando il gran Giove 
Da l'alta spera sua mirando in giuro 
La terra e ’l mar di questo basso globo; 
Mentre di lilo in Ilio, c d’uno in altro 
Sceme I popoli lutti ; ai ciclo in cima 
Fcrmossi, c ne la Libia il guardo affisse. 
Venere, allor eli' a le terrene cose 
Lo vide intento, dolcemente affiitla 
Il volto, e molle i begli occhi lucenti, 

Gli si Fece davanti, c cosi disse: 

Padre, che de’ mortali c de' celesti 
Siedi eterno monarca, c Folgorando 
Empi di tema c di spavento il mondo, 

E quale ha contro te Fallo si grave 
Commesso Enea mio Aglio, c i suoi Troiani, 
Che dopo tanti aFTanni n tante stragi, 

Clt’ban di lor Fatto il Ferro, il Fuoco c 'I mare, 
Non trovili pace, ni pietà, nè loco 
Pur che gii accetti? In colai guisa ornai 
Del mondo son, non dio d'Italia, esclusi t 

10 mi credca, signor (quel che promesso 
N’cra da le) clic tornasse anco un giorno. 
Quando che fosse, il generoso germe 

Di Dàrdano a produr quei gloriosi 
Eroi, quei duci invitti, quei Romani 
De I' universo domatori c donni : 

E tu mcl promettesti. Or come. Padre, 

11 cicl cangia destino, c tu consiglio? 

Questa sola credenza era cagione 

Di consolarmi in parte de l'eccidio 
De la mia Troia, ch’io soffi issi in pace 
Tante ruinc sue, Fato con Fato 
Ricompensando. Or la Fortuna stessa, 

E vie più Tcra, la persegue c dura. 

E quanto durerà, signore, ancora ? 

Tal non Fu già d'Antenore l'esilio ; 

Ch’ ei non più tosto de l’Achivc schiere 
Per mezzo uscio, che con Felice corso 
Penetrò d'Adria il seno ; entrò sccuro 
Nel regno de' Liburni ; andò fin sopra 
Al Fonte di Timavo ; e là ’vc il fiume 
Fremendo il monte intuona, e là 've aprendo 
Fa nove bocche in mare, e, mar già Fatto, 
Inonda i campi e romoreggia e Frange, 

Padoa Fondò, pose de' Teucri il seggio, 

E diè lor nome, c le lor armi affisse. 

Ivi ridotto il suo regno, e composto 
Quietamente, or lo si gode In pace. 

E noi, noi, del tuo sangue, e clic da le 
Avcmo anco del cielo arra c possesso. 

Ad una sola indegnamente in ira. 

Perdute, oimè I le proprie navi, fuori 

Siamo d' Italia c di speranza ancora 

Di non mai più vederla! Or questo è T pregio 



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LIBRO PRIMO 



» 



Olii subriilens homimim sator atquc dcorum 
Vultu, quo coclum lempcstatesqiic serenai, 

Oscula libati! nalae; debine talia Tallir: 

Parce raelu, Cyllicrea; mancnt immola tuorum 
Fata libi; cernes urbcm et promissa Latini 
Uoenia, sublimcmque fercs ad sidera codi 
Magnanimum Aencan; neque me sentcntia verlil. 
llic libi (rabor enim, quando haec te cura rcmordel, 
Longius cl volvcns Talorum arcana movebo) 

Bcllum ingens gore! Dalia, populosquc fcroccs 
Contunde!; moresque «iris et mocnia ponct, 

Tcrlio dum Lalio regnantom viderit acstas. 

Ternaquc transicrint Rululis liiberna subaclis. 

A! pucr Aseanius, cui nunc cognomcn luto 
Addilur (llus crat, dum rea stclit Dia regno), 
Triginla magnos volvcndis mensibus orbes 
Imperio ciplebil, regnumque ab sede Latini 
Transferct, et Longam multa ti muniet Albam. 
llic iam ter cenlum tolos regnabitur annós 
Gente sub liectorca; doncc regina sacerdos 
Marte gratis geminam partii dabil Dia pro.'em. 

Inde lupae fulvo tiulricis tegmine laetus 
ltomulus cicipicl gcnlcm, et Mavorlio comici 
Mocnia, Romanosquc suo de nomine dicci. 

Ilis ego ncc mctas rerurn nec tempora pono: 
Imperium sinc line dedi. Quin aspera [uno, 

Quac mare nunc lerrasquc mctu coelumquc Litigai, 
Consilia in melius referet, mecumquc Tovebit 
Romanos, rerurn dominos, gcnlomquc togalam. 

Sic placilum. Veniel lustris labcnlibus aclas, 

Ouum domus Assaraei Phlliiam clarasquc Mycenas 
Servii io premei, ac victis dominabitur Argis. 
Nascelur pulelira Troianus origine Cacsar, 
Imperium Oceano, famam qui lerminet astris; 
lulius, a magno demissum noincn lido. 

Dune tu olim coclo, spoliis Orienlis onuslum, 
Accipics sei-uro; tocabilur hic quoque volis. 

Aspcra tum positis milcsccnt sccula bcllis. 

Cana Fides, et Vcsla, Remo cum fratre Quirinns 
tura dabunt: dirne Terrò et compagibus aretis 
Claudcnlur Belli portac. Furor impius inlus, 

Sacra sedens super arma, et centum vinctus acni] 
Post Icrgum nodis, fremei borridus ore cruento. 



VlBClLIO, VOI. etneo 



Clic si dete a pieladc ? E questo è I regno 
Clic da te, Padre mio, ne si promette? 

Sorrise Giove, c con quel dolce as|>cllo 
Con clic ’l cicl rasserena e le tempeste, 
Rimirolla, bacìolla, c cosi disse : 

Non temer, Citcrea , cliè saldi c certi 
Stanno i Fati de’ tuoi. S’ adempieranno 
Le mie promesse : sorgeran le torri 
De la novella Troia : vedrai le mura 
Di Lavinio ; porrai qui fra le stelle 
Il magnanimo Enea. Cliè nè T desiino 
In ciò si cangi-ri , nè’l mio consiglio. 

Ma per trarti d' affanni, io te ’l dirò 
Più chiaramente, e scoprirotti intanto 
De’ Fati i più reconditi secreti. 

Figlia, il tuo figlio Enea tosto in Italia 
Sarà ; farà gran guerra, vincerà ; 

Domerà fere gonfi ; imporrà leggi ; 

Darà costumi, c fonderà città : 

E di già, vinti i Rululi, tre verni 
E Ire stali regnar Lazio vcdrallo. 

Ascanio giovinetto, or detto lulo, 

Ed Ilo prima infin eh' Ilio non cadde. 
Succedergli ; e frema giri interi 
Del maggior lume, il sommo imperio avrà. 
Trasferirallo In Alba : Alba la Lunga 
Sarà la reggia sua possente c chiara. 

Qui regneranno poi sotto la gente 
D’ Ettore un dopo I* altro un corso d’anni 
Tre volle cento ; fin eli’ Dia regina 
Vergine e sacra, del gran Marte pregna, 
D’un parlo produrrà gemella prole- 
indi capo ac Ila Romolo invitto. 

Questi, invece di manto, adorno il tergo 
De la sua marzia! nudrice lupa. 

Di Marte fonderà la gran cittadc , 

E dal nome di lui Roma diralla. 

A Roma non pongo io termine o fine ; 

Chi; fla del mondo imperatrice eterna. 

E l'aspra Giulio, che or la terra e il mare 
E il ciel per tema intorbida c scompiglia. 
Con più sano consiglio al mio conforme 
Procurerà elio la Romana genie 
In arme c ’n toga a l’ universo imperi. 

E cosi stabilisco: c cosi tempo 
Ancor sarà di' Argo, Micene c Flia 
E i Greci lutti tributari c servi 
De la casa di Assàraco saranno. 

Di questa gente, c de la Iuta stirpe. 

Clic da quel primo lulo il nome ha preso, 
Cesare nascerà, di cui l' impero 
E la gloria fìa tal, clic per contine 
L’ uno avrà l' Oceano, c F alba il cielo. 
Questi, già vinto il lutto, poi che onusto 
De le spoglie sarà de l’ Oriente, 



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10 



LEU.' ENEIDE 



Haec sii, ci Maia gciiimm demillit ab allo, 

1 1 lerrac, ulquc novac patcanl Carlhaginis arocs 
Ilospilio Teucris, no Tali ncscin Dido 
Finibili arcarci. Volai illc por aera magnum 
Remigio a la rum, ac I.ibyac cilus aitetitit oris. 

El iam lussa faeit; ponuntque ferocia Poeni 
Corda, volenle deo. In primis regina quieluni 
Accipii in Tcucros animimi mentemquo benignam. 



Al pius Aoiicas, per noclem plurima volvens, 
l’I primum lux alma dala est, dire, locosque 
Erplorare nnvos, quas renio accessorii oras, 

Qui lencanl (nani inculla ridcl), bomincsne, fcracne, 
Quacrcrc consliluil, sociisque Macia rcferrc. 

Classcm in conrexo nemorum, sub rupe cavala 
Arboribus clausam circum alque horrcnlibiis umbris 
Occulil: ipsc uno gradilur comitalus Adiate, 

Rina manu lato crispans baslilia ferro. 

Cui malcr media scsc tuli! oblia sii va, 

Virginis os habilumquc gerens, el virginis arma 
Spariamo, vcl qualis equos ThrcTssa faligat 
Harpalyce, rolucrcmquc fuga prceverlilur Eurum./' 
Namque bumcris de more liabilem suspenderat arcuili 
Venatriv, dederalque comam dilTundore renlis, 

Nuda genu, nodoque sinus colicela fiucnles 
Ac prior, Heus, inquii, iuvenes, monstralc, mearum 
Vidislis si quam bic erranlcm forte sororum, 

Succi nclam pbarelra el maculosac legminc lyncis, 

Ani spumanlis apri cursum clamore premenlem. 




Sic Vciius; el Vencris conira sic lilius orsus: ’ | 



Aneli' egli airi da le qui seggio elenio, 

E laggiù fra’ mortali incensi e voli. 

I.’ aspro secolo allor, l’ ormi deposlc, 

Si farà inilc. Allor la sanla Vesta, 

E la candida Fede e il buon Quirino 
Col frale Remo il mondo in cura avranno. 
Allor con salde e ben ferrale sbarre 
De la guerra saran le porle chiuse : 

E dentro fra la ruggine sepolto, 

Con cento nodi incatenalo e stretto 
Gran tempo si starà l’ empio Furore ; 

E rabbioso fremendo orribilmente, 

Con fuoco a gli occhi, c bava o sangue ai denti 
Morderà l’armi e le catene indarno. 

Cosi detto, spedi tosto da l’alto 
Di Maia il Figlio a far si eh' ai Troiani 
Fosse Carlago c il suo paese amico, 

Perchè del Foto la regina ignara, 

Non fosse lor, per ferità de' suoi 
0 per sua tema, inospitale e cruda. 

Vasscne il messaggier per l’ aria a volo 
Velocemente, e ne la Libia giunto, 

Quel che imposto gli fu, ratto eseguisce. 

E già, la dio mercè, lasciano i Peni 
l.a lor fierezza ; e la regina in prima 
S' imbeve d' un alleilo e d' una mente 
Verso i Troiani alTabilc c benigna. 

La notte intanto del pietoso Enea 
Molli furo i sospir, molli i pensieri. 

Conrhiusc al Un che all' apparir del giorno 
Spiar dovesse, c riportarne avviso 
A’suoi compagni, in qual paese il vento 
(ìli avesse spinti ; e s' uomini, o pur fere 
( Perchè incollo il vedea) quivi abitassero. 
Cosi tra selve ombrose e cave rupi 
Fatti i legni appiattar, sol con Acato, 

E con due dardi in mano in via si pose. 

In mezzo della selva una donzella, 

Ch’ era sua madre, si coni' era avanti 
Che madre fosse. Incontro gli si fece. 
Donzella a Tarmi, a l'abito, al sembiante 
Parca di Sparla, o quale in Tracia Arpalice 
Leggiera c sciolto, il dorso affaticando 
Di fugace dcslrier, l’ Ebro varcava. 

Al collo avea di cacciatricc un arco 
Abile c lesto, i crini a l’ aura sparsi, 

Nudo il ginocchio ; e con bel noJo stretto 
Tenca raccolto colla gonna il seno. 

Ella fu prima a dire : Avreste voi, 

Giovani, de le mie sorelle alcuna 
Vista errar quinci, o ch'aggia l'arco al fianco, 
0 clic gli omeri vesta d' una pelle 
Di cerner maculato, o che guidando 
D' un zannuto cignal segua la traccia ? 

Così Venere disse : ed a rincontro 



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LIBRO PRIMO 



H 



Nulla luaruiu audita uiilii aeque visa sororum, 

0, quam te memoretn? virgo; namque liaud libi vullus 
Mortali.*, ncc vox hominem sonai. 0 dea certe; 

A n Phoebi soror? an Nympharum sanguini* una? 

Sis Mix, nostrumque leve*, quaccunque, la borni), 

Et quo sub coclo tandem, quibus orbis in oris 
laelemur, doccas. Ignari hominuinquc locoruinquc 
Erra m us t vento huc cl vastis fluclibus acti. 
rvX* Multa libi anlejaras nostra cadct liostia destra. 

• —u 

~ F; 



Timi Venus: liaud equidem tali me dignor lionoic. 
Virginibus Tyriis mos est gestore pliarctram, 
Purpureoque alte suras vincire colliurno. 

Punica regna vides, Tyrios et Agenoris urbem; 

Sed fincs Libyci, genus intraclabilc bello. 

Imperium Dido Tyrio regii urbe profccta, 

Ciermanum fugiens. Longa est iniuria, longae 
Ambages; sed summa sequar fasligia remili, 
lluic conimi* Sychacus crai, ditissimus agri 
Plioeniciim, et magno miserac dilcctus amore, 

Cui pater intaclam dcdcral, primisque iugaral 
Orninibus; se«l regna Tyri germanus liabebat 
Pygmalion, sedere ante alios immanior omues. 

Quos inter medius venit furor. Ilio Sychaeum 
Impins ante aras alque auri caecus amore 
Ciani ferro incaulum superai, securus amorum 
Gcrmannc; factumque diu cclavit, et negram, 

Multo maius simulans, vana spc lusit amanlem. 

Ipsa sed in somnis inhumali venit imago 
Coniugis, ora modis altollens pallida miris: 

Crudcles aras Iraiectaque pectora ferro 
Nudavil, caccumque domus scelns omnc releiit. 

Tum celerarc fugam patriaque eveedere suadel, 
Auìiliunique viae veteres tellurc recluti il 
Tlicsauros^ìgnotum argenti pondus et auri. 

Ilis commota fugam Dido*sociosquc parafai. 
Conveniunt, quibus aut odium crudele tyranni 
Aut mclus acer erat; naves, quac forte paratac, 
Compiimi, oneranlquc auro; porlantur avari 

Pygma (ionia opes pelago; dux fermila faei L ^ I 

Dcvencrc locos, ubi nunc ingcntia ccrnes 
Mocnia surgentemque novac Cartilagini* arccin; 
Mcrcaliquc solum, facli de nomine Byrsam, 

Taurino quanlum possent circumdarc tergo. 

Sed vos qui tandem, quibus ani veni sii s ab oris, 

Qtiovc lenctis iter ? — Quaercnti tolibus ilio 
Suspirans imoque Iralicns a pectore vocciu : 

i 



» 



DI Venere il Figliuol cosi rispose. 

Niuna ho de le lue veduta, o intesa. 

Vergine, qual li dico, o di che nome 
Chiamar li deggio ? che terreno aspetto 
Non è già ’l iuo, nè di mortalo il suono. 

Dea sei lu veramente, o suora a Febo, 

0 liglia a Giove, o de le Mure alcuna : 

E chiunque li sii, propizia c pia 
Vèr noi li mostra, e i nostri affanni ascolla, 
binile sotlo qual ciclo, in qual contrada 
Siamo or del mondo. Chè raminghi andiamo; 
E qui dal verno c da Ibrluiia spinti 
Nulla o de gli abitami, o de' paesi 
Notizia abbiamo. A le, se a ciò in' aiti. 

Di nostra man cadrà piè d' una vittima. 

Venere alior soggiunse : lo non in' arrogo 
Celeste onore. In Tiro usan le vergini 
Hi portar arco c di calzar collimi ; 

E di Tiro c d‘ Agenore le gelili 
Traggon principio, clic qui seggio lian poslo: 
Ma T paese è di Libia, ed avvi in guerra 
Genie feroce. Or n’ è capo c regina 
liido elio, da 1‘ insidie del fratello 
Fuggendo, è qui venula. A dirne il lutto 
Lunga fùra novella c lungo illirico. 

Ma, toccandone i capi, atea cosici 
Siclico per suo consorte, una il piè ricco 
Di lerra c d' oro, che io Fenicia fussc, 

Da la meschina unicamcnlc amato, 

Anzi il suo primo omorc. li padre inlalla 
Nel primo iior di lei seco legnila. 

Ma nel regno di Tiro nvea lo sccllro 
Pigmalfon suo frale, un signor empio. 

Un (iranno crudele c scellerato 
Più eh' altri mai. Venne un Turor fra loro 
Tal, clic Siclièo da questo avaro c crudo, 
Per scic d’ oro, ove nidi guardia pose. 

Fu Ira gli altari ucciso. E non gli valse 
Clic la germana sua laido F amasse. 

Ciò fc’ culaiamente ; c per celarlo 
Vie piè, con finzioni e con menzogne 
Deluso un tempo ancor l' aillilla amante. 

Ma nel fin, di Sichéo la stessa imago 
Fuor d'un sepolcro uscendo, sanguinosa, 
Pallida, macilente, spaventevole 
Le apparve in sogno e presentono, avanti 
Gli empii altari ove cadde, il crudo ferro 
Che lo Irailsse, e del suo frate tutte. 

L‘ occulte scctlcraggini le aperse. 

Poscia : Fuggi di qua, fuggi, le disse, 
Tostamente e tulliano. E par sussidio 
De la sua fuga, le scoperse un luco 
Sotterra, ov’ era iuesliniabil somma 
I)' oro»d' argento, di moli’ anni ascoso. 
Qaiuci Dido commossa, ordine occulto 



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DELI.’ ENEIDE 



. 

^ ' a J 0 dea, si prima repctcns ab origine pergom 
Et vacci annalcs noslrorum andire laborum, 

Ante dicm clauso eomponcl Vesper Olympo. 

Nos, Troia antiqua (si vcslras folle per nurcs 
Traine nomcn iit) diversa per acquerà veclos, 

Furie sua Libycis lempeslas appulil oris. 

Som pius Aeneas, raplos qui ev liosle Penalcs 
Classe veho menim, fama super aethera notus; 
Italiani quaoro |. airi, un, el gamia ab love stimino. 
Bis denis Phrygìum consccndi navibus aequor, 
Maire dea monslranle viam, dola fata scculus ; 

Vii seplcm eonvulsac undis Euroqtic supcrsunl. 
Ipse ignotus, egens, l.ibyac deserta peragro, 
Europa atquc Asia pulsus. — Ncc plura qncrenlcm 
, \> Passa Vcnus medio sic interrala dolore est : 

•v» 



Quisquis cs, liaud, erodo, invisos eoelcslibus auras 
\ ilalcs carpis, Tyriam ijui advcncris urbem. 

Porge modo, atquc bine le reginac ad limina perfer.. 
Namquc libi rcduces socios elassemquc relalam £■■ 
Nunlio, el in tulum, versis aquilonibus, aclam, 

Ni frustra augurium vani docuerc parenlcs. 

Adspicc bis scnos laetantes ogmine eyenos ; 

Aclhcria quos lapsa plaga lovis ales aperto 
Turbabai coclo : none terras ordine longo»- 
Aul capere aut caplas iam despeclaro videnlur.» 



Di fuggir tenne, c d‘ adunar compagni ; 

Chè multi n’ adunò, parte per odio, 

Parie per tema di si rio tiranno. 

Le navi, che lrovàr nel lido preste, 

Cnricilr d’ oro, c (òr vela in un subilo. 

Cosi T velilo porlosscne la speme 
De P avaro ladrone. E fu di donna 
Questo si degno e memorabil fallo. 

Giunsero in questi luoghi, ov* or vedrai 
Sorger la gran cillade e P alla ròcca 
De la nuova Cartago, che dal fallo 
Birsa nomossi, per I* astuta merce 
Clic, per fondarla, fòr di laido silo 
Quanto cerchiar di bue potesse un tergo. 

Ma voi chi scic f onde venite ? c dove 
Drizzale il corso vostro ? A lai richieslo 
Pensando Enea, dal piò prorondo petto 
Trasse la voce sospirosa, c disse : 

0 dea, se da principio i nostri affanni 

10 contar li volessi, e lu con agio 
Udir una da me si lunga istoria, 

Aon finirci, cliò fino avrebbe il giorno. 

Noi siam Troiani (se di Troia antica 

11 nome ti pervenne unqua a gli orecchi ), 

E la tempesta clic per tanti mari 
Già colali!' anni nclravolvc c gira, 

N' ha qui, come lu vedi, al Im gillati. 

Io sono Enea, quel pio ette da' nemici 
Scampati ho meco i mici pairii Penati, 

Fino a lo stelle ornai nolo per fama, 

Italia va cercando, rhc per patria 
Giove m' assegna, autor del sangue mio. 

Con diccc c dicco ben guarnite navi 
Uscii dì Frigia, il mio destin seguendo 
E lo splendor de la materna stella. 

Or sette me ne son restale appena, 

Scommesse, aperte e disarmate tutte. 

Ed io mendico, ignoto e peregrino, 

De l' Asia in bando, da l’ Europa escludo, 

E ’u fin dal mar pillalo or ne la Libia 
Vo per deserti iitospili e selvaggi. 

E qual ni' è piò del mondo or luogo aperto ? 
Venere intenerissi ; e nel suo figlio 
Tarn' amara doglianza non soffrendo, 

Cosi il duol con la voce gl’ interruppe : 

Chiunque sei, tu non sei già, cred'io, 

Al oielo in ira ; poi eh' a si grand' uopo 
Ti diè ricovro a si benigno ospizio. 

Segui pur francamente : e quinci in corto 
Va di questa magnanima regina ; 

Ch’io già l’annunzio le tue navi, e i tuoi 
Da miglior remi in miglior parte addotli 
Salvi c sccuri ornai, se i miei parenti 
Non ni' ingannar quando gli augurìi appresi. 

Mira ià sopra a quel tranquillo stagno 4 



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LIBRO PRIMO 



13 



t)l rcduces illi ludunt slridcnUbus alis, - 
RI codu cimerò pollini, cautusque dolere ; 

1 lauri aliler puppesquo tuife pubesque tuorum 
AuWportum tene!, nul pieno subii ostia velo. 
Porge modo, el, qua le ducil via, dirige gressum. 



Oiiit et atprlens rosea cervice rcfulsil. 
Ambrosiaeque comaedivinum vertice odorem 
Spiravere ; pedes veslis dcfluvil ad imos ; 

El vera incessi! paluil dea. lite ubi matrem 
Agnovit, tali fugicntem csl voce scculus : 

Quid nalum lolics crudclis lu quoque falsis 
Ludis imaginibus? Cur dcilrae iungero dcilram 
Non dalur, ac vcras audirc el reddere voces ? 

Talibus incusal, gressumque ad moenia tendil. 

Al Venus obscuro gradienles aere sepsil, 

El multo ncbulae circuii! dea ludi! amiciu, 

Cernere ne quis cos, neu quis conlingere posscl, 
Molirivc morain, aut vcnicndi posccrc caussas. 

Ipsa Paplmui sublimis abil. sedesque revisit 
Laela suas, ubi lemplum illi, cenlumque Sabaco 
Ture calcai arac, scrtisque rcccnlibus balani, i \ C 



Corripuere viam inlcrca, qua semita monslral. 
lamque adsccndcbant coliem, qui plurimus urbi 
Imminct, adversasque adspeelat desuper arccs. 
Miralur molem Aeneas, magalia quondam ; 
Jliralur porlas, slrcpilumquc, et slrala viarum. 
Inslanl ardenlcs Tyrii : pars ducere muros, 
Molirique arcem, el manibus subvolvere saia, 
l’ars optare locum ledo, et concludere sulco ; 
lura inagislralnsqne Icgunt, sanclumque senalum 
llic porlus olii eOodiuiil ; liic alla diedri 
Fundamcnla locanl alii, immanesque columnas 
Rupibus cicidunl, scenis decora alla futuris : 
Qualis apes acslnte nova per florca rura 
Eierccl sub sole labor, quum gcnlis adidlos 
Educunt fclus, aul quum liqueulia niella 



Dodici allegri cigni, die pur dianzi 
Confusi c dissipali a cielo aperto 
Erano in preda al fero augel di Giove, 

Com' or, sottraili dal suo crudo artiglio, 
Rimessi in lunga ed ozTosa riga 
Si rivolgono a terra, c già la radono. 

E s) com’ essi con gioiose ruote 
Trattando l'aria, col cantar, col plauso 
Mostralo han d' allegria segno e di scampo; 
Cosi placato il mare, a piene vele 
E le lue navi c gli tuoi naviganti 
0 preso lian porlo, o tosto a prender l'hanno: 
Vattene or lieto ove‘1 senlier li mena. 

Ciò detto, nel partir la neve e l’ oro, 

E le rose del collo e de le chiome, 

Come l'aura movea, divina luce 
E divino spirdr d’ ambrosio odore : 

E la veste, clic dianzi era succinta, 

Con tanta maestà le si distese 
Infiuo a’ piè, che a l’andar anco, c dea 
Veracemente c Venere mostrossi. 

Poscia che la conobbe, c la sua fuga 
0 fermare, o seguir più non polco, 

Con un rammarco tal dietro le tenne: 

Ah I madre, ancora lu vèr me crudele ? 

A clic tuo Aglio con mentite larve 
Tante volle deludi ? A che in' è tolto 
Di congiunger la mia con la tua destra ? 
Quando Oa mai eli' io possa a viso aperto 
VedcrA, udirti, ragionarti, e vera 
Riconoscerti madre ? Egli in tal guisa 
Si querelava ; e verso la cillade 
Se ne giono invisibili ambedue : 

Chè la dea, sospettando non tra via 
Fossero distornati o trattenuti, 

Di folta nebbia intorno gli coverse. 

Ella in allo levossi ; c Cipro e Pafo 
Lieta rivide, ov’ entro al suo gran tempio 
Da cento altari ha cento volle il giorno 
D'incensi c di gbirlandc odori c Itimi. 

Ed essi intanto in vèr le mura a vista 
Giunser de la città, che al colle incontro 
Fe’ lor superba e speciosa mostra. 
Meravigliasi Enea clic si gran macchina 
Già sorga, ove pur dianzi non vedovasi 
Fors" altro che foreste o che lugurii. 

Mira il travaglio, mira la frequenzia, 

E le porle c le vie pieno di strepita. 

Vede con quauto ardor le turbe Tirio 
Altri a le mura, altri a la ròcca intendono : 

E i gravi legni c i gran sassi che volgono 
Questi, che i siti ai propri alberghi insolcano; 
E quei, clic del senato c de gli ofllcii 
Piantali le curie e i fòri e le basiliche. 

Scorge là presso al mar, clic 'I porto cavano: 



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li 



DELL' ENEIDE 



Slipanl, et il ilici distcndunt nectarc cellas, 

Aul onera accipiunl venicnluni, aul agmiiic facto 
Ijitiaviim fucos pecus a pracsrpibus arccnl; 
Fervei opus, redolcnlquc llijmo fragranlia niella. 
0 furlunati, quorum iam mocnia stirpimi 1 
Acncns ai), cl fasligia suspicit urbis. 

Inferi se septus nebula ( mirabile diclu ) 
l’or medius, miscelane viris ; neque cernilur ulli 



Lucus in urbe fuil media, laclissimus umbrae, 

(ino priinum, iaelali undis et turbine, Foeni 
KITodcrc loco signum, rpiod regia Inno 
Monslrarat, rapul acris equi ; sic nam foro bello 
Egrcgiam el faciloni vlclu per sacrala gentem. 

Ilic lemplum limoni ingcns Sidonia llido 
Condcbal, donis opulenlum el numinc divac; 

Aerea cui gradibus surgebanl liniina, ncvacquc 
Aere Irabcs : foribus cardo slridebat alicnis. 

Hoc prinium in luco nova res obi, Ha llmorem 
l.cniit : bic primum Acneas sperare salutem 
Ausus, et aiìlictis melius confldere rebus. — ^ "M 
Namquc sub ingenti lustrai dum singula tempio, 
Itcginam oppcriens, dum, quac fortuna sit urbi, 
Arlillcumque manus inter se operumque laborem 
Miralur, videi Iliaca» et ordine pugnas, 

Bcllaquc iam fama lotum vulgata pcrorbem, 

Alridas, Friamumque, et saevum ambobus Acliillem. 
Constitit, et tacrimans: Quis iam loeus, inquit, Adiate, 
Quac regio in lerris nostri non piena laboris ? 
bn Priauius ! Suoi bic ctiam sua pracmia laudi ; 

Sunt lacrimac rerum, et mcntem morlalia tangunl. 
Solve melus ; feret bare aliquam libi fama salutem. 
Sic ail, atque animuni pictura pasr.it inani, 

Multa gemens, largoque liiimerlol flumìlie vultum. 
Namque videbat, idi bellanlcs Pergama circum 
liac fugercnt Graii, premerei Troiana iuventus ; 

Ilae Phrjgcs, instarci curru cristatus Acliilles. 

Nei: procul bine Rltcsi niveis tcntoria vclis 
Agnoscit lacrimans, [irimo quac prodita sonino 
Tydidcs multa vaslabal caede crucnlus, 

Ardcnlcsque averlil cquos in castra, prius quam 
Fabula gustasscut Truiac Xanlliumquc bibisscnt. 



! Qua sotto al colle, che un teatro fondano, 

Per le cui scene i gran marmi clic tagliano, 

E le colonno, clic (ani* allo s’ergono, 

Le rupi e i monti, a cui son figli, adeguano • 
Con tal sogliono industria a primavera 
Le sollecite pecchie al sole esposte 
Per fiorite campagne esercitarsi, 

Quando le nuove lor cresciute genti 
Mandano in campo a eór manna c rugiada. 

Del celeste liquor le celle empiendo : 

0 quando incontro a scaricare i pesi 
Van de l’ altre compagne ; o quando a stuolo 
Scacciano i fuchi, ingorde beslic e pigre, 

Clic, solo inlcnle a logorar l’altrui, 

De le conserve lor si fan presepi, 

Allor clic l’ opra ferve, allor che ’l mele 
Sparge di limo d’ ogni intorno odore. 

0 fortunali voi, di cui già sorge 
Il dcsTalo seggio I Enea dicendo, 

Arriva intanto a la muraglia, e chiuso 
Ne la sua nube, maraviglia a dirlo 1 
Tra genie e genie va, clic non è visto. 

Era nel mezzo a la cilladc un bosco 
Di sacro rezzo e gralo, ove sospinti 
Da la tempesta capitare i Peni 
Primieramente ; e nel fondar trovare, 

Quel clic pria da Giunnn fu lor prcdcllo, 

I Di barbaro destrier teschio fatale ; 

La cui sembianza, imaginc c presagio 
Fu poi clic quella genie c quella lerra 
Saria per molle olà ferace e fera. 

Qui fabbricava la Sidonia Dido 

l'n gran tempio a Giunone, il cui gran nume 

E i doni c la materia e l’ artilizio 

Lo facean prezioso c venerando. 

Mura di marmo avea ; colonne e fregi 
Di mischi ; e gradi c Iravi c soglie e porle 
Di risonante c solido metallo. 

Qui si ristette Enea : qui vide cosa . 

Che tema gli scemò, speme gli accrebbe, 

E di pace aflidollo e di salute: 

Chè mentre, in aspettando la regina 
Ch’ ivi s’ attende, la città vagheggia, 

Mentre nel tempio l’apparalo a l’opro 
E ’l valor de gli artefici contempla, 

A gli occhi una parete gli s’olTerse, 
in cui tutta per ordine dipinta 
Era di Troia la famosa guerra. 

E conosciuti a le fattezze conte 
Prima il Troiano re, poscia l'Argivo 
E I fero d' ambulile nimico Achille, 

Fcrmossi : c lagrimandn, Oli disse, Acale, 

Mira fin dove è la notizia giunta 

De le nostre ruinc I Or quale ha ’l mondo 

Loco che pica non sia de’ nostri a (Tanni ? 



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LIBRO PRIMO 



Porli: alia fugiens omissis Troilus armis, 
liifelin pucr, aitine impar congrcssus Achilli, 

Fcrlur cquis, c.urruqiic liacret resupiitus inani, 

Loro lencns tamen; huic cervi vque coma eque lrahunlur 
Per lerrom, et versa pulvis inscribilur liasla. 

Inlerea ad (empiimi non acquee Palladis ibant 
Crinibus liiades passis, peplumque ferebant 
Supplicilcr Irisles, cl lunsae pcclora palmis. 

Diva solo (ivos oculos aversa lenebat. 

Ter circum lliacos rnptavcrat Hec.lora muro*, 
Evanimumquc auro corpus vcndebal Acbilles. 

Tum vero ingcnlcm gemilum dot pectore ab imo, 
li spolia, ut currus, utque ipsum corpus amici 
Tcndciitemquc manus Priamum conspcxit inermes. 

Se quoque principibus permiilum agnovil Achivis ; 
Eoasque acics cl nigri Memnonis arma. 

Duci! Amazonidum lunalis agmina peltis 
Pcnthcsilea furens, mediisque in minibus ardel, 

Aurea subnectens ciscrlac cingula mammao, 

Bellatm, audclquc viris concurrerc virgo. 



Ecco Priamo, ecco Troia : c qni si pregia 
Ancor virtù. Chè ferità non regna 
Là 've umana miseria si compiagne. 

Or li conforta, clic tal fama ancora 
Di prò ti Ha cagione e di salvezza. 

Cosi dicendo, e la già nota istoria 
Mirando, or con sospiri, ed or con lutto 
Va di vana pittura il cor pascendo. 

E come quei eh' a Troia il lutto vide, 

I siti rammentandosi e le zulTe, 

Col sembiante riscontra il vivo c'1 vero. 
Quinci vede fuggir le Greche schiere. 
Quinci le Frigie : a quelle Ettore infesto, 

A queste Achilie ; a cui pareo d' intorno 
Che solo il suoli del carro c solo il moto 
Del cimiero avventasse orrore c morte. 

Nè senza lagrimar Reso conobbe 
A i destrier bianchi, a i bianchi padiglieni, 
Falli di sangue in mille parti rossi : 

Chè sotto v' era DTomcde, anch' egli 
Insanguinato ; o si Tacca d’ intorno 
Alla strage di gente che nel sonno, 

Prima clic da lui morta, era sepolta. 

Vedea quindi i cavalli ai campo addotti, 
Che non polàr, fato a’ Troiani avverso ! 

Di Troia erba gustare, o ber del Xanlo. 
Scorgo d’ un' altra parte in fuga volto 
Trollo, già scia' armi c senza vita : 
Giovinetto infelice, che, di tanto 
Disegnale ad Achille, ebbe ardimento 
Di stargli a fronte. Egli in sul vèto carro 
Giacca rovescio, c strascinato c lacero 
Da' suoi cavalli : avea la destra ancora 
A le redine involta, c T collo e i crini 
Traca per terra ; e l' asta, ondo trafitto 
Portava il petto, con la punta in giuso 
Sericea note di sangue in su la polve. 

Ecco in tanto venir di Palla al tempio 
In lunga schiera ed ordinata pompa 
Le donne d’ Ilio a far del peplo ofTcrla. 
Ballunsi i pelli, c scapigliate c scalze 
Paion pregar divolaincnlc afflitte 
Perdono c pace ; ed ella irata c fera, 

Volle le luci a terra e T tergo a loro, 

Mostra fastidio di mirarlcjc sdegno, 

Vede il misero Euòr che già tre volle 
Tratto era d’ilio a la muraglia intorno. 
Vede il padre più misero, che in forza 
Del disputalo suo nimico Achille. 

Oro in premio gli dà del suo codavero: 
Spettacolo crudcl che gli trafigge 
Profondamente e più d'ogni altro il core, 
Ove il carro, gli arnesi e'I corpo stesso 
Vede d’ un tonto amico, ed un re tale, 

Che solo e disarmalo c supplichevole 



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IU 



DELL' ENEIDE 



lineo dum Dardanio Acncac miranda videnlur, 

Dum slupct, oblutuque liacrcl defixus in uno, 

Regina ad lemplum, formo pulcherrima Dido, 

Incessi!, magna iuvenum stiparne caterva, 

Qiialis in Eurolac ripis, aut por ioga Cynliii 
F.vcrcel Diana choros, quam mille sceulac 
llinc atquc bine glomerantur Orcades : illa pharetram 
Ferì liumero, gradicnsque deas supcrcminct omnes ; 
Lalonac tacitimi pcrlentant gandia pcclus : 

Talis crai Dido, lalcm se iacta ferebat 
l’cr medios, instons operi regnisque futuris. 

Tura foribus divac, media testudinc templi, 

Sepia ormis, solioquc alte subima, resedit. 
loro dabat legesque viris, operumque laborem 
Partibus aequabal iuslis, out sorte Iraliebat ; 

Quum subito Arncas concursu accedere magno 
Anlbca Scrgestumquc videi rorlemque Cloanthum, 
Teuerorumque alios, alcr quos acquorc turbo 
Disputerai, pcnilusque alias avexcral oras. 

Obslupuit siinul ipse, simul pcrcussus Acbales 
Laetiliaquc mctuque ; avidi coniungerc dcxlras 
Ardcbant, sed rea onimos incognita turbai. 
Dissimulane cl nube cava speculanti^ amidi, 

Quac fortuna viris; classcm quo litore linquant ; 

Quid veniant. Cunctis nam ledi naxibus ibant, 
Oranlcs veniam, cl lemplum clamore pclcbant. 



Postquam inlrogressi, cl coram dola copia fondi, 
Maximus llioncus placido sic pectore cocpil : 



Stassi a l' ueciditor del flgtlo avanti. 

Vi riconobbe ancor sè stesso, ov'ero 
A dura mischia incontro a’ Greci croi. 
Riconobbe lo stuol clic d’ Oriento 
Addusse de l’ Aurora il negro figlio : 

E lui raffigurò, che di Vulcauo 
Avca I' usbergo c l' armatura indo-so. 

Scorge d'altronde di lunati scudi 

Guidar Pcnlcsiléa l' armate schiero 

De l' Amazzoni suo : guerriera ardita 

Clic, succinta e ristretta in fregio d' oro 

L* adusta mamma, ardente c furiosa 

Tra mille e mille, ancor che donna c vergine, 

Di qual sia cavalicr non teme intoppo. 

Stava da tante meraviglie ad una 
Sola vista ristretto, attento e fisso 
Enea picn di vagtiezza c di stupore ; 

Quand' ceco la regina, accompagnala 
Da reai corte, con rcal conlegno 
Entro al tempio bellissima comparve. 

Qual su le ripe de l' Eurola suole, 

0 ne' gioghi di Cinto, allor Diana 
di' a l'Orcadi sue la caccia indice, 

A mille che le fan cerchio d’ intorno, 

Divisar vari offici, c faretrata 
Da la faretra in su gir sovra l’ altre 
Neglettamente altera, onde a Lalona 
S’ intenerisce per dolcezza il core ; 

Tale era Dido, e tal per mezzo a'suoi 
Se ne già lieta, e dava ordine c Torma 
Al nuovo regno, a i magisteri, a l' opre. 
Giunta al cospetto de la diva, in mezzo 
De la maggior tribuna, in allo assisa, 

Cinta d' armati in maestà si pose : 

E mentre con dolcezza editti e leggi 
Porge a la gente, c con cgual compenso 
L" opre distribuisce c le fatiche, 
Rivolgendosi Enea, nel tempio stesso 
Vede da gran concorso attorncggiali 
Entrar Scrgesto, Anlèo, Cloanto c gli altri 
Troiani, che da sè disgiunti e sparsi 
Avca dianzi del mar l’ aspra tempesta. 
Slupor, timor, letizia, tenerezza, 

E desio il’ abbracciarli e di mostrarsi, 
Assalirò in un tempo Acatc c lui. 

Ma, dubbi del successo entro la nube 
Dissimulando se ne stero, e elicli, 

Per rilrar clic seguisse, c che seguito 
Fosse già de le navi c de' compagni, 

Di cui questi eran primi c gli più scelti 
Di ciascun legno, e già pieno era il tempio 
Di tumulto c di voti clic altamente 
Si sentian vènia risonare c pace. 

Poiché furo cnlromessi, c eli* udienza 
Fu lor concessa, il saggio llionèo 



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Lidio CHIMO 



17 



0 Regina, novam cui condcre Iupilcr urbcm 
lustiliaquc dodi! gente» frenare superba», 

Trucs te miseri, venlis maria omnia recti, 

Oramus: proliibc infandos a navibus ignes ; 

Carcc pio generi, et propi us res adspice nostras. 

Non nos aul Terrò Libjcos popularc Penales 
Venimus, aut raplas ad dora vertere praedas ; 

Non ca vis animo, ncc tanta superbia riclis. 

Est locus, llcspcriam Graii cognominc diclini, 

Terra antiqua, polens armis atquc ubere glcbac ; 
Oenotri rodere viri ; nunc fama, minores 
Italiani ditissc duci: de nomine gentem. 

Due cursus fuit ; 

Quum subito assurgens Ouctu nimbosus Orion 
In vada cacca tuli!, penilusque procacibus austris 
Perque undas, superante salo, perque inria saia 
Dlspulit. ltic pauci rcstris adnavimus oris. 

Ouod genus Irne liominuin ? quaeve hunc tam barbara 

morem 

Pcrmillil patria ? Hospitio proliibcmur arcuae ; 

Bella cicnl, primaque volani consistere terra. 

Si genus bumanum et morlalia temnilis arma, 

Al sperate dcos memores fondi atque nefandi. 

Bei crai Acncas nobis, quo iiisliur alter 
Nec pictatc fui! nec bello maior et armis ; 

Quem si fata vintiti serrani, si vcscitur aura 
Actheria, ncque adirne crudelibus occultai umbris, 
Non mctus, officio ne te ccrlasse priurem 
Pocnitcat. Sunt et Siculis reglonibus urbe», 

Arvaque, Troianoque a sanguine elarus Accstes. 
Quassalam renlis liccat subducere classcm, 

Et silris optare Irabes et stringere remos ; 

Si dalur Italiam, sociis et rege reccplo. 

Tendere, ut Italiam tacli Latiumque pclanius ; 

Sin absumla salus, et te, pater optimc Tcùcrum, 
Pontus liabet Libyae, nec spcs iato restai iuli, 

Al frcla Sicaniae saltelli sedesque paratas, 

Bude huc adveeli, regemque petamus Aceslcn. 

Talibus llioneus ; cuncli simul ore fremebant 
Dardanidac. 



Virgilio voi. eneo 



Prese umilmente in colai guisa a dire: 

Sacra negina, a cui dal cielo £ dato 
Fondar nuova ciltadc, e con giustizia 
Por freno a gente indomita e superba, 

Noi miseri Troiani, a lutti i venti, 

A lutti i mari ornai ludibrio e scherno, 
Caduti dopo P onde in preda al foco, 

Clic da’ tuoi si minaccia a i nostri legni, 
Preghiamli a provveder che nel tuo regno 
Non si commetta un si nefando eccesso. 

Fa cosa di te degna : abbi di noi 
Pietà, clic pii, clic giusti, che innocenti 
Siamo, non predatori, non corsari 
De le vostre marine o de l'altrui : 

Tanto i vinti d’ ardire, e gl' infelici 
D' orgoglio e di superbia, oimè I non hanno. 
Una parte d’ Europa è, clic da' Greci 
Si disse Esperia, antica, bellicosa, 

E lenii terra, da gli Enotrii colla. 

Prima Enotria nomossi, or, come è fama, 
Preso d' Italo il nome, Italia £ detta. 

Qui T nostro corso era diritto, quando 
Orlon tempestoso i venti, e 'I mare 
Si repente commosse, e mar si fero, 

Venti st pertinaci, e nembi e turbi 
Cosi rabbiosi, clic sommersi in parte, 

E dispersi n' ha tutti : altri a le secche, 

Altri a gli scogli, ed altri altrove ha spinti ; 
E noi pochi, di tanti, ha qui condotti. 

Ma qual s) cruda gente, qual si fera 
E barbara città quest’ uso approva, 

Che ne sia proibita anco l’ arena ? 

Clic guerra ne si mova, o ne si vieti 
Di star nell’ orlo de la (erra appena ? 

Ah I se de l' armi e de le genti umane 
Nulla vi cale, a Dio mirate almeno, 

Che dal ciel vede, e riconosco i merli 
E i demeriti altrui. Capo e re nostro 
Era pur dianzi Enea, di cui più giusto, 

Più pio, più prò’ ne l' armi, più sagace 
Gucrricr non fu giammai. So questi è vivo, 
Se spira, se il deslin non ce l'invidia, 
Quanto ne spcriam noi, tanto potresti 
Tu non pentirli a provocarlo in prima 
A cortesia. Ne la Sicilia ancora 
Avém terre, avém armi, avémo Aceslc 
Che n’ è signore, ed è de’ nostri anch’ egli. 
Quel clic vi domandiamo £ spiaggia, £ selva, 
É vitto da munir, da risarcire 
I vóli e stanchi e sconquassati legni. 

Per poter lieti ( ritrovando il duce 
E gli altri nostri, o se pur mai il’ è dato 
Veder l' Italia ) ne l' Italia addurne : 

Ma se nostra salute in tutto £ spenta, 

Se le, nostro signor, nostro buon padre, 

3 



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18 



l ELL' ENEIDE 



Tum breviter Didn, vulliim demissa, profalur : 
Solvilc corde meloni, Teucri, sccluditc curas. 

Rcs dura et regni novilas me (alia cogunl 
Molici, et late linea custode lucri. 

Quis gcnus Acneadutn, quis Troiac nescial urbcm 
Virlutesque virosque, aul tanti incendia belli ? 

Neu obtusa adco gestamus pectora Poeni, 

Nec lam aversus cquos Tyria Sol iungit ab urbe. 
Scu vos Ilesperiam magnani Saturniaque arta, 
Site Erycis Bncs regemque oplatis Accstcn, 
Ausilio tutos dimitlam, opibusque iuvabo. 

Vullis et bis ni c cu in pariler considero regnis 7 
Urbcm quam statuo, vestra est ; subducile narcs ; 
Tros Tyrinsquc mihi nullo discrimine agelur. 
Alquc utinam rcv ipso, Noto compulsus eodem, 
Adforcl Aeneas ! Eqnidcm per lilora ccrlos 
Dimiltam, et Libyae lustrare etlrcma iubebo, 

Si quibus cieclus silvis aul urbibus errai. 



His animum arredi diclis, et forlis Achales 
Et pater Aeneas inmdndum erumpcre nubem 
Ardebant. Prior Acucan compcllat Acbatcs : 

Nate dea, quac nunc animo sentcntia surgit ? 
Omnia tuta vides ; classem sociosque receptos. 
Unus abest, medio in fluctu quem vldimus ipsi 
Submersum ; diclis respondent celerà malris. 

Vii ca fatus crai, quum circumfusa repente 
Scindi! se nubes, et in aclhera purgai apcrtum. 
Restiti! Aeneas, claraquc in luce rcfulsil, 

Os humcrosquc dco similis ; namque ipsa dccoram 
Caesaricm nato genitrii, lumcnque iuventae 
Purpureum, et laelos oculis afllarat lionores: 
Quale manus addunt ebori dccus, aul ubi flavo 
Argentimi Pariusve lapis circumdatur auro. 

Tum sic reginam alloquilur, cunctisque repente 
Improvisus ail : Corani, quem quaerilis, adsum 
Troìus Aeneas, Libycis ereptus ab undis. 
sola iufandos Troiae miserala laborcs, 



Di Libia ba T mare, c più speranza alcuna 
Non ci riman del giovinetto lulo, 

Almen tornarne la mSicania, ond'ora 
Siam qui venuti, e dove il buon Acesto 
N’ è parato mai sempre ospite c rege. 

Al dir d' lli'onèo fremendo tutti 
Assentirono i Teucri, 

E la regina 

Con gli occhi bassi c con benigna voce 
Brevemente rispose : 0 mici Troiani, 
Toglietevi dal core ogni timore, 

Ogni sospetto. Gli accidenti atroci, 

I,a novità di questo regno a forza 
Mi fan s) rigorosa, e si guardinga 
De' mici confini. E chi di Troia il nome, 
Chi de’ Troiani i valorosi gesti, 

E l'incendio non sa di tanta guerra ? 

Non ban però si rozzo cuore i Peni ; 

Non si lungo da lor si gira il sole, 

Clic nè pietà, nè fama unqua v’ arrivo. 

Voi di qui sempre, o de la grand' Esperia 
E di Saturno che cerchiate i campi, 

0 clic vogliale pur d' Acesle c d’ Ericc 
Tornare a i liti, in ogni caso liberi 
Ve n'andrete e securi. Ed io d'aita 
Scarsa non vi sarò, nè di sussidio : 

E se qui dimorar meco voleste, 

Questa è vostra città. Tirale al lilo 
Vostri navill : chè da’ Teucri a’ Tirii 
Nulla scelta farò, nullo divario. 

Cosi quiTussc il vostro re con voi I 
Cosi ci capitasse I Ma cercando 

10 manderò di lui Uno a l’estremo 
De’ miei confini la riviera tutta, 

Se por sorte giltato in queste spiagge 
Per selve errando o per cilladi andasse. 

Rincorassi a tal dire il padre Enea 
E ’l farle Acnte ; c di squarciare il velo 
Slavati già disiosi. Acate il primo 
Mosse dicendo : Ornai, signor, clic pensi 7 
Tutto è sicura, c tutti a salvamento 
I nostri legni o i nostri amici avémo. 

So! un ne manca ; c questo a noi davanti 

11 mar sorbissi. Ogni altra cosa al detto - 
Di tua madre risponde. Appena Acate 
Ciò disse, che la (iugula s’aperse, 
Assotligliossi c col ciel puro unissi. 
Rimase in chiaro Enea, tale ancor egli 
Di chiarezza c d’ aspetto e di statura, 

Che come un dio mostrassi : e ben a dea 
Era flgliuol, che di bellezza è madre. • 

Ei de gli occhi spirava e de lo chiome 
Quei chiari, lieti c giovenili onori 

Cli’ ella stessa di lui madre gl' infuse. 
Tale aggiunge l'artefice vaghezza 



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unno primo 



tu 



Quac nos, rclliquias Danaum, tcrracquc marisquo 
Omnibus cxbaustos iurn easibus, omnium cgcnos, 
Urbe, domo socias, grales pcrsolvere dignas 
Non opis est nostrac. Dido, nec quidquid ubique esl 
Genlis Dardaniac, magnum quac sparsa per orbem. 

DI libi, si qua pios respcclanl nomina, si quid 
Usquam iustilia est, cl mena sibi conscia redi, 
Proemia digna Turani. Quac le lam lacta tulerunt 
Saccula 1 qui tanti [aleni genucrc parente ? 

In Trela dum fluvii commi, dum monlibus umbrae 
Luslrabunl contreia, polus dum sidcra pascci, 

Sempcr bonos nomcnquc luum, laudesque mancbunl, 
Quac me cunque vocant Icrrac. Sic Talus, amicum 
Dionea petit destra, iacvaque Screslum; 

Post alios, fortemque Gyan, Tortemque Cloanlbum. 



Obslupuit primo adspcctu Sidonia Dido, 

Casu deinde riri tanto ; et sic ore loculo est : 

Quis le, nate dea, per tanta pcriculn casus 
Inscquilur t quac vis immanibus applicai oris ? 
Tune ilio Aeneas, quem Dardanio Anchisae 
Alma Venus Plirygii gcnuit Simocnlis ad undam ? 
Atque equidem Teucrum memini Sidona venire, 
Finibus cvpulsum palriis, nova regna pctcnlem 
Ausilio Beli. Genilor tum Belus opimam 
Vaslabat Cyprum, et victor dilione tenebaU 
Tempore iam ex ilio casus rnibi cognitus urbis 
Troianae, nomcnquc tuum, regesque Pelasgi. 

Ipsc hostis Teucros insigni laude ferebat, 

Seque ortum antiqua Teucrorum ab stirpe volcbat. 
Quarc agito o tcctis, iuvencs, succedile noslris. 

Me quoque per multos similis fortuna labores 
lactatam hac demum voluit consistere terra. 

Non ignara mali miscris soccorrere disco. 

Sic memorat ; simul Aencan in regia ducit 
Tecla : simul divum Icmplis indii il bonorem. 

Ncc minus interea sociis ad litora mittit 
Vigiliti tauros, magnorum borrendo cenlum 
Terga suum, pingucs cenlum cum malribus agnos, 
Menerà laeliliamque dei. 



A l'avorio, a l'argento, al Pario marmo, 

Se di Dii oro li circonda e fregia. 

Colai, comparso d'improvviso a lutti, 

Si fece avanti a la regina, e disse : 

Quegli che voi cercate Enea Troiano, 

Son qui, dal mar ricollo. A le ricorro, 

Vera regina, a te sola pietosa 
De le nostre ineffabili fatiche. 

Tu noi, rimasti al ferro, al fuoco, a Tonde 
D'ogni strazio bersaglio, d’ogni cosa 
Bisognosi e maidici, nel tuo regno 
E nel tuo albergo umanamente accogli. 

A renderli di ciò merito eguale 
Bastante non son io, ni forno quanti 
De la gente di Dardano discesi 
Vanno per T universo oggi dispersi. 

Ma gli dei ( s' alcun dio dc'buoni lia cura. 
Se nel mondo è giustizia, se si trova 
Chi d - altamente adoperar s'appagbu ) 

Te ne dian guiderdone. Età felice 1 
Avventurosi genitori e grandi 
Clic ti diedero al mondo I Infili clic i fiumi 
Si rivolgono al mare, infili eh' ai monti 
Si girali l' ombre, infin eh' ha stelle il cielo, 
I tuoi pregi, il tuo nome e le lue lodi 
Mi saran sempre, ovunque io sia, davanti. 
Ciò detto, lietamente a' suoi rivolto. 

Al caro lliunào la destra porse, 

La sinistra a Scrosto, e poscia al forte 
Cloanto, al forte Già: T un dopo T altro 
Tutti gli salutò. 

Stupì Didonc 

Nel primo aspetto d' un si nuovo caso, 

E d’ un uom tale, indi riprese a dire : 

Qual forza, o qual destino a tanti rìschi 
T’ hanno in si strani, in si feri paesi 
Esposto, o de la dea famoso figlio t 
E sci tu quell' Enea clic in su la riva 
Di Simoenta il gran Dardanio Ancliisc 
Di Venere produsse f lo mi ricordo 
Quel che n' intesi già da Teucro, quando 
Fuor di sua patria, il suo padre ruggendo 
Nuovi regni cercava. Egli a Sidòne 
Venne in quel tempo a dar sussidio a Belo. 
Belo mio padre allor Tacca T impresa 
ET conquisto di Cipro. Infili d’allora 
Io del caso di Troia e del tuo nome 
E de T oste de' Greci ebbi notizia 
Ed ci eli' era sì rio nimico vostro, 

Celebrava il valor di voi Troiani, 

E Irar vulea da Troia il suo legnaggio. 

Voi da me dunque amico e fido ospizio, 
Giovani, arelc. E me fortuna ancora. 

A la vostra simile ha similmente 

Per molli affanni a questi luoghi addotta, 



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20 



DEI.I.'E.NEIDE 



Al ilom'js interior regali splendida luvu 
Instruilur, mediisque parsili convitia leelis: 
Arie lalKiralae vestes ostroipie superbo, 
Ingcns argentato mensis, caclataquc in auro 
Furila flirta palmiti, serie» longissima rcriim, 
I'er (ol dado virus antiqua ab origine genlii. 



Acncas ( ncque cnim palrius consistere mentem 
Passus amor ) rapidum ad naves praemillil Aclialcn, 
Ascanio forai baco, ipsuinqiic ad muenia ducal. 
Ornili* ili Ascanio cari slal cura parenlis. 

Multerà practcrca. Iliaci* crcpla minia, 

Ferro inhel, pallam signis aiiroque rigenlcin, 

Et circunilcilum croceo velameli acanilio, 

Oruatus Argivae llclonae, quos illa Blycenis, 
Pergamo quum pelerei inconccssosquc llymcnacos, 
Evlulerat, mairi* Lcdae mirabile donuin : 

Praclcrca sccplmni, llionc quod gesserai olim, 
Mavima nalarum l’riami, colloqiic monile 
Baccjlum, el dupliccm geimnis auroque roronam. 
Ilaec celerà ns iter ad nave* Icndcbat Aclialcs. 



Al Cytcrca novas arles, nova peclorc versai 
Consilia, ni faciem mulalus cl ora Cupido 
Pro dulci Ascanio veniat, donisque furenlem 
Ineeiidal roginam, alque ossibus impliccl ignem. 
(Juippe domum limel ambignam, Tyriosque bilingue*; 
l'ril atrov luno, el sub noelem cura reeursat. 

Ergo bis aligerum dielis alfaliir Amorem : 

Nate, mcac vircs, mea magna polcnlia solus, 

Naie, palris summi qui Vela Tvplu.Ta lemnis. 

Ad te coniugio, et supple: tua Rumina poseo. 

Fralcr ut Acnèas pelago luus omnia cireum 
Litora iaclclur odiis Innonis iniquae , 

Nola libi , cl nostro doluisli saepc dolore. 



SI che natura c sofferenza e prova 
Be' miei stessi Ira vagli ancor me fanno 
Pietosa e lovtenevole a gli alimi. 

Ciò dello, Enea corlcsemcnlo adduce 
Nc la sua reggia. In ogni tempio indico 
Fcsle e preci solenni. Ordina appresso 
Clic si mandino al mar remi gran lori, 
Cento gran porci, cento grassi agnelli 
Con cento madri, c ciò eli 1 a' suoi compagni 
Per villo c per letizia è di meslicro. 

Dentro al regai palagio regalmente 
Be' più gemili e sontuosi arnesi 
fi convito c le stanze orna e prepara : 

Copre d' oslro le mura ; empie le mense 
D'argento e d' oro, ove per lunga serie 
Son de' padri c de gli avi i falli egregi. 

Enea, cui la paterna tenerezza 
Quotar non lascia, a le sue navi innanzi 
Hallo spedisce Arale, clic di tutto 
Ascanio avvisi, cd a sè Insto il meni ; 

Clife in Ascanio mai sempre inlcnlo c (isso 
Sia del suo caro padre ogni pensiero. 

Gii comanda, oltre a ciò, di' a la regina 
Porti alcuno a donar spoglie superbo 
Clic si salvar da la ruina appena 
E dal fuco di Troia : un ricco manto 
Diramalo a ligure, c di fln oro 
Tulio contesto ; un prezioso velo. 

Cui di pallido acanlo un ampio fregio 
Trapunto era d'intorno ; ambi ornamenti 
D' Elena Argiva, c di sua madre Leda 
Mirabil dono, lo questo avea le bionde 
Sue chiome avvolte il di clic di Micetto 
A nuove nozze, e non concesse, uscio. 

E porti anco lo scettro, onde superilo 
llionc di Priamo sen giva 
Primogenila figlia, c T suo monile 
Bi gran lucide perle ; e quella stessa, 

Onde T fronte cingca, doppia corona, 

Di gemme orientali ornala e il' oro. 

Tulio ciò procurando il fido Acatc 
In ver le navi accelerava il piede. 

Venere intanto con nov’ arie c novi 
Consigli s' argomenta a far che in vcco 
E 'n sembianza d' Ascanio il suo Cupido 
Se nc vada in Carlago ; e con quei doni, 

Con le dolcezze sue, con la sua face 
Alleili, incenda, amor desti c furore 
Nel petto a la regina, onde sospetto 
Più non aggia o 'I suo regno, o la perfidia 
De la sua gente, o di Givmon l' insidie 
Clic da pensare c vagheggiar le diurno 
Tulle le notti. E, fallo a sè venire 
L’alalo dio, cosi seco ragiona : 

Figlio, mia forza c mia maggior possanza: 



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LIBRO PRIMO 



21 



Ilunc Phoenissa lene! Dido, blondisquc moratur 
Vocibus; cl vcreor, quo so lunonia vcrlanl 
Ilospitia ; homi lauto cessabil cardino rcrum. 
Quocirca caperò onte dolis el cingere fiamma 
Rcginam meditor, ne quo se numinc rnutel, 

Sed magno Acncac rnccum tcncalur amore. 

Qua Tacere id possis, nostram nunc accipo menletn. 
Regius accitu cari genitoris ad urbcm 
Sidoniam pucr ire parai, mea maxima cura, 

Dona fercns, pelagici llammis rcslanlia Troiae. 
Ilunc ego, sopilum somno, super alla Cylhcra 
Aul super Idalium sacrala sede recondam. 

Ne qua scirc dolos, mediusve occurrerc possi!. 

Tu Tacicm illius noelem non amplius unam 
Falle dolo, et notos puori pucr induc vullus, 

DI, quum le gremio accipicl Indissima Dido 
Regales inlcr mcnsas lalicemquc Lyacum, 

Quum dabil amplexus alque oscula dulcia flget, 
Occullum inspires ignem, fallasquc vencno. 

Pare! Amor diclis carne gcnclricis, cl alas 
Exuil, et grcssu gamlens incedi! luli. 

Al Yenus Ascanio placidam per membra quiclcm 
Irrigai, cl Totum gremio dea tollil in allos 
Idaliac lucos, ubi mollis ainaracus illuin 
Floribus el dulci adspirans compleclilur umbra. 
Iamque ibal diclo parcns el dona Cupido 
Reg ia porlaba I Tyriis, duce laolus Acbale. 



Figlio, che del gran padre anco non temi 
L' orribil lelo, onde percosso giacque 
Chi ne diè fin nel ciel briga e spavento, 

A le ricorro, c dal (uo nume aita 
Chieggo a l’ altro mio Dglio Enea tuo frale. 
Come Giuno il persegua, e come l' aggia 
Per lutli i mari ornai spinto c travolto, 

Tu 'I sai, che del mio duo! li sei doluto 
Più volle meco. Or la Sidonia Dido 
L' ave in sua forza, e con benigni c dolci 
Modi fin qui l' accoglie e lo Irallicne. 

Ma là dov’ è, lassa I die vai, comunque 
Sia caramente accolto ? In casa a Giuno 
Da le carezze ancor chi m' assecura ? 
Ch'ella più neghittosa, e meno atroce 
In un caso non Ila di tanto altare. 

E perù con astuzia e con inganno 
Cerco di prevenirla ; e del tuo foco 
Ardere il cor de la regina in guisa, 

Ch' altro Nume noi muli, e meco l’ ami 
D' immenso altello. Or come agevolmente 
Ciò porre in allo, e conseguir si possa, 
Ascolla. Enea manda testò chiamando 
Il suo regio fanciullo, amor supremo 
Del caro padre, c mio sommo diletto ; 
Perchè de' Tirii a la citlà scn vada 
Con doni a la regina, che di Troia 
A l' incendio avanzarono ed al mare. 

Questo vinto dal sonno, o sopra l' alla 
Citerà, o dentro al sacro bosco Idalio 
Terrò celato si eh’ el non s’ accorga, 

Ed accorto di ciò non faccia altrui 
Con alcun suo rintoppo. E tu clic puoi, 
Fanciullo, il nolo fanciullesco aspetto 
Mcnlire acconciamente, in lui li cangia 
Sola una nollc, e gli suoi gesti imita. 

E quando Dido al suo rcal convito 
Riccveralli, e, come a mensa fassi, 

Sarà, bevendo e ragionando, allegra ; 
Quando, come farà, cortese in grembo 
Temuti, abbracccratti, e dolci baci 
Porgcratti sovente, a poco a poco 
Il tuo foco le spira c T tuo veleno. 

Al voler de la sua diletta madre 
Pronto mostrossi e baldanzoso Amore, 

E giltò l' ali, ed in un tempo l' abito 
E Y sembiante c l' andar prese di luto. 
Ciprigna intanto al giovinetto Ascanio 
Tale un profondo c dolce sonuo infuse, 

E 'li guisa l' adattò, clic agiatamente 
In grembo lo si tolse ; e ne la cima 
De la selvosa Idalia, entro un cespuglio 
Di lieti dori c d' odorata persa, 

A la dolce aura, a la frese’ ombra il pose. 
Cupido co' suoi doni allegramente, 



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DELL' ENEIDE 



22 



Quum venil, aulaeis iara se regina superbis 
Aurea composuil sponda, mediamque locavil ; 
lam pater Aencas, et iara Troiana iuvenlus 
Conveniunt, stratoquc super discumbitur ostro. 

Dani famuli manibus lymphas, Ccrercnu|ue canistris 
Eipcdiunl, lonsisquc ferunl raanlclia villis. 
Quinquaginta intus famulac, quilius ordine longo 
Cura pcnum slruerc, et flanimis adulerò Penates : 
Ccntum aliac, lolidcmquc parca actate ministri, 

Qui dapibus tnensas oncrant, et pociila ponunt. 

Ree. non et T v ri i per liraina laeta frequcnles 
Convenere, toris lussi diseurabere pictis. 
tliranlur dona Aeneac, mirantur lulum, 
Flagranlesquc dei vultus, simulataque verbo, 
Pallamquc, et piclum crocco velamcn acantho. 
Praccipue infeliz, pesti devota fulurae, 

Ezpleri menlera ncquit, ardcseilque tucndo 
Phocnissa, et pariler pucro donisquc movetur. 

■Ile ubi complciu Aeneac colloque pepcndil, 

Et magnum falsi implcvi! gcniloris amorcra, 
negiuam petit. Jlaoc oculis, linee pectore loto 
llaeret ; et inlerduin grcraio fovet inscia Dido, 
Insidat quantus miserar deus. Al niernor ilio 
Jlalris Acidaliac paullallra abolcre Sychaeuin 
Incipit, et vivo tentai praeverlerc amore 
Iara pridcin resides aniraos dcsuclaquc corda. 



Postquam prima quics epulis, mcnsacque rcmotac, 
Cratcras magnos statuuul, et villa coronant. 

Fit strepitus teclis, voccmquc per ampia volulanl 
Atrio ; dependent lyclmi laquearibus aureis 
Incensi, et noctem Oamrais funalia vincunt. 

Ilio regina gravem gemmis auroque poposcit 
Implevitquc mero palcram, quam Belus, et onuics 
A Dolo soliti ; tura farla silenlia teclis : 
lupiler (hospitibus nani te dare iura loquuntur), 
Ilunc laetum Tyriisquc dicm Troiaque profcclis 



Per far quanto gli avea la madre Imposto, 
Con la guida si pon d’ Acale ’n via. 

Giunse, che giunta era Didone appunto 
Ne la gran sala, che di (ini aratri, 

Di fior, di frollili c di festoni intorno 
Era tutta vestila, ornata e sparsa. 

E gii sopra la sua dorala sponda 
Cou rcal maestà s' era nel mezzo 
A tulli gli altri alteramente assisa 
Appresso Enea : poseia di raauo in mano 
Sopra drappi di porpora e di seta 
Si slendca la Troiana giovrutulo. 

Già con l'acqua e con Cerere a le mense 
Gli aurati vasi e i nitidi canestri 
E i bianchissimi lini eran comparsi. 

Stavano dentro, a le vivaude intorno, 

Intorno a' fochi, a dar ordine a’ cibi 
Cinquanta ancelle, ed altre cento fuori 
Con altrettanti d' una stessa ctadc 
Tra scudieri c pineerni ; c gli alni tutti 
Si riempièr di Tirii, a cui le mense 
Di tappeti dipinti eran distese. 

A I' apparir del giovinetto luto 
Corser tutti a mirare il manto c 'I velo 
E gli altri che addueca leggiadri arnesi ; 

A sentir quelle sue tinte parole, 

A contemplar quel grazioso aspetto, 
di' ardore c deità raggiava intorno. 

Bla sopra lutti l' infelice Dido 

Non polca nè la vista, ne T pensiero 

Saziar, mirando or gli suoi doui, or lui ; 

E com'più gli rimira, c più s'accende. 
Poiché lunga fiala umile c dolce 
Del non suo genitor pendè dal collo, 

FI finse di llgliuol .verace aflclto. 

Si volse a la regina. Ella con gli occhi, 

Col pensicr lutto io contempla c mira : 
l.o palpa, e 'I bacia, c ’u grembo lo si reca. 
Misera I che non sa quanto gran dio 
S’ annidi in seno. Ei de la madre intanto 
Itimcmbrando il precetto, a poco a poco 
Ile la mente Sichèo comincia a Irarlc, 

Con vivo amore c con visibil Damma 
Dompcndole del core il duro smallo, 

E 'utroduccndo il suo già spento affetto. 

Cessali i primi cibi, e da' ministri 
Già le mense rimosse, ecco di nuovo 
Comparir nuove lazze e vino e fiori, 

Per lietamente incoronarsi e bere. 

Quinci un romoreggiare, un riso, un giubilo, 
Clic d‘ allegrezza emplan le sale c gli atrii, 

E i torchi c le lumiere che pendevano 
Da i palchi d' oro, poiché notte feccsi, 
VinccanoT giorno c’I sol non che le tenebre. 
Qui fallosi Didone un vaso porgere 



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LIBRO PRIMO 



23 



Esso volte, nostrostjuu huius mcoiiaisse minores. 

Adsit lactitino Bacchus dator, el bona luno. 

Et vos, o, coclum, Tyrii, celebrate favcntcs. 

Diuil, et in monsoni lalicum liba vii honorem, 
Primaque, libalo, summo tenus attigil ore ; 

Tum Bitiae dedit incrcpitans. Rie impiger bausit 
Spumantem palcram, et pieno se proluit auro ; 

Post olii proceres. Citbara crinilus lopas 
Personal aurata, docuit quae maximus Alias. 

Ilio canit errantem lunam, solisquc labores ; 

Lode boininum gcnus, el pccudes; unde imber el ignes; 
Arcturum, pluviasquc Hyadas, geminosque Triones; 
Quid tantum oceano propcrent se lingucre solcs 
11 iberni, vcl quae lardi* mora noclibus obslct. 
Ingeminaul plausu Tyrii, Troèsque sequuntur. 

Picc non et vario noelem sermone trabebat 
Infclix Dido, longumque bibcbal amorem, 

Mulla super Priamo rogilans, super Hectore multa, 
None, quibus Aurorae venissct fllius armis, 

Rune, quale* Diomcdis equi, nunc, quantus Achilles. 
Imo ago, et a prima die, hospes, origine nobis 
Insidia*, inquit, Dannimi, casusque luorum, 
Krroresque luos. Nam te iam septima portai 
Omnibus erranlcm tcrris et fluclibus aestas. 



D* oro grave e di gemmo, ov’ era solito 
Ne’ convili c ne’ dì solenni c celebri 
Ber Belo, e gli altri clic da Belo uscirono, 

Di fiori ornollo, e di vin vecchio empiendolo 
Orò cosi dicendo : Elcmo Giove, 

Che, Albcrgalor nomalo, bai de gli alberghi 
E de le cortesie cura e diletto, 

Priegoli eh’ a* Fenici ed a’ Troiani 
Fausto sia questo giorno, e memorando 
Sempre a’ posteri loro. E le, Lièo, 

Largitor di letizia ; c te celeste 
E buona Giuno, a questo prece invoco. 

Voi co’ vostri favori, c Tirii c Peni, 

Prestate a'prieghi miei divolo assenso. 

Ciò detto, rivecsollo, e lievemente 
Del sacrato liquor la mensa asperse; 

Poscia ella in prima con le prime labbia 
Tanto sol ne sorbi quanto n* attinse. 

Indi con dolce oltraggio e con rampogne 
A Bizia il diè, clic valorosamente 
A piena bocca infino a I* aureo fondo 
Vi si tuffò col volto, c vi s’ immerse. 

Ciò seguir gli altri croi. Comparve intonto 
Co’ capei lunghi c con la celra d'oro 
Il biondo Iopa ; c, qual Febo novello, 

Cantò del cicl le meraviglie c i moli 
Che dal gran vecchio Atlante Alcide apprese. 
Cantò le vie clic drittamente lorte 
Rcndon vaga ta luna c buio il sole : 

Come prima si fér gli uomini e i bruii ; 

Com* or si fan le piogge c i venli e i folgori; 
Canlò l’ lode e I* Orse c ’l Carro e ’I Corno, 

E perchè tonto a l’ Oceano il verno 
Vadan veloci i dì, Iarde le notti. 

Un nuovo plauso incomincìaro i Tirii : 
Seguirò i Teucri ; c l’ infelice Dido, 

Che già fca dolce con Enea dimora, 

Quanto bevesse amor non s’ accorgendo, 

A lungo ragionar seco si pose 

Or di Priamo, or d’ Etlorre, or con qual armi 

Venisse a Troia de 1* Aurora il figlio, 

Or qual fosse Diomede, or quanto Achille. 
Anzi, se non V è grave, al fin gli disse, 
Incomincia a contar fin da principio 
E l’ insidie de’ Greci, c la rùina 
E T incendio di Troia, e il corso intero 
De gli crror vostri : già che ’l setlim* anno 
E per terra c per mar raminghi andate. 



Fi ME 



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LIBRO SECONDO 



Continuerò omncs, inlcntiquc ora lonebant. 

Inde loro pater Acncas sic orsus ab allo : 

Infandutn, regina, iubes rcnovarc dolorem, 

Troiana* ni opcs el lamentabile regnum 
Eruerint Danai, quaeque ipso miserrima vidi, 

El quorum pars magna fui. Quis lalia fondo 
Myrmidonum, Dolopumve, aul duri miles l'Ijri, 
Tempcret a lacrimis ? El iam nos humida coclo 
Praccipital, suadenlquc cadenlia sidera somnos. 

Sed, si lanlus amor casus cognoscerc noslros, 

El breviler Troiac supremum audirc loborem, 
Quamquam animus meminisse horret, lucluquc rcfugil, 
Incipiam. Fracli bello, falisquc repulsi 
Dnclores Danaum, tot iam labentibus annis. 

Instar monlis equuin divina Palladio arie 
Aediflcanl, seclaquc intevunt abielc coslas ; 

Voluto prò rcdilu simulant ; ca fama vagalur. 

Due deierta viriìm sorlili corpora furlim 
Includimi caeco latori, penilusque cavcrnas 
Ingertles ulerumque armalo milite compirai. 



Est in conspeclu Tencdos, notissima fama 
Insula, dives opurn, Prismi dum regna manebanl : 
ft'unc tanlum sinus el slalio male fida carinis. 

Ilue se prorecti deserto in lilorc condunl. 

Nos ahiissc rati, el renio pelìisse Mycenos. 



Staran tacili, allenii c desiosi 
D' udir già ludi, quando il padre Enea 
In sé raccolto, a cosi dir da I" alla 
Sua sponda incominciò : Dogliosa istoria, 

E d' amara e d'orribil rimembranza, 

Ilegina eccelsa, a racconlar m‘ invili : 

Come la giù possente c gloriosa 

lllia pairia, or di pietà degna c di pianto, 

Fosse per man do' Greci arsa c distrutta, 

E qual ne vid’io far ruina e scempio : 

Cir io stesso il ridi, eil io gran parie fui 
Del suo caso infelice. E chi sarebbe. 

Ancor che Greco o Mirmidóne o Dólopo, 

Che a ragionar di ciò non lagrimasse I 
E già lo notte inchina, e già le stelle 
Sonno, dal ciel reggendo, a gli occhi infondono. 
Ma se tanto d" udire i nostri guai, 

Se brevemento di saver t’ aggrada 
L’ ultimo eccidio, ond' ella arse e cadrà, 

( Benché lutto e dolor mi rinnovellc, 

E sol de la memoria mi sgomento ) 
lo lo pur conterò. Sbattuti c stanchi 
Di guerreggiar tant’ anni, c risospinli 
Ancor da' fati, i Greci condottieri 
A l’ insidie si dicro ; c da Minerva 
Divinamente instrutli un gran cavallo 
Di ben contesti c ben confluì abeti 
In sembianza d' un monte cdiflcaro : 

Poscia fìnto che ciò fosse per voto 
Del lor ritorno, di tornar sembiante 
Fecero tal, che se ne sparse il grido. 

Dentro al suo cieco ventre e ne le grolle, 

Che molte erano e grandi in si gran mole, 
Binchiuscr di nascosto arme e guerrieri 
A ciò per sorte c per valore eletti. 

Giace di Troia un'isola in cospetto 
( Téncdo ò detta ) assai famosa c ricca, 

Mentre ch'ilio Boriva. Ora un ridotto 
È sol di naviganti, c di natili 
Infido seno, c mal sicura spiaggia. 



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unno secondo 



Ergo omnis longo solvil se Teucria luetu. 
Pandunlur porlac ; iu?at ire, et Dorica castra 
Desertosquo vidcre locos litusque rclictum. 

Ilic Dolopum manus, hic saevus tendebat Achillcs ; 
Classibus liic locus, hic acie ccrlarc solcbant. 

Pars slupct innuptac domini cxitialc .'lineria?, 

Et rnolcm mirantur equi : primusque Tliymoctcs 
Duci inira muros hortalur, et arce locari, 

Sito dolo, scu iatn Troiae sic fola ferebant. 

At Capys, et quorum melior scntcntia menti, 

Aul pelago Danaùrn insidiasi suspeclaquc dona 
Praccipitarc iubent, subicctisqnc urcre flamnais ; 
Aul Icrcbrarc catas uteri ci tentare latebras. 
Scindilur inccrlum studia in contraria vulgus. 



Primus ibi ante omnes, magna comitanlc caterva, 
Laocoon ardens somma dccurrit ab arce; 

Et procui : 0 miseri, quae lanla insania, cives ? 
Crcditis avcclos liostcs ? aul ulla pulatis 
Dona carcrc dolis Dana fini ? Sic nolus l'Iiies? 

Ani hoc inclusi tigno occultanlur Achitì, 

Aul liacc in nostros tabricala est machina muros, 
Inspcctura domos, tcnluraque desuper urbi, 

Aul aliquis latei error. Equo ne credile, Teucri. 
Quidquid id esl, timeo Danaos et dona rcrentes. 

Sic fatus, validis ingenlem viribus liastam 
In lalus inque feri curvam compagibus alvum 
Contorsi!. Stelli illa tremeos, uteroque recusso 
Insonuere catac gemilumque dederc catcrnac. 

Et, si fata deùm, si mcns non laeta fuissct, 
Impulcrat ferro Argolicas foedarc latebras, 
Troiaquc nunc starcs, Priamique ari alta mancres. 



Vincalo, voi. rateo. 



Qui, poiché di Sigéo sciolse c spario, 

La Greca armata si ratlennc, c dietro 
Appialtossi al suo lilo ermo c deserto. 

E noi credemmo che veracemente 
Fosse parlila, e che a spiegate velo 
Gisse a Micene. Onde la Teucria tutta, 

Già colant’ anni lagrimosa c mesta, 

Volta ne fu subitamente in gioia. 

S’ aprir le porle, uscir d’ Ilio, e d - intorno 
Le genti tutte, disiose e liete 
Di veder voti i campi e sgombri i liti, 

CIC eran coverti pria di navi e d’ armi. 

Qui s’ accampata Achille ; c qui de' Dólopi 
Eran le tende : ivi solcan le luffe 
Farsi de’ cavalieri, c là de’ fanti ; 

Dicean parte vagando, e parte accolti 
Facean mirando al gran destriero intorno 
Meraviglie e discorsi : c chi per sacro, 

E chi per esecrando il voto e. ’l dono 
Avcan di Palla. Il primo fu Timclc 
A dir eh' entro le mura, o ne la rocca 
I Quindi si conducesse, o froda, o fato 
Che ciò fosse de’ miseri Troiani. 

Ma Capi, e gli altri, il cui più sano avviso 
0 per insidiose, o per sospetto 
( Quantunque sacre ) avea le Greche ofTcrle, 
Volevano, o del mar fosse nel fondo 
Precipitato, o che di Damme ardenti 
Si circondasse, o clic foralo c lacero 
Gli fosse il petto e sviscerato il flanco. 

Stava tra questi due contrari in forse 
In due parti diviso il volgo incerto ; 

Quando con gran caterva c con gran furia. 

Da la rocca discese, e di lontano 
Gridò Laocoonlc : 0 cicchi, o folli, 
o sfortunati I A gli nemici, a’ Greci 
Date crcdcnia t A lor credete voi. 

Che sian partili ? E sarà mai che doni 
Siano i lor doni, e non più tosto inganni ? 
Cosi »' 6 noto Ulisse ? 0 in questo legno 
Sono i Greci rinchiusi, o questa è macchina 
Contro a le nostre mura, o spia per entro 
A i nostri alberghi, o scala o torre o ponto 
Per di sopra assalirne. E che che sia, 

Certo o vi cova, o vi si ordisce inganno, 

Chè de’ Pelasgi c de’ nemici è il dono. 

Ciò detto, con gran fona una grand'asta, 
Avvcntògli, c colpii lo, ove tremante 
Stelle altamente infra due coste infissa : 

E T deslrier come fosse e vivo e fiero 
Fieramente da spron punto colale, 

Si storcè, si scrollò, tornigli il ventre, 

E rintronar le sue cave caverne. 

E se ì Fato non era a Troia avverso. 

Se le menti eran sane, arca quel colpo 
i 



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26 



LEU/ ENEIDE 



Ecce, manus iuvencm interra post terga rcvinclum 
Pastorcs magno ad regem clamore trahebant 
Dardanidac, qui se ignotum venicnlibus nitro, 
lloe ipsum ut strueret, Troiamque apcriret Achivls, 
Obtulerat, fldens animi, alque in ntrumque parntus, 
Scu versare dolos, seu ccrlae occumbere morti, 
l'ndique viscndi studio Troiana iuvrnlus 
Circunifusa ruil, ecrlanlque illudere capto. 

Accipc uunc Danaùtn insidias, et crimine ab uno 
Disce omnes. 

Namque, ut conspcctu in medio, turbatus, inermi» 
Constili!, alque oculis Plirrgia agmina circumspciit: 
llcu.quacnunc lellus, inquii, quac meacquora possunl 
Accipere ? aut quid iam misero milii denique restai. 
Cui ncque apud Danaos usquarn locus, et super ipsi 
Dardanidac infensi poenas coni sanguine poscunl ? 
Quo gemitu conversi animi, comprcssus et omnis 
Impctus. llorlamur fari, quo sanguine crclus, 

Quidquc feral ; memore!, quac sii fiducia capto. 

Illc bare, deposita tandem formidine, fatue : 



j 

Cuncla equidem libi, rcs,fueril quoilrunquc. fatebor 
Vera, inquit : ncque me Argoliea de gente negabo ; 

Hoc primum ; ncc, si miscrum Fortuna Sinonem 
Finill, vanum eliam mendaccmquc improba lìnget. 
Fando aliquod si forlc luns pcrvenil ad aures 
Bctidae nomen Palamedis, et incluta fama 
Gloria, quem falsa sub proditionc Pelasgi, 

Insontem, infando indicin, quia bella vclabal, 

Demisere ncci ; nuuc cassum lumino lugcnl; 
fili me comilem, et ronsangninilatc propinquum, 
Paupcr in arma pater primis huc misit ab annis. 

Dum stabat regno incolumis, regumque vigcbal 
Conciliis, et nos aliquod nomenque dccusquc 
Gessimus. Invidia postquam pellacis Ulivi 
( Haud ignota loquor ) superis concessi! ob oris : 
Aflliclus vilani iu Icncbris luctuque trabebam, 

Et cesura insontis mccum indignabar amici. 

Ncc tacili demens, et me, fora si qua lulisset, 



Già commossi infiniti a lacerarlo, 

E del lutto a scovrir l' agguato Argolico : 
Ond’ oggi c tu, grand’ Ilio, c tu diletta 
Troia, staresti. 

Ma si vide intanto 
De' paslor paesani una masnada 
Venir gridando al re, di’ ivi era giunto, 

E trargli avanti un giovine prigione 
di' avea dietro le mani al tergo awinle. 
Questi era Greco ; e dai suoi Greci avea 
Iti salvare il destrier, d’ aprir lor Troia 
Assunto impresa; c per condurla, a tempo 
Ascoso, a tempo a quei pastori offerto 
S' era per sé medesmn, in sè disposto 
E fermo di due cose una a finire, 

0 quest' opra, o lo vita. A ciò concorso, 

Per desio di vedere, il popol tutto 
Da cavai si distolse, c diessi a gara 
A schernir il prigione. Or ascoltale 
Le malizie de’ Greci ; e da quest' uno 
Conosceteli tulli. Egli nel mezzo 
Cosi com' era a le nemiche schiere 
Turbalo, inerme e di catene avvinto, 
Fermossi : c poi che rimirollc intorno, 

Con voce di pietà proruppe, c disse : 

Or quale o terra, o mare, o loco altrove 
Sarà, misero me I che mi raccolga. 

0 clic m’nlTIdi ornai ; poiché tra' Greci 
Non ho dov‘ io ricovrire da' Troiani 
Non deggio altro aspettar che strazio c morte? 
Nc rommossc a pietà, n' acquetò l' ira 
SI doglioso rammarco; c con dolcezza, 

E con promesse il confortammo a dire 
Chi, di elio loco, c ili ebe sangue fosse, 

E che portasse, c qual fidanza avesse 
A darnesi prigione. Egli in tal guisa 
Assccuralo, al re si volse, e disse : 

Signor, segua che vuole, in tuo cospetto 

10 dirò lutto, e dirò vero. E prima 

D’ esser Greco io non niego; chò Fortuna 
Può ben far che Sinon sia gramo e misero, 
Ma non giammai che sia bugiardo c vano. 
Non so se, ragionandosi, a gli orecchi 
Ti venne mai di Palamede il nome, 

Clic nomalo c pregialo e glorioso, 

E da Belo altamente era disceso ; 

Se ben con falso c scellerato indizio 
Di Iradigion, per detestar la guerra, 

Ei fu da' Greci indegnamente ucciso : 

Com' or, clic nc son privi, i Greci stessi 
Lo piangoli tulli. A questo Palamede, 

A cui per parentela era congiunto, 

11 povcr padre mio ne' mici prim' anni 
Pria per valletto nel meslier de l' armi. 

Poi per compagno a questa guerra diemmi. 



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unno secondo 



21 



Si patrios unquam remoasscm viclor ad Argos, 
Promisi ullorcra ; cl verbis odia aspera mori. 

■line mihi prima mali lalics ; Itine semper l'iives 
Criminibiis lerrcrc novi* ; bilie spargere rocca 
In eulgum ambiguas, cl quaerere ronscius arma. 

Ncc rcquievil cnim, donec Calcitante ministro — 

Scd quid ego tace aulem ncquidqoam ingrata revolvo? 
Quidve moror ? Si omnes uno ordine babelia Achivos, 
Idqnc audirc sai est, iamdudum sumitc poenas. 

Hoc Ithacus vclil, et magno mcrcculur Atridac. 



Tum vero ardemua seitari cl quaerere caussas, 
Ignari scelerum tantorum artisque Pclasgac. 
Proaequilur paritans, cl fleto pcclurc fatur : 



Saepe lugam Danai Troia cupicrc relieta 
Moliri, cl longo Tessi discedere bello ; 

( Fccisscntque ulinani I ) saepe illos aspera ponti 
lntcrclusil hicms, et terruil Austcr euntes. 
Praecipuc, quum iam bic Irabibus conleilus acernis 
Starei equus, loto sonucrunt actlierc nimbi. 
Suspensi Eurypylum scitatum oraeula Pliocbi 
Minimi» ; isque adylis bacc Irialia dieta rcporlal: 
Sanguine placastis venlos et tirginc cacsa, 

Quum primum Iliacas Danai venistis ad oras ; 
Sanguine quacrcndi redilus, animaque lilandum 
Argolica. — Vulgi qnac voi ut venil ad aurcs, 
Obstupuerc animi, getidusque per ima cucurrit 
Ossa tremor, cui Tata parent, quem poscat Apollo. 
Ilic Ithacus vatem magno Calrhanla tumullu 
Protraili! in inedios ; quae sin) ca numina ditflm, 
Flagital. Et mllii iam multi crudele cancbant 
Artilicis sccius, et tacili ventura videbanl.< 

Bis quinos silet illc dies, tcctusquc rccusat 
Prudere voce sua quemquam. aul opponcrc morti. 
Vii lauderò inagnis libaci clamoribus aclus, 



Infln eh" ci visse, c fu T suo stalo in flore, 
Fiorirò anco i mici giorni; c l'oprc e’Inomc 
E ’1 grado mio no Tur lai volta in pregio. 
Estinto lui (clic per invidia avvenne. 

Coni - ognun sa, del traditore Plissé) 
Amaramente il piansi. E ’l caso indegno 
D’ un tanto amico, c la mia vita oscura 
Tra me sdegnando, come soro e folle 
Ch’ io fui, noi tacqui. Ami se mai la sorte 
Mei consentisse, o se mai fossi in Argo 
Vincilor ritornato, alta vendetta 
Ne gli promisi, c con minacce c motti 
Acerbi acerbamente il provocai. 

Questo fu del mio mal prima radice ; 

E quinci dei suoi falli c del mio duolo 
Consapevole plissé, a spaventarmi, 

A travagliarmi, a seminar susurri. 

Si die nel volgo, c procurarmi inciampi 
Ond* io cadessi. E non cessò, eh’ ordinimi 

Per mezzo di Calcante Ma dov' entro, 

Lasso I senza profltlo a fastidirvi 
Con noiose novelle ? A voi sol basta 
Di saper ch’io soli Greco, già che i Greci 
Tutti egualmente per nemici avete. 

Or datemi, signor, supplizio c morto 
Qual a voi piace, chè piacere c gioia 
N - aranno i regi ancor d’ Itaca c d’ Argo. 

E qui si tacque. Allor brama ne venne. 

Non clic desio, di piò sapere avanti ; 

Non ben sapendo ancor, miseri noi 1 
Quanta scelleratezza c quanta astuzia 
Fosse ne’ Greci. Egli, a seguir costretto, 
Mostrossi in prima paventoso, c poscia 
Di nuovo assicurossi, e finse, e disse : 

Hanno molle Hate i Greci, alllilti 
Già da la guerra, c dal disagio astretti. 

Desiato o tentalo anco più volte 
Di qui ritrarsi, c lasciar Troia in pace. 

Cosi fatto l’ avessero ! Ma sempre 
Or il verno, or i venti, or le procelle 
Gli han distornati. E pur dianzi clic l’opra 
Del cavai, clic vedete, era fornita, 

Di nuovo in sui partire, c ’n sul far vela, 

Di tempeste, di turbini c di nembi 
Risonò ’l ciclo, c eonlurbossi il mare. 

Onde sospesi Euripilo mandammo 
A spiar sopra ciò quel che da Febo 
Ne s’avvertisse, ltiportonnc un empio 
E spaventoso oracolo , e fu questo : 

Col sangue, e con la morie il’ una vergine 
Placaste i venti per condurci in Ilio : 

Col sangue, e con la morie ora d'un fiocine 
Convien placarli per ridurvi in Grecia. 

A cosi Aera voce sbigottissi, 

Impallidissi, c tremò ’l volgo lutto. 



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23 



DELL' EXEIDE 



Composito rumpil vocem, et me destinai arac. 
Asscnscre omnes ; et, quae sibi quisquo limebai, 
l’nius in miseri ciilium conversa lutcre. 
lamqtie dies infamia nderal ; milii sacra parar!, 

Et saisac fruges, et circum tempora vittac. 

Eripui, falcor, telo me, et rincula rupi ; 

Limosoque lacu per noctem obseurus in ulva 
Dclilui, dum vela, darent si forte, dedissent. 

Kcc rnibi iam patrìam anliquam spes ulta videndi, 

Dee dutccs nalos cxoptatumquc parcntcm ; 

Quos illi fors ad pocnas ob nostra reposccnt 
Effugia, et culpam liane miscrorum morte piabunt. 
Quod te per superos et conscia numina veri, 

Per, si qua est, quae reste! adirne mortalibus usquam 
Intemerata fides, oro, misererò laborum 
Tanlorum ; misererò animi, non digna fercnlis. 



llis lacrimis vilam damus, et miscrcscimus uilro. 
Ipsc viro primus manicas alque arda levari 
Vincla iubet Priamus, diclisque ita falur amicis : 
Quisquis es, amissos bine iam oblivisccre Graios ; 
Nostcr eris ; mihique baec edisscre vera roganti : 

Quo molem liane immanis equi slatucre ? quis auclor ? 
Quidve pelunt? quae rclligioTaut quae macliina belli? 
Divorai. Hle, dolis instruclus et arte Pelasga, 

Sustulit ciutas vinclis ad sidcra palmas : 

Vos, aclerni igne», et non violabile vcslrum 
Tcslor numcn, ait ; vos, arac ensesque nefandi, 

Quos fugi, rinacque deùm, quas boslii gessi : 

Fas miti! Craiorum sacrala rcsolverc iura, 



Ciascun per sé temendo ; e nessun certo 
Qual ili loro accennasse Apollo e 'I Fato. 
Qui fece Ulisse in mezzo al Greco stuolo 
Con gran tumulto apprcscntar Calcante ; 

E del volere in ciò de’ santi numi 
Inlerrogollo. Ed ci rispose in guisa, 

Che la sua fellonia, benché da tutti 
Fosse prevista, fu però da molti 
Simulala e taciuta, e da molti anco 
A me predetta : pur ei tacque ancora 
Per dicci giorni, e scaltramente al niego 
Si mise di voler che per suo dello 
Fosse alcun destinato, o spinto a morte. 

Ma poi, come da gridi astretto e vinto, 

Di concerto con lui ruppe il sileniio 
SI eh* io fui dichiaralo al fin per vidima ; 
Consentir tulli, perchè tulli ancora 
Finian con la mia morte il lor periglio. 

Era già da vicino il giorno orribile. 

In clic doveano al sacrificio offrirmi : 

E già il ferro e già il salo e già le bende 
Erano a le mie tempie intorno avvolte, 
Quando, rollo ( io noi niego ) ogni ritegno, 
Da la morte mi tolsi ; e fin eh’ a' venti 
Desser le vele ( eh’ cren presti a darle) 

Di buia notte in un pantan m' ascosi, 

Ove nel fango infra le scardo e i giunchi 
Slava qual mi vedete. Ora son qui 
Privo d' ogni conforto e d’ ogni speme 
Di mai più riveder la patria antica, 

I dolci figli e ’l desiato padre, 

Che saran, lasso me! per la mia fuga, 
Benché innocenti, anéor forse in mia vece 
Incarcerati, e tormentali e morti. 

Or io, signor, per quelli eterni dei 
Clic scorgon di lassù se ’l vero i’ parlo, 

Per quella pura e intemerata fede 
( Se tra' mortali in alcun loco è tale ) 

Ond' io già tutto a rivelar ti vengo, 

Priegoti che pietà di me ti prenda, 

E de’ miei tanti e si gravosi affanni 
Che indegnamente io soffro. 

A colai pianto 

Commossi, e da noi fatti anco pietosi 
Vita e vènia gli diamo. E di sua bocca 
Comanda il re clic si disferri e sciolga ; 

Poi dolcemente in tal guisa gli paria : 

Qual tu li sia, de’ tuoi perduti Greci 
Ti dimentica ornai; chè per innanzi 
Sarai de" nostri. Or mi rispondi il vero 
Di quel eh’ io li domando; A che fino lianuo 
Qui si grande edificio i Greci eretto ? 

Per consiglio di cui ? con qual avviso 
l.’han fabbricato? È voto? è magia , è macchina? 
Cile trama è questa? Avea ’I re dello appena, 



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LIBIIO SECONDO 



S9 



Fas odisso viros, alquc omnia ferro sub auras, 
Si qua tcgunl, tencor patriae ncc legibus ullis. 
Tu modo promissis mancas, scrvalaquc scrvcs, 
Troia, (idem, si vera (crani, si magna rcpcndam 



Omnis spcs Danaòm ci coopti fiducia belli 
Palladis auxiliis semper stetit. Impius ex quo 
Tydides sed enim scclcrumquc inrentor l'lixcs, 
Fatale aggressi sacrato avellere tempio 
Palladiani, caesis sutnmae custodibus arcis, 
Corripucrc sacram effigierò, tnanibusque crucnlis 
Virgincas ausi divac conlingcre viltas ; 

Ev ilio (luerc ac retro sublapsa referri 
Spcs Danaùm, fractae vircs, aversa deac mcns. 

Ncc dubiis ca signa dedii Tritonia monslris. 

Vii positura castris simuiacrum ; arsero coruscac 
Luminibus flammae arrcclis, salsusquc per artus 
Sudor iit, terque ipsa solo ( mirabile dictu ) 

Emicuit, parmamque fercns bastamque Ircmentcm 
Exlemplo lenlanda fuga cani! acquora Calclras, 

Nec posse Argolicis «scindi Pergama telis, 

Omina ni repctant Argis, numcnquc rcducanl, 

Quod pelago et curvis sccum avcieA carìnis. 

Et nunc, quod palrias vento patiere Mycenas, 

Arma dcosque parant comiles, pelagoqnc remenso 
Improvisi adcrunt. Ita digerii omina Calcbas. 

Ilanc prò Palladio; monili, prò numine laeso, 
ElDgiem slatuerc, nefas quac triste piarci, 
liane tamen immensam Calcbas attollerc molem 
Itoboribus leitis, coeloque edncerc iussil, 

Ne rccipi porlis, aut duci in moenia possi!, 

Neu populum antiqua sub relligione lucri, 

Nam, si vestra manus violasse! dona Minervac, 

Tum magnum ciilium ( quod di prius omeri in ipsum 
Convcrlanl I ) Priami imperio Phrygibusquc futurum. 
Sin manibus vcslris vestram adsccndissct in urbcm, 
diro Asiam magno Pelopca ad moenia bello 
Venluram, et nostros ca fata mancrc ncpotcs. 

Talibus insidiis periurique arte Sinonis 
Credila res, eaptique dolis laerimisque coaclis, 

Quos ncque Tydides, ncc Larissacus Acliillcs, 

Non anni domucrc deccui, non mille carinae. 



Quand'ei, d’inganni e d'arte Greca Distrutto, 
Le già disciollc mani al ciclo alzando, 

Disse : Voi fochi eterni e ’nviolablli, 

Voi fasce, ond’io portai le tempie avvinte, 
Voi sacri altari, e voi cutlri nefandi, 

Cui fuggendo anco adoro, a quel eh’ io dico 
Per testimoni invoco. A me lece ora 
Ch' io mi disciolga, e mi disacri in tutto 
Da l’ obbligo de’ Greci. E mi lece anco 
Che non gli ami, e che gli odii, e che divolghi 
Quel che da lor si cela ; già che astretto 
Più non son de la patria a legge alcuna. 

Tu, se vero io ti dico, e se gran merlo 
Di ciò li rendo, e te. Troia, conservo ; 
Conserva a me la già promessa ferie 
Nel cominciar di questa guerra i Greci 
Riposero ogni speme, ogni lidnnza 
Ne t'aiuto di Palla; e ben riposte 
Fur sempre, infili che l' empio DTomede, 

E l' invenlor di ogni mal opra Ulisse, 

Il sacro tempio suo non violare : 

Come fer quando, ne la rocca ascesi, 
N’uccisero i custodi, e n’ involare 
Il Palladio fatale, osando impuri 
Por le man sanguinose al sacrosanto 
Suo simulacro, e macular le intatte 
E intemerate sue virgincc bendo. 

Da indi in qua d’ardir sempre e di forze 
Scemàr, non che di speme ; e Palla infesta 
Ne fu lor sempre ; e no diè chiari segni 
E portentosi, allor che al campo addotta 
Fu la sua statua, che posata appena 
Torvamente mirolli; e lampi e fiamme 
Vibrò per gli occhi, e per le membra tutte 
Versò salso sudore. Indi tre volte, 

Meraviglia a contarlo ! alto da terra 
Sorse, e imbracciò lo scudo, e brandi Pasta. 
Allor gridando indovinò Calcante. 

Clic fuggir si dovesse, e tosto a’ venti 
Spiegar le vele : chè di Troia in vano 
Era l’ assedio, se con altri augùri 
I)' Argo non si tornava un' altra volta, 

E de la dea non si placava il nume, 

Ch'or, per ciò fare, lian seco in Grecia addotto. 
Onde giunti a Micene, incontanente 
Si daranno a dispor P armi e le genti, 

E gli dei, che gli aiti, e gli accompagni. 

Poi ripassando il mar, con maggior forza 
Di nuovo assaliranvi, o d' improvviso. 

Cosi Calcante interpelra, e predice. 

Or questa mole clic lanp alto sorge, 

Qui per consiglio di Calcante è posta 
Invece del Palladio, e per ammenda 
Del nume offeso, a bello studio intesta 
Di legni così gravi e cosi grandi, 



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ISO 



DELL'ENEIDE 



lite aliud maius miseria multoque Iremcndtim 
Obiicilur magia, alque improvida pcclora lurbal 
Laucoon, duiius Nepluno sorte sarerdos, 

Solcmnes Iniirum ingenlom mnelabat ail aras. 

Ecce ameni gemini a Tcnedo tranquilla per alla 
( llorrcsco referens ) immensi* orbibus angues 
lncumliunt pelago, parilerque ad lilora tcndunl ; 
Peclora quorum, ìnler Ituclus arredo, iubacquc 
Sanguineac ossuperant undas, pars edera ponlum 
Pone logli, sinualque immensa volnmiue terga ; 

Kit sonilus, spumante salo, lamquc arra lenebant, 
Ardentesque oculos stiliceli sanguine et igni, 

Sibila lambebant linguis vibraulibus ora. 
IlifTugimus viso eisangucs : illi agminc cerio 
Laocoonla pctiint. Et primum parva dunrutn 
Corpora nalorum serpens amplcsus ulerquc 
Implicai, et miseros morsi! depascitur arlus ; 

Posi ipsuin, ausilio subeuntem ac tela fcrcntcni, 
Corripiunt, spirisque ligant ingcnlibus ; et iam 
llis medium amplcii, bis collo squamea cirrmn 
Terga dali, supcrnni capile et ccrvicibus aids. 

Ilio simili manibus tendi! divellere nodos, 

Perfusus sanie viltas alroquc veneoo ; 
t'.lamores simili liorrendos ad sidera lollil. 

Qualcs mugilus, fugil qiiuni saueius aram 
Taurus, et incerlam escussil cervice securim. 

Al gemini lapsu delubro ad summa dracones 
EOilginnl, sacvacquc pclunl Trilouidis arcein, 

Sub pedibusque deae, clipeique sub orbe tegunlur. 
Tum «ero Iremeracla novità per pcclora condii 
Insinuai pavor ; et scelus espcndissc mcrenlem 
Laocooutc feruul, sacrum qui cuspide robur 



Ed a si smisurata allena creila, 

A (in clic per le porle entro a le mura 
Quinci addur non si possa, ovo per segno 
E per memoria poi del nume antico 
Riverita da voi, sacrala c colla, 

Sia ricovro c tutela al popol voslro. 

Chi allur che questo dono a Palla offerto 
Per vostra man sia violalo c guasto, 

Itiiina estrema ( la qual sopra lui 
Caggia più loslo) a voi vuol che ne venga, 
Ed al gran voslro impero ; cd, a rincontro, 
Quando da voi sia dentro al vostro cerchio 
Condono c custodito ; allor, che l’ Asia 
Congiurerà con le sue forre tutte 
A l’ cstcrminio d’ Argo ; c che tal fato 
Sopra a' nostri nipoti in ciclo è (Isso. 

Con tal arte Sinon, con tali insidie 
Ec' si clic gli credemmo ; c quelli stessi 
Cui non poter ni T figlio di Tidéo, 

Ni di Larissa il bellicoso alunno, 

Ni dieci anni domar, ni mille navi, 

Furon da lagrimcllc c da memogno 
Sforzali c vinti. 

In questa a gl' infelici 
Un altro sopravvenne assai maggioro 
E più fero accidente ; onde a ciascuno 
D’ improvviso spavento il eor lurbossi. 

Era Laooconlc a sorte eletto 
Sacerdote a Nelluno; e quel dì stesso 
Gli facea d’ un gran loro ostia solenne : 
Quand’ ecco clic da Tcnedo ( m' agghiado 
A raccontarlo ) duo serpenti immani 
Venir si vegjpti parimente al lito. 
Ondeggiando col dorsi onde maggiori 
De le marine aliar tranquille e qucle. 

Dal mezzo in su fendean coi pelli il maro, 

E s' ergean con le leste orribilmente, 

Cinto di creste sanguinose cd irte 
Il rcslo, con gran giri c con le code 
L' ncque sferzando, si clic lungo trailo 
Si facean suono c spuma c nebbia intorno. 
Giunli a la riva, con Neri occhi accesi 
Di vivo foco c d' alro sangue aspersi, 

Vibrar le lingue, c gitlar liscili orribili. 

Noi di paura sbigolliti o smorti 

Olii qua, chi là ci dispergemmo ; c gli angui 

S' allllàr drillnmcnto a Laocoonle, 

E pria di due suoi pargoletti tìgli 
Le Icncrcllc membra ambo avvinchiando, 
Scn fòro crudo c miscrabil pasto. 

Poscia a lui, eli' a' fanciulli era con l' arme 
Giunto in aiuto, s' avventuro, c stretto 
L' avvinscr si che le scagliose terga 
Con due spiri nel petto e due nel colio 
Gli racchiusero il fiato ; c le bocche alle, 



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LIBRO SECONDO 



31 



Lacscrit, et tergo scelcralam inlorscrit hasUm. 
Ducendum ad sedes slniulacrum, orandaque divac 
Numina conclamane 

Ditidimus muros, et moenia pandimus urbis ; 
Accingunt omnes operi, pedibusque rolarum 
Subiiciunl lapsus, et stuppea «incula collo 
Intcndunt. Scandii fa la lis mackina muros, 

Fola armis : pueri circum innuplacquc pucllac 
Sacra canunl, funemque marni conlingcrc gaudent : 
Il la subii, mcdiacquc ininans illabilur urbi. 

0 patria, o ditóni domus llium, et indila bello 
Moenia Dardanidum I Qualar ipso in limine porlac 
Subslilil, alque utero sonitum quatcr arma dedcrc. 
Inslamus tamen immemores cacciquc furore, 

Et monslrum infelii sacrala sislimus aree. 

'fune cliam fatis aperii Cassandra fuluris 
Ora, dei iussu non unquam eredita Tcucris. 

Kos delubro deùm miseri, quibus ultimus ossei 
lite dies, festa velamus fronde per urbem. 

Vcrtilur interra coclum, et ruit oceano Nos, 
Intolvens umbra magna terramque poluinque, 
Mjrmidonumque dolos ; fusi per moenia Teucri 
Conticucre ; sopor fessos complcctitur arlus. 



Entro al suo capo fleramentq inllssc, 

Gli addentarono il Icsebio. Egli, com' era 
f)' atro sangue, di bara e di veleno 
Le bende e T rollo asperso, i tristi nodi 
Disgroppar con le man tentava indarno, 

E d’ orribili strida il cicl ferita ; 

Qual mugghia il loro allor clic da gli altari 
Sorge ferito, se ilei maglio appieno 
Non cade il colpo, ed ci lo sbatte e fugge. 

I fieri draghi alfln da i corpi esangui 
Disviluppati, in ver la rócca insieme 
Strisciando e zuflblando, al sommo ascesero: 
E nel tempio dì Palla, entro al suo scudo 
Rinvolti, a' pii di lei si raggruppar». 
Rinnovossi di ciò nel volgo orrore 

E tremore e spavento ; e mormorossi 
Che degnamente avea Laocoonlc 
Di sua temerità pagalo il (lo, 

E del furor clic contro al sacro legno 
Gli armò f impura e scellerata mano : 

E gridar lutti che di Palla al tempio 
Si conducesse, e con preghiere e voti 
De la dea si facesse il nume amico. 

A ciò seguire immantinente accinti. 
Rumando le porte, apriam le mura, 
Adattiamo al cavallo ordigni e travi, 

E ruote e curri a' piedi, e funi al collo. 

Cosi mossa e tirala agevolmente 
lai macchina fatale il muro ascende, 

D' armi pregna e d'orinali, a cui d' intorno 
Di verginelle e di fanciulli un coro, 

Sacre lodi cantando, con ditello 
Porgran mano a la fune. Ella per metro 
Traila de la città, mentre si scuote, 

Alcntru che ne l' andar cigola e freme, 
Sembra che la minacci. 0 patria, o Ilio, 
Santo de' numi albergo I inclita in arme 
Dardania terra I Noi la pur vedemmo 
Con tanti occhi a T entrar, clic quadro volle 
Frrmossi, e quattro volle anco n' udimmo 

II suon dell’ armi ; e pur, ila furia spinti, 
Cicchi e sordi clic fummo, i nostri danni 
Ci procurammo, clic 'I di stesso addotto 
E posto in cima a la sacrala ròcca 

Fu quel mostro infelice. Allor Cassandra 
La bocca aperse, e quale esser solca 
Verace sempre e non credula mai, 

L' estremo fine indarno ci predisse ; 

E noi di sacra e di festiva fronde 
Velammo i tempii il di, miseri noi! 

Che de' lieti dì nostri ultimo fuc. 

Scende da l’ Oceàn la nulle intanto, 

E col suo fosco velo involvc e copre 
lai terra e 'I cielo e de - Pclasgi insieme 
L’ordite insidie. I Teucri a i loro alberghi, 



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32 



DELL’ENEIDE 



Et iam Argiva plialanv inslructis navibus ibat 
A Tcncdo, lacilac per amica silenlia lunae, 

Lilora noia pclrns ; fiammas quum regia puppis 
Etlulcral, falisquc de A ni defensus iniquis, 

Inclusos utero Dauaos et pinea furtim 
Lavai elauslra Sinon. Illos palcfaclus ad auras 
ltcddit equus, laetique cavo se roborc promunt 
Thessandrus Stheuelusquc duces, et dirus Ulixes, 
Dcmissum lapsi per f imeni, Aconiasquc, Tlioasquc, 
Pclidesquc Ncoplolemus, primusque Madison, 

Et Mcnclaus, et ipsc doli labricalor Epcus. 
Invadunt urbein sonino vinoqiic sepullam ; 
Caeduntur vigilcs, porlisquc patenlibus omnes 
Areipiunl socios, alque agmina conscia iungunt. 



Tempus crai, quo prima qnics morlalibus aegris 
Incipit, et dono linóni gratissima serpi!. 

In somnis, ecce, ante oculos mocstissimus llcctor 
Visus adesso milii, Inrgosquc cITunderc flctus, 
flaptatus bigis ut quondam, alcrque cruento 
Pulvcrc, perque pedes traieetus torà lumenles. 

Ilei milii, qualis crai I quanlum mutatus ab ilio 
llcctore, qui redit eiuvias indili us Achilli, 

Ycl Panarmi Phrygios ìaculalus puppibus ignes ; 
Squalcnlem barbato, et concrclos sanguine crines, 
Vulncraqiic illa gerens, quac circtim plurima muros 
Accopil palrios ! Litro llcns ipse videbar 
Compcllarc virano, et mocslas exproniere voces : 

0 lux Dardaniae, spes o Adissimo Tcucrùm, 

Quac lanlac lenuere morac ? Quibns llcctor ab oris 
Exspcclalc venis ? Ut te post multa tuormn 
Finterà, post varios boininumqnc urbisque labores 
Defessi adspicimus? quac caussa indigna scrcnos 
Foedavil vuUus? aut cur haec vulnera cerno? 
lite riiliil; nec me quaercnlcm vana moralur; 

Scd graviter gemilus imo de pectore duccns ; 

Hcu Tugc, nate dea, teque bis, ait, eripe tlammis. 
lloslis liabel muros; ruit allo a culmine Troia. 

Sai palriac Priamoquc dalum. Si Pergamo devira 
Defendi possenl, oliano hac defensa fuissent. 

Sacra suosque libi commendai Troia Penatcs: 
llos cape falorum comilcs, liis moenia quacrc, 
Slagna percrrato slaUics quac denique ponto. 

Sic ait; et manibus villas Vcslamquc polcntera 
Aelernumqnc adytis cITert penclralibus igneni. 



A i lor riposi addormentati e quel 
Giaccan sccuramcnle; 

E già da Téncdo 
A l’ usala riviera in ordinanza 
Ver noi se ne venia l’Argiva armata, 

Col favor de la notte occulta c cheta ; 
Quando da la sua poppa il regio legno 
Ne diè cenno col foco. Allor Sinono, 

Che per nostra ruina era da noi 
E dal falò maligno a ciò serbalo, 

Accostassi al cavallo, e il chiuso venire 
Chetamente gli aperse , e fuor ne trasse 
L’ occulto agguato. Uscirò a P aura in prima 
I primi capi baldanzosi e lieti, 

Tulli per una fune a terra scesi : 

E Tur Tessa ndro c Stèndo ed Ulisse, 
Acamante e Toanlo c Macaone 
E Pirro c Menelao con lo scaltrito 
Fabbricalor di questo inganno Epèo. 

Assalir la città, clic già ne l’ ozio 
E nel sonno e nel vino era sepolta ; 

Ancisero lo guardie ; aprir le porle ; 

Miser le schiere congiurale insieme ; 

E dicr forma all' assalto. 

Era ne P ora 
Clic nel primo riposo hanno I mortali 
Quel cip è dal cielo ai loro afTanni infuso 
Opportuno e dolcissimo ristarò ; 

QuaniPecco in sogno (quasi avanti gli ocelli 
Mi fosse veramente) Ettor m'apparve 
Dolente, lagrimoso, e quale il vidi 
Già strascinalo, sanguinoso c lordo 
Il corpo lutto, c i piè forato c gonfio. 

Lasso me I quale c quanta era mutata 
Da quell' Etlór che ritornò vestito 
De le spoglie d' Achille, e rilucente 
Del foco, ond' arse il gran Datile Argolico I 
Squallida area la barba, orrido il crine 
E rappreso di sangue ; il petto lacero 
Di quante unqua ferite al patrio muro 
Ebbe d' intorno. E mi parea che T primo 
Foss' io che lacrimando gli dicessi : 

0 splendor di Dardania, o de' Troiani 
Sccurissima speme, c quale indugio 
T’ Im Un qui trattenuta ? Ond' or ne vieni 
Tanto da noi bramato ? Ahi dopo quanta 
Strage de' tuoi, dopo quanti travagli 
De la nostra città, già stanchi c domi 
Ti riveggiamo ! E qual fero accidente 
Fa si deforme il tuo volto sereno? 

E clic piaghe son queste ? Egli a ciò nulla 
Dispose, come a vani mici quesiti ; 

Ma dal profondo petto alti sospiri 
Traendo, Oh ! fuggi, Enea, fuggi, mi disse : 
Toglili a queste fiamme. Ecco clic dentro 



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LIBRO SECONDO 



33 



Diverso intensa misccnlur moenia Iuctuj 
Et magis atquc inagi s, quamquam secreta parentis 
Ancliisae domus arboribusque obtccta recessi!, 
Clarescunt sonitus, armorumque ingruit horror. 
Excutior sonino, et summi fastigio tedi 
Adscensu supero, atquc arrcclis auribus adsto, 

In segetem veluti quum fiamma, furcntibus Auslris, 
Incidi!, aut rapidus montano fluminc torrcns 
Sterni! agros, sterni! sala laeta boumque labores, 
Praccipitesque traiti! silvas, stupet inscius allo 
Accipicns sonilum savi de vertice pastor. 

Tum vero manifesta Ddes, Dana ùmque patescunt 
Insidine. lam Dciphobi dedit ampia ruinam. 

Vulcano superante, domus; iam provimus ardet 
Ecalcgon; Sigea igni freta lata relucent; 

Eioritur clamorquc viróm clangorque tubarum. 
Arma amens copio; nec sat ralionis in armis; 

Scd glomcrarc manum bello, et concurrcre in arccm 
Cum sociis ardenl animi. Furor iraque mcntem 
Praecipitanl; pulebrumque mori succurrit in armis. 



Ecce autem telis Panlhus elapsus Achlvtìm, 

Panthus Olbrjades, arcis Phoebiquc saccrdos, 

Sacra manu viclosque dcos , parvumque ncpolcm 
Ipse trahit, cursuquc amens ad limina tendit. 

Quo res summa loco, Panltiu? quam prendimus arcem? 
Vii ea falus cram, gemitu quum talia reddit : 

Ycnit summa dics et incluctabile tempus 
Dardaniae. Fuimus Troes; fuit Uium , et ingcns 



Virgilio, voi. calco. 



Sono i nostri nemici. Ecco gii eh' ilio 
Arde tutto c ruina. InGno ad ora 
E per Priamo e per Troia assai s' è fatto. 

Se difendere ornai più si potesse, 

Fòra per questa man difesa ancora : 

Ma dovendo cader, le sue reliquie 
Sacre e gli santi suoi numi Penati 
A te solo accomanda ; e tu li prendi 
Per compapi a' tuoi fati ; c, come è d’uopo, 
Cerca loro altre terre, ergi altre mura ; 

Chè dopo lungo e travaglioso esigilo 
L'ergerai più di Troia altere e grandi. 

Detto ciò, da le chiuse arche rcpostc 
Trasse e mi conscpò le sacre bende, 

E l’ effigie di Vesta e T foco eterno. 

Spargonsi intanto per diverse parti 
De la presa città le grida e ’1 pianto 
E ’l tumulto de l' armi ; c rinfuriando 
Vie più di mano in man, tanto s' avanza 
Che a l' antica magion del padre Anchise 
( Come che fosse assai remota, c chiusa 
D’ alberi intorno ) il gran rumore aggiunge. 
Allor dal sonno mi riscuoto, e salgo 
Subitamente d' un torrazzo in cima, 

E porgo per udir gti orecchi attenti. 

Cosi rozzo pastor, se da gran suono 
È da lunge percosso, in allo ascende, 

E mirando si sta confuso e stupido 
0 foco, che al soffiar d' un torhid’ austro 
Stridendo arda le biado c le campagne, 

0 tempestoso e rapido torrente 
Che dal monte precipiti, e le selve 

Ne meni e i colti e le ricolte c i campi. 

Allor, lardi, credemmo ; allor le insidio 
Ne Tur conte de' Greci. E già T palagio 
Era di Dcifòbo arso c distrutto ; 

Già 'I suo vicino Ucalcgon ardea, 

E l' incendio di Troia in ogni lato 
Rilucea di Sigeo ne la marina ; 

E s' udian gridar genti c sonar tube, 
lo m' armo, e forsennato anco ne l' armi 
Non veggio ove m'adopri. Al fin risolvo, 
Ràunati i compapi, avventurarmi, 

Menar le mani, o ne la ròcca addurmi. 

Mi fan l' impeto e l' ira ad ogni rischio 
Precipitoso ; e solo a mente vienmi 
Che un bel morir tutta la vita onora. 

Eravam mossi ; quando ceco Ira via 
Ne si fa Panto d' improvviso avanti, 

Ponto tiglio d - Otréo, che de la ròcca 
Era custode, c sacerdote a Febo. 

Questi, scampalo da’ nemici appena, 

Inverso il lito attonito fuggendo, 

1 sacri arredi c i sacri simulacri 

De gli dei vinti, c il suo piccol nipote 
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Si 



LELL' ENEIDE 



Gloria Tencrorum. Ferus omnia lupilcr Argos 
Translulil; incensa Danai dominanlur in urbe. 

Arduus armalos niediis in moenibus adslans 
Fundil cquus, victorquc Sinon incendia miscet , 
Insullans: poitis alii bipatentibus adsunl, 

Jlillia quol magni* unquam venere Jlyccnis: 

Obsedere alii lelis angusta riarura 
Opposili; slal ferri acies mucrone etrusco 
Strida, parala ncci; vis primi proclia lontani 
Portarum vigiles, cl caeco Marie resislunl. 

Talibus Olhryadae diclis et numinc divflm 
In flammea et in arma fcror, quo tristi* Erinnys, 

Quo fremitua Torni et sublalus ad aetliera clamor. 
Addunl ac socio* Rbipcus et moiimus armis 
Epylus, oblali per lucani, Hypanisquc Dymasquc, 

Et latori adglomerant nostro , iuvcnisquc Corocbus 
Mygdonidos. lllis ad Troiam forte dicbus 
Venerai, insano Cassandrac incensus amore ; 

Et getter aulii inni Priamo Phrjgibusque ferebat, 
Infelii, qui non aponsac praecepta furcnlis 
Audierat. 

Quos ubi conferma autiere in proelia vidi, 

Incipio super bis: luvenes, fortissima frustra 
Pectora, si vobis audcntcm estrema cupido 
Certa sequi fqttac sii rebus fortuna, videtis: 

Eicessere omnes, adylis arisque reliclis, 

DI, quibus impcrium hoc stetcrat; succurritls urbi 
Incensaci: mnriamur, et in media arma ruarnus. 
lina aalua ridia nullam sperare saitilcm. 

Sic animia iuvenum furor additus. Inde, lupi ccu 
Raplores atra in nrbula, quos improba ventris 
Ezegit caccos rabies; calulique relieti 
Faucibus cvspeclant siccis; per tela, per hosles 
Vadimus haud dttbiam in mortem mediaeque tenemus 
Urbis iter; nov atra cara circrimvolat umbra. 

Quis cladem illius noci», quis fonerà ftindo 
Esplicai. 8 ut possi! lacrimis acquare laltores? 

Urto antiqua ruit, multos dominala per annos ; 
Plurima perque riaa slemunlur inertia passim 
Corpora, perque domos , et religiosa deorum 
l.imina. Ncc soli poenas darti sanguine Teucri ; 
Quondam eliam viclis redi! in praecordia virtus, 
Victaresque caduut Danai. Crudelis ubique 
l.uclus, ubique pavor, et plurima mori» imago. 



Si Iraea seco. 0 Paolo, o Paulo ( io dissi ) 

A clic siam giunti ? Ove ricorso abbiamo, 

Se la rócca è gii presa 7 Ei sospirando 
E piangendo rispose : F. giunto, Enea, 

L' ultimo giorno, e 'I tempo inevitabile 
De la nostra ruma. Ilio Tu già , 

E noi Troiani fummo. Or è di Troia 
Ogni gloria caduta. 11 fero Giove 
Tutto in Argo ha rivolto ; e tutti in preda 
Siam de' Greci e del foco. Il gran cavallo, 
Ch'era a Pallade volo, altero in mezzo 
Stassi de la cilladc, e d’ ogni lato 
Arme versa ed armati. Il buon Sinone 
Gode de la sua frode, d 1 ogn' intorno 
Scorrendo si rimescola, e s’ aggira 
Gran maestro d’ incendi c di ruinc. 

A porte spalancate cntran le schiere 
Senza ritegno ed a migliaia, quante 
Nè d’Argo usciron mai, nè di Micene. 

Gli altri, che prima cntraro, han già le strade 
Assediate, e stan con l' armi infesto 
Parate a far di noi strage c macello. 

Soli son Ano a qui sorli in difesa 

I corpi de le guardie : c questi al buio 
Fanno con lievi c repentini assalti 
Tale una cicca resistenza appena. 

Dal parlar di costui, dal Nume avverso 
Spinto, mi caccio tra le damme e r armi, 
Ove mi chiama il mio cicco furore, 

E de le genti il fremilo e le strido 
Che feriscono il cielo. E per compagni 
Primieramente al lume de la luna 
Mi si scopron Bipéo, Epito il cerchio, 

Ed Ipane c Rimante : indi comparve 

II giovine Corebo. Era costui 

Figlio a Migdonc, insanamente acceso 
De l’ amor di Cassandra ; e come fosse 
Già suo consorte, pochi giorni ovanti 
In soccorso del suocero c de’ Frigi 
S' era a Troia condotto. Infortunato I 
Che non area la sua sposa indovina 
Ben anco intesa. A questi insieme accolti 
Per accendergli piò mi volgo, e dico : 
Giovani forti e valorosi, in vano 
Ornai Ila la fortezza e ’l valor vostro ; 

Poiché perduti siamo e che Troia arde, 

E gli dei tutti, a cui tutela e cura 
Si reggea questo impero, in abbandono 
Lasciano i nostri tempii e i nostri altari. 

Ma se voi cosi fermi c cosi certi 
Siete pur, com' io veggio, a seguitarmi, 
Ancor che a morte io vada, in mezzo a Farmi 
Avventiamci, e moriamo. l ! n sol rimedio 
A chi speme non ave è disperarsi. 

Cosi F ardir di quelli animi accettai 



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LI URO SECONDO 



Piimus se, Danatìm magna comitante caterva, 
Androgeos obfert nobis, socia ogmina credens 
Inscius; atque ullro verbis compcltal amicis : 
Fcstinate, viri. Nani quae tara sera moratur 
Segnities? Alii rapiunt incensa rcruntquo 
Pcrgaraa; vos cclsis nunc primum a navibus ilis? 
Dixil; et citcmplo — ncque enim responsa dabantur 
Fida salis — sensil medios dclapsus in hosles. 
Obstupuit, retroque pedoni cum voce repressit. 
Improvisum aspris velati qui sontibus angtiem 
Prcssit liumi nitens, Irepidusque repente refugit 
Attollenlcm iras et cacrula colla tumentem: 
liaud secus Androgeos visu tremefortus abibal. 
Irruimus, densis et circumfundimur armis; 
Ignarosquc loci passim et formuline captos 
Sternimus; adspiral primo fortuna labori. 

Atque hic successu exsullans animisque Corocbus: 

0 sodi, qua prima, inquit, Fortuna salutis 
Monstrat iter, quoque ostendit se destra, sequamur: 
Blutcmus clipeos, Danaòmque in^ignia nobis 
Apteraus. DoJus, an rirtus, quis in hoste requirat? 
Arma dabunt ipsi. Sic fatus, deinde comanlem 
Androgei galeam, clipciquc insigne decorum 
Induilur, latcrique Argivura accommodal enscm. 
Hoc Rhipeus, hoc ipsc Djmas, omnisque iuventus 
Laela facit; spoliis se quisque rccentibus armai. 
Vadimus immilli Danais haud numine nostro, 
Multaquc per caccam congressi proelia noctcm 
Conscrimus; multos Danaùm demiltimus Orco. 
Uiffugiunt alii ad uaves, et litora cursu 



33 

Furor divenne. Usciam di lupi in guisa, 

Che rapaci, famelici e rabbiosi, 

Col ventre vóto c con le canne asciutte 
Sentan de' lupidni urlar per fame 
Pieno un digiun covile. Andiam per mezzo 
De' nemici e de I* armi a morte esposti 
Senza riservo, c via drilli fendiamo 
La città tutta, a la buia ombra occulti, 

Che rattezza facea de gli edifici. 

Or chi può dir la strage c la ruina 
Di quella nollc ? E qual è pianto eguale 
A lauta uccisione, a tanto eccidio ? 

Troia ruina, la superba, antica 
E gloriosa Troia, c che tini* anni 
Portò scettro e corona. Era, dovunque 
S’ andava, di cadaveri, di sangue, 

D’ ogni calamità pieno ogni loco, 

Le vie, le case, i tempii. E non pur soli 
Caddero i Teucri, chè I* antico ardire 
Destossi, e surse alcuna volla ancora 
Ne gli lor petti. I vincitori e i vinti 
Giaccan confusamente, o d* ogni lato 
S’ udian pianti e lamenti ; e questi c quelli 
Eran da la paura e da la morie 
la mille guise aggiunti. 

Andrògco il primo 
De T Greci fu, che avanti ne s* offerse 
Condotticr di gran gente. Egli avvisando 
Parte sollecitar de la sua schiera, 

Affrettatevi, disse ; a clic badate ? 

Che indugio è’I vostro? Altri espugnata ed arsa 
E depredata Iran di già Troia ; e voi 
Testé venite I Avea ciò detto appena, 

Che, il segno e la risposta indarno attesa, 

Tra nemici si vide ; c come attonito 
Restando, con la voce il piè ritrasse. 

Come repente il vi'alor s’ arretra, 

Se d’ improvviso fra le spine un angue 
Avvidi che prema, ed ei premuto e punto 
D’ ira gonfio e di tosco gli s’ avventi ; 

Così dal nostro subitami incontro 
Sovraggiunto in un tempo c spaventalo 
Andrògco per fuggir ratto si volse. 

Ma noi, che impaurili e sconcertati 
A la sprovvista gli assalimmo in lochi 
A lor non consueti , in breve spazio 
Li circondammo, c gli ancidemmo al fine : 
Tanto nel primo assalto amica e presta 
Ne fu la sorte. E qui fatto Corebo 
D' un tal successo e di coraggio altero, 
Compagni, disse, poi clic la fortuna 
Con queslo si felice a gli altri incontri 
Nc porge aita a nostro scampo, usiamla. 
Muiiam gli scudi, accomodiamo gli cimi 
E l’ insegne de’ Greci. 0 biasino, o lode 



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30 



DELL’ENEIDE 



Fida pclunt; pars ingcntcm formidìnc turpi 
Scandunl rursus cquum, c( noia condunlur in atro. 
Ilt-u nihil invilis fas quemquara Udore divisi 



Ecco Iraliebalur passis PriarneTa virgo 
Crinibus a tempio Cassandra adytisque Mincriac, 
Ad eoclum tcndens ardentia lumina frustra. 
Lumina; nam Icncras arcebant «incula palmas. 
Sun Itili! liane spcciem Furiala mente Coroebus, 
Et scsc medium inicr.it perituras in agraen. 
Conscquiniur cuncli, cl densis incurrimus armis. 
Hic primum ex allo delubri culmine lelis 
Noslrurum nbruimur, oriturque miserrima eaedes 
Annerimi facie et Graiarum errore iubarum. 

Tum Danai gemito alque ereptac virginia ira 
liudiquc coliceli invadunl; acerrimus Aiax, 

Et gemini Alridae, Dolopumque excrcitus omnis: 
Adversi ruplo eeu quondam turbine venti 
Conlligunl, Zepbyrusque, Nolusquc.cl lactus Eois 
Eurus equi»; stridimi silvac, saevilquc tridenti 
Spumcus alque imo Nereus ciel aequora tondo. 
Illi eliam, si quos obscura noclc per umbram 
Fudimus insidiis, lotaquc agitavimus urbe, 
Appnrcnl, primi clipeos mrnlitaque tela 
Agnuscunl, alque ora sono discordia signant. 
Ilirel obruiinur numero; primusque Coroebus 
Pendei destra divae armipolcnlis ad aram 
Procumbil; cadi! et Rbipeiis, iustissimus unus 
Qui fuit in Teucris, et servantissimus aequi: 

Dls alitcr visutn. Pcreunt llypanisquc Dymasquc, 
Condii a sociis; nec le tua plurima, Panlhu, 
Labcnlcm pietas, nec Apollinis infula texit. 

Iliaci cinercs, cl (laminò exlrema meorum, 

Tcslor, in oecasu veslro nec tela nec ullas 
Vilavissc viecs Danaùm; et, si fata fuisscnt. 

Ut caderem, meruisse marni. Divellimur inde; 
Ipbitus et Pelias mccum: quorum Iphilus acro 
lam gravior, Pelias et vulncre lardus L'lixi : 
Prolinus ad sedes Priami clamore vocali. 

Ilic vero ingentilii pugnarli, celi celerà nusquam 
lìdia Torcili, nulli loia morcrenlur in urbe, 



Che ciò ne sia, chi co' nemici il cerca 7 
L' arme ne daranno essi. E, cosi detto, 

La celata c 'I cimier d' Andrógco stesso, 

E la sua scimitarra e la sua targa 
Per lui si prese, armi onorate c conte. 

Cosi fece Rifèo, cosi Dimanle, 

E cosi tutti ; chè per sé ciascuno 
Di nuove spoglie allegramente armassi. 

Ci mettemmo Ira lor, chè i nostri dii 
Non eran nosco ; e ne l' oscura notte 
Con ogni occasione in ogni loco 
Ci azzuffammo con essi ; e di lor molti 
Mandammo a F Orco, o ritirar moli’ altri 
Ne facemmo alle, navi : e Tur di quelli 
Che per viltà nel cavernoso e cieco 
Ventre si racquallàr del gran cavallo. 

Ma che? Conira ’1 voler de’regi eterni 
Indarno osa la gentel 

Ecco dal tempio 

Trar reggiani di Minerva, con le chiome 
Sparse, e con gli occhi indarno al ciel rivolti 
l a vergine Cassandra. Io dico gli occhi, 
Perchè le regìe sue tenere mani 
Eran da' lacci indegnamente avvinte. 

A si fero spettacolo Corcbo 
Infuriato, c di morir disposto, 

Anzi che di soffrirlo, a quella schiera 
Scagliossi in mezzo; e noi ristretti insieme 
Tutti il seguimmo. Or qui fessi di noi 
Una strage crudele c miserabile; 

E da' nostri medesmi , che la cima 
Tencan del (empio , e dardi e sassi e travi 
Ne versarono addosso, immaginando 
Da l'armi, da' cimieri, da l' insegne 
Di ferir Greci; e i Greci d’ ogni intorno, 
Tratti dal gran rumore e da lo sdegno 
De la ritolta vergine, s'uniro 
A i nostri danni. Il bellicoso Aiace, 

I fieri Atridi, i Dólopi e gli Argivi , 

Tutti ne furon sopra in quella guisa 
Ch'opposti un centra l’altro Affrico o Bòrea 
E Garbino c Volturno accolte in mezzo 
Ilan le selve stridenti o 'I mare ondoso, 
Quando col suo tridente infin dal fondo, 

II gran Nereo ^conturba. E tornir anco 
Incontro a noi quei che da noi pur dianzi 
Sen gir rotti c dispersi; e questi in prima 
Scoprir le nostre insidie , c fèr palesi 

Le cangiate armi e gli mentiti scudi , 

E T parlar che dal greco era diverso. 

Cosi ne fu subitamente addosso 
Un diluvio di gente. E qui per mano 
Di Penclco, davanti al sacro altare 
De l'armigera Dea cadde Corcbo: 

Cadde Rifèo, eh' era ne' Teucri un lume 



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LIBRO SECONDO 



37 



Sic Marlem iiidomllnm, Donaosque ad (cela mente* 
Cernirmi*, oliscssumqiic acta (oludinc limen. 
llacrcnl parìdiltus scolac, poslesquc sub ipsos 
Niluntur gradibus, clipcosquc ad Irla siuistris 
Prolccli obiiciunl, prcnsant rasligia dextris. 
Dardanidac conira lurrcs ac teda dnmoruui 
Culmina convcllunl; bis se, quando ultima comuni, 
Estrema iarn in morie parant derendere lelis, 
Auralasquc Irabes, vclerum decora alla parcntum, 
Devolvunl: alii slriclis mucronibus inias 
Obsedcrc forcs; bas servarli ogminc denso. 

Instaurali animi, regia succurrcrc leclis, 

Auvilioquc levare viros, vimque adderò viclis. 



l.imen erat, caeraequo forca, et pervius usus 
Tectorum inter so Priami, postesquo relieti 
A tergo, infetta quo se, dum regna maocbant, 
Saepius Andromacltc Terre incombalo solebai 
Ad soccros, et avo pucrum Astynnarla trahebat. 
Evado ad sunimi rasligia culminis, unde 
Tela manu miseri iaclabanl irrita Teucri. 

Turrim, in praeeipiti slantein, summisque sub astra 
Eductam tectis, unde omnis Troia viderì, 

Et DanaAm solitac naves, et Achaìa castra, 

Aggrcssì ferro circum, quo sumtna labantcs 

VlBGILIO, VOI. ISICfl. 



Di boni», di giustiria e d'equilale 
( Cosi a Dio piacque ) ; ed Ipane o Dimante 
Caddero aneli' essi, e questi, oimè trafitti 
Per le man pur de' nostri. E tu, pietoso 
Panlo, cadesti; e la tua gran piotate, 

E T infoia santissima d' Apollo 

In ciò nulla li valse. 0 fiamme estreme , 

0 ceneri do' mici I falerni fede 

Voi, die nel vostro occaso io risolilo alcuno 
Non rifiutai ni d’arme, nò di foco, 

Nò di qual fosse incontro, nè di quanti 
Ne facessero i Croci : e sc’l fato era 
Eli’ io dovessi cader, caduto fora: 

Tal ne feci opra. Ne spiccammo al fine 
Da quel mortale assalto : Itilo e Delia 
Ne venner meco: Itilo affililo e grave 
Ciò d’anni; e Pelia, indebolito e tardo 
I)’ un colpo, càie di mano ebbe d' Ulisse. 
Quinci divelti , al gran palagio andammo 
Da le grida chiamati. Ivi era un fremilo . 
l’n tumulto, un combatter così fiero, 

Come guerra non fosse in altro loco , 

E quivi sol si combattesse, e quivi 
Ognun morisse, e nessun altro altrove : 

Tal v’era Marte indomito, e de’Greci 
Tanto concorso. Avoan la porla cinta 
Di schiere e ili testuggini e di travi , 

E d' amili i lati a la parete in allo 
Appoggiale le scale ; onde, saliti 
E spinti un dopo l’ altro, con gli scudi 
Ci ricoprian di sopra , e con le destre 
Rampicando salian di grado in grado. 

A rincontro i Troiani , altri di sopra 
Muri e letti versando e torri intere , 

1 travi e i palchi d'oro e i fregi tutti 
De la reggia e de’ regi avean per armi ; 
Vermi a far sì ( poiclr eran giunti al fine ) 
Ch'ogni cosa con lor finisse insieme: 

Ed altri unitamente entro a la porta 
Statan coi ferri bassi , in rolla schiera 
A guardia de t' entrala. E qui di nuovo 
A sovvenir la corte , a far difesa 
Per entro, a dare a' vinti animo e forza 
Mi posi in core: e ’n colai guisa il Tei. 

Era un andito occulto ed una porta 
Secrclamcnle accomodata a l’ uso 
De le stanze reali , onde solea 
Andromaca infelice al suo buon tempo 
Gir a’ suoceri suoi soletta , e seco 
Per domestica gioia al suo grand' avo 
Il pargoletto AstTanattc addurre. 

Quinci entromesso, me ne salsi in cima 
A l’ alto corridore, onde i meschini 
Faccan di sopra a le nemiche schiere 
Tempesta in vano. Era dal letto a l’ aura 
« 



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Ì8 



DEI.L'F.NEIDE 



luncturas tabulata dabanl, convellimus altis 
Sedibu»; impulimusque: ea lapsa repente ruìnam 
Cum soni tu traini et Danaùm super agrnina late 
Incidi!. Asl alii subcunl; lice saia, nec ullum 
Telorum inlerca cessai gcnus. 



Vcstihulum ante ipsum primoque in limine Pjrrhus 
Eisultal, telis et luce eeruscus aliena: 

Qualis, ubi in lueem coluber, mala graniina paslus, 
Frigida sub terra tumidum quem bruma tegebat, 
Nunc positis novus eiuviis nilidusque iuventa, 

Lubrica convolril, sublato pectore, terga 
Arduus ad solcm, et linguis mica! ore trisulcis. 
l’na ingens Peripli» et equorum agitator Achillis 
Armigcr Aulomcdon, una omnis Scjria pubes 
Sucecdunt ledo, et flamtnns ad culmina iactant. 

Ipse inler primos corrcpta dura bipenni 
Limina pcrrumpil postesque a cardine rellit 
Aeratos; iamque eicisa trabe Orma cavavi! 

Robora, et ingcnlcm lato dedit ore feneslram: 

Apporci domus intus, et alria longa patcscunl; 
Apparcnt Prismi et vetcrum penctralia regum; 
Armalosquc vident slanlcs in limine primo. 



At domus interior gemitu miscroquc lumullu 
Miscetur; pcnilusque cavae plangoribus aedes 
Femincis ululanti ferii aurea sidcra clamor. 

Tum pavidae lectis malres ingcnlibus crranl, 
Ampleiaequc tenenl postcs, atquc oscula (igunt. 
Instai vi patria Pyrrhus; nec ctaustra, ncque ipsi 
Custodes sulTerre valent. Labat ariete crebro 
Ianua, et emoti procumbunt cardine postcs. 

Fit via vi; rumpunt adilus, primosque trucidant 
Immissi Danai, et late loca milite complent. 

Non sic, aggeribus ruplis quum spumeus amnis 
Eiiit, oppositasqne cvicit gurgitc moles, 

Fertur in arva furens cumulo, camposquc per omnes 
Cum slabulis armento trabit. Vidi ipse furenlcm 



Spiccata , c sopra la parete a ilio 
Un'altissima torre , onde il paese 
Di Troia , il mar , le navi c ’l campo tutto 
Si scopria de' nemici. A questa intorno 
Co’ ferri ci mettemmo e co’ puntelli ; 

E da radice , ov’ era al palco aggiunta , 

E da' suoi tavolati e da' suoi trovi 
Recisa in parte , la tagliammo in tutto , 

E la spingemmo. Alla rijina c suono 
Fece cadendo ; e di più Greche squadre 
Fu strage c morte c sepoltura insieme. 

Gli altri vi salir sopra ; e d' ogni parte 
Seni' intermission d’ ogni arme un nembo 
Volava intanto. 

In su la prima entrala 
Slava Pirro orgoglioso, c d’armi cinto 
SI luminose, c da’ redassi accese 
Ili tanti incendi , che di foco c d' ira 
l’arcan lungo avventar raggi c scintille. 
Tale un colùbro mal pasciuto e gonfio , 

Di lana uscito, ove la fredda bruma 
Lo tenne ascoso , a F aura si dimostra , 
Quando deposto il suo ruvido spoglio 
Ringiovcnilo, alteramente al sole 
Lubrico si travolse, e con tre lingue 
Vibra mille suoi lucidi colori. 

Seco il gran Perifanle e T grande auriga 
D’ Achille Automcdonlc , c lo stuol lutto 
Era de’ Seiri ; c di gii sotto entrati , 
Fiamme a’ tetti avventando , ogni difesa 
Ne faccan vana. E qui co' primi avanti 
Pirro con una in man grave bipenne 
Le sbarre, i legni, i marmi , ogni ritegno 
De la ferralo porta abbatte c frange , 

E per disgangbcrarla ogni arte adopra. 
Tante al fin ne recide clic nel meno 
V apre un' ampia finestra. Appaion dentro 
Gli atri! superbi i lunghi colonnati, 

E di Priamo e de gli altri antichi regi 
I reconditi alberghi. Appaion Farmi 
Che d' avanti eran pronte a la difesa. 

S’ode più dentro un gemilo, un tumulto 
Un compianto di donne, un ululato, 

E di confusione e di miseria 

Tale un suon che feria F aura e le stelle. 

Le misero matrone spaventate, 

Chi qua, chi là per le gran sale errando, 
Ratlonsi i petti; e con dirotti pianti 
Danno infino a le porte amplessi e baci. 
Pirro intanto non cessa , e furioso 
In sembianza del padre, ogni riparo , 

Ogni intoppo spezzando , entro si caccia. 
Già l'ariete a fieri colpi e spessi 
Aperta, fracassala , e d’ ambi i lati 
Da' cardini divelta avea la porla ; 



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LIBRO SECONDO 



39 



Cuedc Neoptolemum, gemmosi] tic in limine Atridas; 
Vidi llecubam ccnlumque nurus, Priomumqnc per aras 
Sanguine foedantem, quos ipse sacrarmi, ignea. 
Quinquaginta illi thalamì, spcs tanta nepotum, 
Barbarico poslcs auro spolììsque superbi, 

Procubuerc; tencnt Danai, qua deficit ignis. 



Forsitan et, Prismi fucrint quac Tata, requiras. 
Urbis uli captac casoni convulsaque «idi! 

Limine tcctorum, et medium in penctralibus hostem, 
Arma diu senior desueta Iremenlibus acro 
Circumdat ncquidquam humeris, et inutile fcrrum 
Cingilur, ac densos fertur morilurus in liostes. 
Acdibus in mediis, nudoque sub aetbcris are, 

Ingcns ara fuit, iuitaque veterrima laurus, 
Iricumbens arae, atque umbra completa Pcnales. 

Uic Hecuba et natae ncquidquam altaria circum, 
Praecipitcs atra ccu tempestate columbae, 
CondCDsae et ditóni ainpleiac simulacra sedebant. 
Ipsum aulem sumlis Priamum iuvenalibus armis 
Ut vidil: Quae mens lam dira, miserrime coniuoi, 
Impulit bis cingi lelis? aut quo ruis? inquii. 

Non tali ausilio, ncc defensoribus istis 

Tcrapus egei; non si ipse meus nunc adforet ilector. 

Due tandem concede; haec ara luebitur omnes, 

Aut moriere simul. Sic ore dialo, recepii 
Ad scsc, et sacra longaevum in sede locavi). 



Quand' egli a forza urtò, ruppe c conquise 

I primi armati; e quinci in un momento 
Di Greci s' allagò la reggia tutta. 

Qual è, se rotti gli argini, spumoso 
Esce c rapido un fiume , attor clic gonfio 
E torbo e rùinoso i campi inonda , 

Seco i sassi traendo e i boschi interi , 

E gli armenti e le stalle e ciò che avanti 
Gli s' attraversa; in colai guisa io stesso 
Vidi Pirro menar rGina e strage : 

E vidi ne l’ entrata ambi gli Atridi ; 

Vidi Ecuba infelice , ed a lei cento 
Nuore d’ intorno; e Priamo vid' anco 
Ch'eslinguea col suo sangue, oimè! quc’fochi 
Clic da lui stesso eran sacrali e colli. 
Cinquanta maritali appartamenti 

Eran nel suo serraglio: oh quale, c quanta 
Speranza de’ figliuoli e de' nipoti I 
Quanti fregi , quant' oro , quante spoglie , 

E quant' altre ricchezze! e tutte insieme 
Perirò incontanente: c dove il foco 
Non era, erano i Greci. 

Or , per coniarvi 

Qual di Priamo fosse il lato estremo , 

Egli , poscia clic presa , arsa e disfatta 
Vide la sua cittadc; e i Greci in mezzo 
Ai suoi più cari e più riposti alberghi ; 
Ancor che sòglio c debole c tremante, 
L'armi che di gran tempo avea dismesse , 
Addur si fece; e d'esse inutilmente 
Gravò gli omeri e’ I fianco ; e come a morte 
Devoto, ove più folti c più feroci 
Vide i nemici , incontri a lor si mosse. 

Era nel mezzo del palazzo a l'aura 
Scoperto un grand'altare, a cui vicino 
Sorgea di molli c di moli' anni un lauro 
Che co' rami a l' aitar facca tribuna , 

E con l' ombra a’ Penali opaco velo. 

Qui , come d' atra e torbida tempesta 
Spaventate colombe, a l'ara intorno 
Avea le care figlie Ecuba accolte ; 

Ove a gl' irati dei pace ed aita 
Chiedendo, a gli lor santi simulacri 
Stavano con lo braccia Indarno appese. 

Qui, poiché la dolente apparir vide 

II vecchio re giovenilmente ormato , 

0, disse, infelicissimo consorte, 

Qual dira mente, o qual follia ti spinge 
A vestir di quest’ armi ? Ove t’ avventi 
Misero 7 Tal soccorso c tal difesa 

Non è d’ uopo a tal tempo : non se appresso 
Ti fosse anco Ettor mio. Con noi più tosto 
Rimanti qui; chè questo santo altare 
Salverà tutti, o morrem tutti insieme. 

Ciò dello, a sé lo trasse; e nel suo seggio 



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10 



1ELL' ENEIDE 



Ecco aulcm clapsus Pjrrhi tic caede Politcs, 

Unus natorum Prianii, per tela, per lioslcs 
Porlicibus longis fugil, cl vacua alria lustrai 
Saucius. Illum ardens infesto vulucre Pjrrlius 
Inscquilur, iam iamque maini lene!, cl prendi liasla 
lì tandem aule oculos cvasil et ora parcntum, 
Concidit, ac multo vilarn rum sanguine fucili. 

Ilic Priamus, quamquam in media iam morte tcnelur, 
Non (amen abstinuit. nec voci iraeque pepcrcil. 

Al libi prò sedere, esclamai, prò talibus ausi», 

DI, si qua csl rodo pietas, quac talia curcl, 

Persolvant gratcs dignas, et praemia rcddanl 
Debita, qui nati corsili me cernere letum 
Feristi, cl palrios foedasli funere vultus. 

Al non ilic, salum quo te mentiris, Achillea 
Talis in hoslo fui! Priamo, sed iura fìdcmquc 
Supplicis erubuit, corpiisquc evsangue sepolcro 
Reddidit llcclorcnm, tneqne in mea regna rcmisil. 

Sic falus senior, lelumquc imbelle siile ictu 
Collier it, rauco quoti prolinus aere repulsimi, 

Et suolino clipei ucquidqoam umbonc pepcudil. 

Cui Pjrrlius: Refercs ergo liaec, ci nuutius ibis 
Pclidac genitori; illi inca trislia furia 
Degeneremque Ncoplolcmum narrare mcmrnlo. 

Nuuc mnrcrc. Hoc J ireos, aitarla ad ipsa Ircmcntcm 
Travii et in multo lapsanlcm sanguine itali, 
Impliciiilque coinam lami, dcvlraquc coruscum 
Evlulit ac lalcri caputo (cnus abdidit cnscm. 

Dace flnis Priami falorum; hic cvilus illum 
Sorte tulit, Troiana ineensam cl prolapsa videntem 
Pergama, tot quutidam populis tcrrisque superbum 
Rrgnatorem Asiae. lacci ingens licore truucus, 
Aiulsumquc humcris caput, d sinc nomine corpus. 



! 



In maestalc il pose. 

Ecco d'avanli 
A Pirro inlanto il giovine Polite , 

Un de' tigli del re , scampo cercando 
Dal suo furore, e già da lui ferito , 

Per portici e per logge armi e nemici 
Allraversando in vèr l’ aliar scn fugge : 

E Pirro lia dietro clic lo segue, «’ncalza 
Si clic gii gii con Tasta e con la mano 
Or lo prende, or lo fere. Al fin qui giunto, 
Fatto di mano in man di forza esausto 
E di sangue e di vita , avanti a gii ocelli 
L>’ ambi i parenti sui cadde, e spirò. 

Qui, perchè si vedesse a morte esposto, 
Priamo non di sè punto ohITossi, 

Nè la voce frenò, nè fri’nò l'ira ; 

Anzi esclamando: 0 scellerato, disso , 

0 temerario I Abbiali in odio il ciclo , 

Se nel ciclo è piclatc; o se i celesti 
lian di ciò cura, di lassù ti caggia 
i.a vendetta die morta opra si ria. 

Empio, eh 'anzi a'mici numi, anzi al cospeilo 
Mio proprio fai governo e scempio tale 
D' un tal mio Cìglio, e di si fera vista 
le mie luci contamini e funesti. 

Colai meco non fu , benché nimico , 

Achille, a cui tu menti esser figliuolo , 
Quando, a lui ricorrendo, umanamente 
M' accolse, e riverì le mie preghiere ; 

Gradi la fede mia ; il' Klior mio figlio 
Mi rendè ì corpo esangue, e me scettro 
Nel mio regno ripose. In questa acceso 
Il dcbil vecchio alzò l’ asta , e lancioila 
Si, che senza colpir languida e stanca 
Feri lo scudo , e lo percosse appena , 

Che dal sonante acciaro incontanente 
Risospinla e sbattuta a terra cadde. 

A cui Pirro soggiunse: Or va , tu dunque 
Messaggiero a mio padre, e da le stesso , 

Le mie colpe accusando e i mici difetti , 

Fa conto a lui come da lui traligno: 

E muori inlanto. Ciò dicendo , irato 
AITcrrollo , « per mezzo il mollo sangue 
Del suo Aglio, tremante e barcolloni, 

A l'aliar lo condusse, iti nel ciufTo 
Con la sinistra il prese, e con la destra 
Strinse il lucido ferro, e neramente 
Nel fianco inUno a I’ elsa glie T immerse. 
Questo fin ebbe, e qui fortuna addusse 
Priamo, un re si grande , un si superbo 
Dominator di genti e di paesi , 

Un de l' Asia monarca ; a veder Troia 
Rumala e combusta, a giacer quasi 
Nel lito'un Irouco desolalo, un capo 
Senza il suo busto , e senza nome un corpo. 



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LIBRO SECONDO 



41 



Al me tum primula snevus cireumstelil horror; 
Obslupui; subiil cori geniloris imago. 

Ut rrgern acquacvum crudeli vuluere vidi 
Vilam cihalnnlem; subiil deserta Crcùsa, 

El dircpla domus, el parvi casus lidi, 
ltcspicio, cl, quac sii me circum copia, lustro. 
Dcscrucrc omnes defessi; cl corpora sallu 
Ad terram misere aut ignibus aegra dedere. 



lamquc adco super unus eram; quum liniina Veslac 
Servanlcm cl lacilam secreta in sede lalcnicm 
Tyndarida adspicio; dantelara incendia lucem 
Erranti, passimque oculos per cuncla ferenti. 

Ilio, sibi infeslos eversa ob Pergama Tcucros, 

Et puenas liana ùm et deserti coniugis iras 
Pracmcluens, Troiae et palriao communis Erinnys, 
Abdidcrat scsc, alque aris invisa sedebat. 

Exarscrc ignes animo; subii ira cadentem 
lilcisci palriam, et sccleralas sumere poenas. 

Seilicct haec Spartana incolumi patriasque Mycenas 
Adspiciel, partoque ibil regina triumpho? 
Coniugiumque, domumque, palres, natosque videbit, 
1 badimi turba et Phrygiis comilala mlnislris ? 

Occiderit ferro Priamus ? Troia arscril igni ? 
Dardanium Inlics sudarit sanguine iilus ? 

Non ila. Namquc, elsi nnllum memorabile nomcn 
Femincn in pocna csl, nec habet vicloria Iaudcm, 
Eistinvissc nefas tamen cl sumsissc merentis 
I.audabor poenas, animumque ciplessc iuvabit 
Ullricis flainmac, et cineres satìasse ntcorum. 

Talia iarlabam, cl furiata mente ferebar, 

Quum milii se, non ante oculis (am elara, videndam 
Oblulil, cl pura per noelem in luce rcfulsit 
Alma parens, confessa deam, qualisquc vidcri 
Coclicolis, cl quanta, sole!; dexlraquc prehensum 
Conlinuil, roscoque haec insupcr addidii ore : 

Nate, quis indomitas tanlus dolor esci tal iras ? 

Quid furia ? aut quonam nostri libi cura recessi! ? 

Non prius adspicics, ubi fessum aelatc parcnlem 
Liqueris Ancbiscn ? superai coniunsne Creusa, 
Ascaniusquc pucr ? quos omnes undique Graiac 
Circum errant acies, el, ni mea cura resista!, 
lam flammee lulcrint, inimicus et hauseril ensis. 

Non libi Tyndaridis facies invisa Lacaonac, 

Culpalusvc Paris; divòm inclcmenlia, divflm, 
lias evertil opcs, slernitque a culmine Troiana. 

Adspice: namque omnem, quac nunc obducta lucidi 
Morlalis hcbclat visus libi, cl humida circum 
Caligai, nubcm cripiam; tu nc qua parenlis 



Allor pria mi sentii dentro e d'inlorno 
Tal un orror , che stupido rimasi. 

E , di Priamo pensando il caso atroce , 

Mi si rappresentò l’ imago avanti 

Dei padre mio eli’ era a ini d' anni eguale. 

Mi sovvenne !' amata mia Creusa, 

Il mio piccolo lulo, e la mia casa 
Tuba a la violenta , a la rapina , 

Ad ogni ingiuria esposta. Allora in dietro 
Mi volsi per veder che gente meco 
Fosse de' miei seguaci ; e nullo intorno 
Più non mi vidi; chè tra stanchi c morti , 

E feriti e storpiati, altri dal ferro , 

Altri da le ruine, altri dal foco , 

M’ avean già tulli abbandonalo. 

In somma 

Mi trovai solo. Onde , smarrito errando, 

E d' ogui intorno rimirando , al lume 
Del grand'incendio ecco mi s’olire a gli ocelli 
Di Tindaro la figlia site nel tempio 
Se nc stava di Vesta , in un reposlu 
E secreto ridotto ascosa e cheta ; 

EIcna, dico, origine e cagione 
Di tanti mali, c che fu d' Ilio e d' Argo 
Furia comune. Onde comunemente 
E de’ Greci temendo o de’ Troiani , 

E de l'abbandonato suo marito; 

S'cra in quel loco, c ’n sò stessa ristretta, 
Confusa, vilipesa cd abbonita 
Fin da gli stessi altari. Arsi di sdegno , 
Mcmbrando clic per lei Troia cadea ; 

E 'I suo castigo c la vendetta insieme 
De la mia patria rivolgendo : Adunque 
( Dicea meco ), impunita e trionfante 
Ritornerà la scellerata in Argo T 
E regina vedrà Sparta c Micene ? 

Goderà del marito , dei parenti , 

De' figli suoi? Farà pompe c grandezze, 

E d’ Ilio avrà per serve c per ministri 
L' altere donne c i gran donzelli intorno? 

E qui Priamo sarà di ferro anciso , 

E Troia incensa , e la Dardania terra 
Di tanto sangue tante volte aspersa ? 

Non Ila cosi ; che se ben pregio e lodo 
Non s’ acquista a punire o vincer donna , 
lo lodalo c pregiato assai tcrrommi 
Se si dirà eh’ aggia d' un mostro tale 
Purgato il mondo. Appaghcrommi almeno 
Di sfogar P ira mia : vendicherommi 
De la mia patria; e col fiato e col sangue 
Di lei placherò l' ombre, c farò sazie 
Le ceneri de* mici. Ciò vaneggiando , 
Infuriavo , quand’ ecco una luce 
M’aprio la notte, o mi scoverse avanti 
L’ alma mìa genitrice in un sembiante , 



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42 



DELL'ENEIDE 



lussa lime, neu praeceplis parere recusa. 
ilic, ubi disieclos melos avulsaque saiis 
Saia videa, miitoquc undanlem pulverc fumum, 
Neptunus muros magnoquc cmola tridenti 
Fundamenta quatit, tolamque ab sedibus urbani 
Eruit; hic Iuno Scaeas sacrissima porlas 
Prima lenct, sociumquc furcns a navibui agmen, 
Ferro accincta, vocat. 
lam summas arccs Tritonia, rcspice, Pallas 
lnsedit, nimbo effulgens, et Gorgone saeva. 

Ipse pater Danais animos vircsque seoundas 
Sufficit; ipse dcos in Dardana suscitai arma, 
Eripe, nate, fugam, fìncmquc impone labori. 
Nusquam aboro, et tutum patrio te limine sistam. 
Diierat, et spissis noctis se condidil umbris. 
Apparcnt dirac facies, inimicaque Troiac 
Numina magna dcòm. 



Tutti vero omne trulli visum considcre in ignes 
llium, et ei imo serti Neplunin Troia; 

Ac, voluti summis antiquam in montibus ornum 
Ouum ferro accisam crcbrisquc bipennibus inslant 
Eruerc agricolae cerlatim; illa usque minatur, 

Et Iremcfacla comam concusso vertice nutat, 
Vulneribus donec paullalim cvicla supremum 
Congcmuit, traiitque iugis avulsa ruinam. 



Non come l' altre volte in altre forme 
Mentilo o dubbio, ma verace c chiaro , 

E di madre c di dea , qual credo e quanta 
Su tra gli altri celesti in ciel si mostra. 

Colai la vidi , e tale anco per mano 
Mi prese; e con pietà le sante luci 
E le labbia rusale aperse , e disse : 

Figlio, a clic tanto affanno? a che tini' ira? 
Citò non t'acqueti ornai? Questa ì la cura 
Clic tu prendi di noi? Chi non più tosto 
Rimiri ov’ abbandoni il vecchio Anchise 
E la cara Creiisa c '1 caro luto , 

Cui sono i Greci intorno? E se non fosso 
Cha in guardia io gli aggio, in preda al ferro, 
(al foco 

Fòro ti già lutti. Ah Qglio I non il volto 
De F odiata Argiva, non di Pari 
La biasmata rapina, ma del cielo 
E de' celesti il voler empio atterra 
La Troiana potenza. Alza su gli occhi 
( Ch'io ne trarrò l'umida nube e il velo 
Che la vista mortai F appanna e grava : 
Poscia credi a tua madre, e senza indugio 
Tutto fa che da lei ti si comanda ), 

Vedi là quella mole, ove quei sassi 
Son da' sassi disgiunti, e dove il fumo 
Con la polve ondeggiando al ciel si volve , 
Come fiero Nclluno indo da l’ imo 
Le mura c i fondamenti c 'I terren tutto 
Col gran tridente suo sveglie e conquassa. 
Vedi qui su la porla come Giuno 
Infuriata a tutti gli altri avanti 
Si sta cinta di ferro , e da le navi 
Le schiere d'Argo a’ nostri danni invila ; 
Vedi poi colassù Palladc in cima 
A P alta ròcca, entro a quel nembo armata, 
Con che lucenti e spaventosi lampi 
11 gran Gorgone suo discopre e vibra. 

Che più ? mira nel ciel , che Giove stesso 
Somministra a gli Argivi animo e forza, 

E incontro a le vostre arme a l'arme incita 
Gli eterni dei. Cedi lor, figlio, c fuggi ; 

Poi clic indarno t 'affanni. Io sarò teco 
Ovunque andrai, si che securamenle 
Ti porrò dentro a' tuoi paterni alberghi. 

Cosi disse; e per entro a le folte ombre 
De la notte s’ascose. 

Ailor vid' io 

Gl’ invisibili aspetti, e i fieri volti 
De'numi a Troia infesti, o Troia tutta 
In un sol foco immersa, e fin dal foodo 
Sottosopra rivolta. In quella guisa 
Che d'alto monte in precipizio cade 
Un orno antico, i cui rami pur dianzi 
Facean contrasto a' venti e scorno al sole, 



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LIBRO SECONDO 



43 



Dcsccndo, ac ducente dee flammam inler et hostcs 
Eipcdior; dant tela locum, llammacquo rccedunl. 



Alque ubi iam patriae perventum ad limina sedia 
Anliquasque domos, gcnilor, quem tollero in altos 
Oplabam primum montes, primumque petebam, 
Abnegai excisa vilam produccrc Troia 
Ersi iumque pali. Vos o, quibus integer acri 
Sangui?, ail, solidacquc suo stant roborc vires, 

Vos agitate fugain. 

Ale si roclicolae voluissent ducere vitam, 

Ilas mitii servassenl sedes. Satis una superque 
Vidimus eicidia, et captac superavimus urbi. 

Sic o, sic positum affali discedilc corpus. 

Ipse manu inorlem inveniam; miscrebitur lioslis, 
Eiuviasquc pelei. Facilis iarlura scpulcri. 

Iam prideni invisus.divis et inuliiis annos 
Dcmoror, ex quo me divòm pater alque hominum rei 
Fulminis afllavil «cnlis, et contigli igni. 

Talia perstabat nicmorans, (ixusque manebal. 

Nos centra, effusi lacrimi», coniuntque Creusa, 
Ascaniusque, nmnisque domus , ne venere secum 
Cuncta pater fatoque urgenti incumberc velici. 
Abnegai, inceploquc et sedibus haeret in isdem. 
Rursus in arma feror, morlcmque miserrimus opto. 
Nam quod consiiiutn aut quac iam fortuna dabatur 7 
Atene cflcrre pedem, genitor, te posse rcliclo 
Sperasti? tanlumquc nefas patrio cicidil ore? 

Si nihil ex tanta supcris placet urbe rclinqul, 

Et sedei Ime animo, perituraeque adderò Troiac 
Teque tunsque invai; palei isti ianua leto , 

Iamquc aderii multo Priami de sanguine Pyrrhus, 
Natum ante ora patris, pairem qui obtruncat ad aras. 
Hoc erat, alma parens, quod me per tela, per ignes 
Eripis, ut mediis hoslem in penelralìbus, ulque 
Ascanium, palrcmque meum, iuxlaquc Creusam, 
Alterimi in alterius mactatos sanguine , cemam? 

Arma, viri, ferie arma; vocat lux ultima viclos. 
Reddito me Donais; sinite instaurala revisam 
Proelia I Nunqunm omnes hodic moriemur inulti. 



Quando con molte accette al suo gran tronco 
Stanno i robusti agricoltori Ritorno 
Per atterrarlo , c gli dan colpi n gara ; 

Da cui vinto, e dal peso, a poco a poco 
Crollando e balenando, il capo inchina , 

E stride e geme c dal suo giogo al fine 
0 con parte del giogo si diveglie , 

0 si scoscende, c ciò che intoppa urtando, 
Di suono c di rui'na empie le valli. 

Ailor discesi; e la materna scorta 
Seguendo, da' nemici c da le Gamme 
Hi rendei salvo ; chè dovunque il passo 
Yolgea, cessava il foco , e fuggian l' armi. 

Poi eli' io fui giunto a la magione antica 
Del padre mio , di lui prima mi calsc 
E del suo scampo, c per condurlo a’monli 
AI' apparecchiava, quand' ei disse: 0 figlio , 
lo decrepito, io misero, che avanzi 
Ai di de la mia patria? Io posso, io deggio 
Sopravvivere a Troia ? E fla eh' io soffra 
SI vile esiglio ? Voi , che ne' vostri anni 
Siete di sangue c di vigore interi , 

Voi vi salvate. A me ( s' io pur dovea 
Restare in vita ) avrebbe il del serbato 
Questo mio nido. Assai, figlio, e pur troppo 
Son Tissuto On qui ; poi eli' altra volta 
Vidi Troia cadere, e non cadd’ io. 

Fatemi or di pietà gli ultimi offici! ; 
Iteratemi il vale , e per defunto 
Cosi composto il mio corpo lasciale, 

Ch’ io troverò chi mi dia morte; e i Greci 
Mcdcsmi, o per piotale, o per vaghezza 
De le mie spoglie, .mi trarran di vita 
E di miseria; e se d'esequie io manco , 

Se manco di sepolcro , il danno è lieve. 

Da l' ora in qua son io visso a la terra 
Disutil peso, ed al gran Giovo in ira , 

Che dal vento percosso e da le fiamme 
Fui del folgore suo. Ciò memorando 
Slava il misero padre a morte addillo , 

E d' intorno gli cr’io, Creusa, Iulo , 

La casa tutta con preghiere e pianti 
Slringendolo a salvarsi, a non trar seco 
Ogni cosa in ruma, a non offrirsi 
Da sè stesso a la morte. Ei fermo e saldo 
Nè di proponimento, nè di loco 
Punto si cangia: ond' io pur l’armi grido 
Di morir desioso. E qual v’ era altro 
Rimedio o di consiglio, o di fortuna ? 

Ah ! che di questa soglia io tragga il piede. 
Padre mio , per lasciarti ? Ah I che tu possa 
Creder tanto di me? Da la tua bocca 
Tanto di scclleranza e di viltate 
È d’ un tuo figlio uscito? Or s’ è destino 
Che di si gran cittì nulla rimanga , 



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DELL 1 ENEIDE 



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44 






Itine ferro accingor rursus; clipcoquc sinislram 
lnserlabam oplans , meque exira teda ferebam. 
Ecce autem complcxa peiles in limine coniunx 
llaercbal, parvumque patri tendebai lulum : 

Si perituri» abis, et nos rape in omnia lecum; 

Sin aliquam expertus sumlis spem ponia in armis, 
liane primuni lutare domum. Cui parvi» Iulus, 

Cui pater, et coniuni quondam tua dieta rclinquor? 



Yalia vociferar» geinitu lectum omne rcplebal; 
Quinn subitum dicluquc oritur mirabile monstruui. 
Naroque manus inlcr mocsloruroquc ora parcntuui 
Ecce lev» biennio de vertice visus luti 
Fondere lumen apex , tactuque innoxia molles 
Lambere damma comas, et circum tempora pasci. 
Nos pavidi trepidare mclu , crincmquc Qagrantem 
Exculcrc, et sanctos rcslinguerc fonlibus ignes. 

At pater Ancliises oculos ad sidera lactus 
Exlulit, et coelo palmas eum voce tctendil: 
lupiter omnipolcns, prccibus si flccteris ullis, 
Adspicc nos; hoc tantum; et, si piemie meremur, 

Da deinde auxilium, pater, utquc liacc omina brma. 



Se piaec a te, se nel tuo core è fermo 
Che nè di le, nè de gli tuoi si scemi 
La ruma di Troia ; e cosi vada , 

E cosi fla ; eh' io veggio a mano a mano 
Oui del sangue del re tutto cosperso , 

E bramoso del nostro , apparir Pirro 

Che i padri uccide ansi a gli altari, e i figli 

Anzi a gli occhi de’ padri. Ah I madre mia, 

Per questo line qui salvo e difeso 

M'hai da Farmi e dal fuoco, acciò ch’io veggia 

Con gli occhi mici ne la mia casa stessa 

I miei nemiri e ’l mio padre e 'I mio figlio 

E la mia donna crudelmente uccisi 

I.’ un nel sangue de l’altro ? Mano a l'arme : 

Chi mi dù l’armo? Ecco che 'I giorno estremo 

Vinti a morte ne chiama. Or mi lasciale , 

Ch' io torni infra’ nemici , e che di nuovo 
Mi razzuffi con essi ; chò non tulli 
Abbiam senza vendetta oggi a perire. 

E già di ferro cinto, a la sinistra 
II' adattava lo scudo, e fuori uscla , 

Quanti’ ecco in su la soglia attraversata 
Crcusa avanti a’ piè mi si distende, 

E me gli abbraccia; e ’l fanciullelto lido 
M'apprescnta, e mi dice: Ah! mio ronsorlc 
Dove ne lasci ? Se a morir ne vai , 

Chè non loco n' adduci ? E se ne l’armi 
E ne la esperienza hai speme alcuna , 

Chè non difenili la tua casa in prima ? 

Ove Ascanio abbandoni ? ove tuo padre ? 

Ove Crcusa tua , che tua s'è delta 
Per alcun tempo ? 

E ciò gridando , empiee 
Di pianto e di slridor la magion tutta. 
Quaud’ccco innanzi a gli occhi, e fra le mani 
De gli stessi parenti, un repentino 
E mirabile a dir portento apparve ; 

Che sopra il capo del fanciullo lulo 
Chiaro un lume si vide, e via piò chiara 
Una fiamma che tremola e sospesa 
Le sue tempie rosate e i biondi crini 
Scn già come leccando , e senza offesa 
Lievemente pascendo. Orrore e tema 
Ne presi in prima. Indi a quel santo foco 
D’ intorno, altri con acqua, altri con altro, 
Ognun Tacca per ammorzarlo ogni opra. 

Ma il padre Ancbisc a colai vista allegro, 

Le man, gli occhi e la voce al ciel rivolti, 

Orò dicendo: Eterno onnipotente 
Signor, se umana prece unqua ti mosse, 

Vèr noi rimira, e ne Ha questo assai. 

Ma se di merlo alcuno in tuo cospetto 
È la nostra pietà, padre benigno, 

Danne anco aita; e con felice segno 
Questo annunzio ratìfica e conferma. 



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LIBRO SECONDO 



Vii ea fai us era! senior; subltoquc fragore 
Inlonuil laevum, el de coclo lapsa per umbras 
Slclla facera duccns multa cum luce cucurril. 

Ulani, summa super labcntem culmina tedi, 

Cernimus Idaca claram se conderc sili» , 
Signantcmque vias; tum lungo limite sulcus 
Dal lucem, et lalccircum loca sulfure fumati!, 
llic vero «ictus genilor se lollit ad auras, 

Aflaturque deos, et sanclum sidus adorai: 

lam iam nulla mora est; sequur, et, qua ducilis,adsum. 

DI pairii, servale domum, servale uepotem. 

Vestrum hoc augurium, veslroqueinnuminc Troia est. 
Cedo cquidem, ncc, nate, libi cornea ire recuso. 
Divorai ilio; et iam per moenia clarior ignis 
Audilur, propiusque a estua incendia volvunt. 

Ergo agc, rare pater, cervici imponere nostrae; 

Ipsc subibo bumeris, ncc me iabor iste gravabit. 

Quo res cunquc cadenl, unum el communc periclum, 
Una salus ambobus crii. Mihi parvus Iulus 
Sit Comes, et longe script vestigi.! coniunx. 

Vos, famuli, quae dicam, animis advcrlite vestris. 

Est urbe egressis tumulus tcmplumque vetustuni 
Uescrlae Cereris, iuxtaque antiqua cupressus, 
Rclligione patrum mullos seriola per annos; 

Mane ei diverso sedem veniemus in unam. 

Tu, genilor, cape sacra manu palriosque Penate»; 

He, bello e tanto digressum et caede recenti, 
Allreclare nefas, donec me Rumine vivo 
Abluero. 

Hacc fatus, latos humeros subicctaquc colla 
Veste super fulvique instcrnor pelle Iconis; 
Succedoque oneri. Deitrae se parvus Iulus 
Implicuit, sequiturque palrem non passibus acquis; 
Pone subii comuni. Fcrimur per opaca locorum; 

Et me, quem dudum non ulta iniecla movebanl 
Tela, neque adverso glomcrali ei agtnine Graii, 

Nunc omnes terreni aurae, sonus eicilal omnis, 
Suspcnsum el pariler comilique onerique limenlcm 
Iamque propinquabam porlis, omnemque videbar 
Evasisse vicem; subito quum creber ad aures 
Visus adesso pedum sonilus, gcnitorque per umbram 
Prospiciens: Nate, esclamai, fuge, nate; propinquant; 
Ardentes clipcos atquc aera micanlia cerno, 
llic milii ncscio quod trepido male numen amicum 
Confusam eripuit mentem. Namque avia cursu 
Dum sequor, et nota eicedo regione viarum, 
lleut misero coniunx fatone crepta Creùsa 
Substitit, erravilne via, seu lassa rcsedit, 

Inccrtum; nec post oculis est reddila nostris. 

Ree prius amissam rcspeii, animumve rellcit, 

Quam tumulum antiquae Cereris sedemque sacralam 
Venimus. llic demum, collcclis omnibus, una 
Defuit, et comiles, nalumque, virumque fcfellil. 

Quem non incusavi amens hominumque deorumque ? 
Aul quid in eversa vidi crudclius urbe ? 

Virgilio, voi rateo. 



U 

Avrà di ciò pregato il vecchio appena, 

Che tonò da sinistra, e dal convesso 
Del cicl cadde una slclla clic per mezzo 
Fendè l' ombrosa notte e lunga striscia 
Di face c di splendor dietro si trasse. 

Noi la vedemmo chiaramente sopra 
Da' nostri letti ire a celarsi in Ida, 

Si che lasciò, quanto il suo corso tenne. 

Di chiara luce un solco; e lungo intorno 
Fumò la terra di sulfureo odore. 

Allor vinto si diede il padre mio ; 

E tosto a l' aura uscendo, al santo segno 
De la stella inchinossi, e con gli dei 
Tarlò devotamente: 0 de la patria 
Sacri numi Penali, a voi mi rendo. 

Voi questa casa, voi questo nipote 
Hi conservate. Questo augurio è vostro, 

E nel poter di roi Troia rimansi. 

Poscia, rivolto a noi: Fa’ , figliuol mio, 

Ornai disse, di ntc che più f aggrada, 

Citò al tuo voler son pronto, e d‘ uscir (eco 
Più non recuso. Avca già T foco appresa 
La città tutta; c già le fiamme c i vampi 
Ne feriali da vicino allor che il vecchio 
Cosi dicca. — Caro mio padre, adunque, 
Soggiuns' io, com’ è d' uopo, in su le spalle 
A me li reca, c mi l' adatta al collo 
Acconciamente, eh’ io robusto e forte 
Sono a tal peso; c sia poscia che vuole : 

Chè un sol periglio, una salute sola 
Fia d' ambidue. Seguami luio al pari ; 
Cremo dopo: e voi, mici servi, udite 
Quel ch’io diviso. È de la porla fuori 
Un colle, ov’ ha di Cerere un antico 
E deserto delubro, a cui vicino 
Sorge un cipresso, già moli’ anni c molti 
In onor de la Dea serbalo c collo. 

Qui per diverse vie tulli in un loco 
Vi ridurrete: e tu con le lue mani 
Sosterrai, padre mio, dc’sanli arredi 
E de’ patrii Penali il sacro incarco. 

Chè a me, si lordo e si recente uscito 
Da tanta uccision, toccar non lece 
Pria che di vivo fiume onda mi lave. 

Ciò detto, con la veste e con la pelle 
D’un velloso leon m’adeguo il tergo, 

F. il caro peso a gli omeri m’impongo. 

Indi alla destra il fanciullcllo lulo 
Ili s’aggavigna, c non con moto eguale 
Ei segue i passi miei, Creusa Torme. 

Andiam per luoghi solitari c bui: 

E me, cui dianzi intrepido e sicuro 
Vider de Tarme i nembi c degli armali 
Le folle schiere, or ogni suono, ogni aura 
Empie di tema: si geloso fammi 

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4G 



LEU/ ENEIDE 



Ascanium, Anchisenque patroni, Teucrosquc Pcnalcs 
Commendo sociis, el curva valle recondo; 

Ipsc urbem repcto, el cingor fulgoniibus armis. 

Stai, casus renovare omnes, omncmquc reverli 
Per Troiam, el rursus caput obiectare pcriclis. 
Principio muros obscuraque limine porlae, 

Qua gressum exluleram, repelo; el vcsligia retro 
Observata sequor per noctem, el luminc lustro. 

Horror ubique animo?, simul ipsa silcntia terreni. 
Inde domum, si forte pedem, si forte Inlissel, 

Me refero. Irrueranl Danai, el teclum omne tenebant. 
Micci ignis edax stimma ad fastigi» vento 
Volvilur; exstipernnt flammae; furil ncslus ad atiras. 
Procedo, el Priami sedes nrccmqtie reviso. 

El iam porticibus vacuis lunonis osyto 
Cuslodcs ledi, Phoenix el dirus Ulixes, 

Pracdam asservabnnt. Hoc undique Troia gara, 
Incensis erepta arfytls. mensaeqne deorum, 
Craleresque auro solidi, caplivaquc tesila, 

C.ongerilur. Pueri el pavidae longo ordine maire* 

Stani circum. 

Ausus quln elinm voces iactnre per timbram. 

Impioti clamore vias, moesfusque Creusam 
Nequidquam ingominans ilommque ilerumque vocavi. 
Qunercnli, et teclis urbis sinc fine furenti, 

Infolix simulacrum atquc ipsius umbra Crcusae 
Visa inibi ante ocutos, et noia mnior imago. 

Ob'tupui, sloterunlquc cornac, el vox faucibus bncsil. 
Tum sic affari, el cums his demorc dictis: 

Quid tantum insano iuval indulgere dolori, 

0 dulcis coniunx? Noe haec slnc mimino divftm 
Evcniunt: nec te comilem asportare Creusam 
Fas, aut ilte sinil superi regtiator Olympi. 

Lunga libi exsilia, et vaslum maris nequor arandum: 

El tcrram Hespcriom venie», ubi Lydius arva 
Inler opima virflm leni fluii agmine Thybris. 

Illic res laclae, regnumque, et regia coniunx 
Parta libi; lacrimas dilectac pelle Creusac. 

Non ego Myrmidonum sedes Dolopumve superba» 
Adspiciam, aul Graiis servitum matribus ibo, 

Dardanis, et divae Venoris nurus; 

Sed me magna dcùm gcnelrix his delinei oris. 
hmqiie vale, et nati serva communis amorem. 

Haec ubi dieta dedit, laerimantem et multa volenlem 
Dicere dcscruil, tenuesque recessil in auros. 

Ter conatus ibi collo dare brachia circum; 

Ter frustra comprensa manus effugil imago, 

Par levibus venlis, volucriquc similiima somno. 

Sic demum socios, consumla nocle, rcviso. 



E la soma e H compagno. Era vicino 
A l'uscir de la porta, e fuori in lutto, 

Conno credea, d’ogni sinistro incontro, 
Quand’ccco d’improvviso udir mi sembra 
Un calpestio di gente, a cui rivolto 
Disse il vecchio gridando: Oh ! fuggi , figlio , 
Fuggi, che nc son presso, lo veggio, io sento 
Sonar gli scudi, e lampeggiare i ferri. 

Qui ridir non saprei, come nò quale 
Avverso nume a me stesso mi tolse, 

Clic mentre da la frolla e dal timore 
Sospinto esco di strada , c por occulte 
E non usate vie m'aggiro e celo , 

Desiai, misero me ! senza la mia 
Diletta moglie, in dubbio se dal Falò 
Mi si rapisse, o traviala errasse, 

0 pur lassa a posar posta si fosse, 
basta, cli'unqua di poi non la rividi: 

Nè per vederla io mi rivolsi mai, 

Nè mai me ne sovvenne, infili che giunti 
Di Cerere non fummo al sacro poggio. 

Ivi ridotti, ne mancò di tanti 

Sola Creusa, oimè, con quanto scorno, 

E con quanto dolor del suo consorte 
E del figlio c del suocero c di lutti I 
Io che non feci allora, c che non dissi ? 

Qual de gli uomini, folle! c de gli dei 
Non accusai? qual vidi in Ionio eccidio, 

0 ch’io provassi, o che avvenisse altrui , 

Caso piò miserando c più crudele? 

Qui mio figlio, mio padre e i paini numi 
Lascio in guardia ai compagni, ed io de Farmi 
Pur mi riresto, e indietro me ne torno, 
Disposto a ritentare ogni fortuna , 

A cercar Troia tutto, a por la vita 
Ad ogni ripentaglio. Incominciai 
In prima da le mura e da la porta, 

Ond’era uscito; e le vie stesse c Forme 
Ripetei tutte, per cui dianzi venni, 
fili occhi portando per vederla intenti: 
Silenzio, solitudine c spavento 
Trovai per tutto. A casa aggiunsi in prima 
Cercando se per sorte ivi smarrita 
Si ricovrasse. Era già presa e piena 
Di nemici c di foco; c già da'teli! 

Escian, da’venli c da le furie spinte. 

Rapide fiamme c minacciose al cielo. 

Tomo quinci al palagio; indi a la rocca; 
Seguo a le piazze, apportici, a l'asilo 
Di Giunon, che già fatti eran conservo 
De la preda di Troia, a cui Fenice 
E ’1 fiero Glisso eran custodi eletti. 

Qdi d'ogni parte le Troiane spoglie 
Fin delle sacrislic, fin de gli altari 
Le sacre mense, i preziosi vasi 



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LlllliO SECONDO 



47 



Atque liic ingenlem comitum adlluxisse novorum 
Intenio admirans numcruiD, raalrcsque, tirosquc, 
Collectam exsilio pubcm, miserabile vulgus. 
llndiquc convellere, animis opibusque parali, 

In quascutnque vclim pelago deducere lerras. 
lamque iugis summae surgebat l.ucifer Idae, 
Dacebalquc diem; Danaique obscesa lencbanl 



Di solid’oro, e i paramenti e i drappi 
E le delizie e le ricchezze tulle 
A gli inccndii ritolte, erano addotte. 
D'intorno innumerabili prigioni 
Slavan di funi c di catene avvinti, 

E matrone e donzelle e pargoletti. 

Clic di sordi lamenti c di muggiti 
Eaccan ne Paria un tuono; e mcn tra loro 
Era la donna mia: nè dove fosse, 

Piè ripensar sapendo, osai dolente 
Gridar per le vie tutte; c benché in vano, 
Mille volte iterai l'amato nome. 

Mentre cosi tra furioso c mesto 
Per la città m'aggiro, e senza fine 
La ricerco c la chiamo, ecco d'avanli 
Mi si fa l'infelice simulacro 
Di lei, maggior del solilo. Stupii, 
M’aggricciai, m’ammutii. Prese ella a dirmi 
E consolarmi: 0 mio dolce consorte, 

A che si folle affanno? A gli dei piace 
Clic cosi segua. A le quinci non lece 
Di trasportarmi. Il gran Giove mi vieta 
Ch'io sia loco a provar gli alfanni tuoi ; 

Chè soffrir lunghi esigli, arar gran mari 
Ti converrà pria ch'ai Ino seggio arrivi. 

Clic ila poi ne l'Esperia, ove il Tirreno 
Tcbro con placid'onde opimi campi 
Di bellicosa genie impingua e riga. 

Ivi riposo c regno e regia moglie 
Ti si prepara. Or de la tua diletta 
Creusa, signor mio, più non ti doglia; 

Che i Dolopi superbi, o i Mirraidùni 
Non vedranno già me Dardania prole, 

E di Priamo figlia, e nuora a Venere, 

Nè donna lor, nè di lor donne ancella, 

Cbè la gran genitrice de gli dei 
Appo sè liemmi. Or il mio caro lulo, 

Nostro comune amore, ama in mia vece, 

E lui conserva, e te consola: addio . 

Cosi detto, disparve. Io che dal pianto 
Era impedito, ed avea mollo a dirle. 

Me le avventai, per ritenerla, al collo: 

E Ire volte abbracciandola, altrettante, 
Come vento stringessi o fumo o sogno, 

Me ne tornai con le man vote al petto. 

E cosi scorsa c consumata indarno 
Tutta la notte, al poggio mi ritrassi 
A’ miei compagni. 

Ivi trovai con molta 
Mia meraviglia d'ogni parte accolla 
b'na gran genie, un miserabil volgo 
D'ogni età, d'ogni sesso c d’ogni grado, 

A l'esiglio parati, c insieme addilli 
A seguir me, dovunque io gli adducessi, 

0 per mare o per terra. Escia già d'Ida 



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48 



DELL’ENF.IDE 



Liniina porlaruni, nec spes opis ulta dabalur. 
Cessi, cl subbio monlem genitore pelivi. 



La mattutina stella, c'Idl u'apria, 

Quando in dietro mi volsi, c vidi Troia 
Fumar gii tutta; e de la rocca in cima, 

E di sovr'ogni porla inalberate 
Le Greche insegne ; onde nè via, nè speme 
Rimanendomi più di darle aita, 

Cedei: ripresi il carco, c salsi al monte. 



LIBRO TERZO 



Postquam res Asiae Priamique evertere genlem 
Imineritam visoni superis, ccdilque superbum ~ 
llium, et omnis humo fumai Neplunia Troia; 
Diversa eisilia et dcserlas quaerere lerras 
Auguriis sginiur divfim, classemquc sub ipsa 
Antandro et Phrygiac molimur montibus Idae, 
Incerti, quo fata ferant, ubi sisterc detur, 
Contrahimusquo viros. Vii prima inceperat acslas, 
Et pater Anchiscs dare fatis vela iubebat; 

Litora quum patriac lacrimans portusque relinquo 
Et campos, ubi Troia fuil. Fcror cisul in altum 
Cum sociis naloque, Penatibus et magnis dls. 



Terra procul vastis colitur Mavorlia campis, 
(Thraccs arant), acri quondam regnata Lycurgo, 
Hospitium antiquuni Troiae, sociiquc Pcnatcs, 
Dum fortuna fuil. Fcror bue, cl litore curvo 
Mocnia prima loco, fatis ingrcssus iniquis, 
Aeneadasquc meo nomcn de nomine fingo. 



Poiché fu d'Asia il glorioso regno 
ET suo re seco e'I suo lignaggio tutto, 

Come al cicl piacque, indegnamente estinto, 
Ilio abbattuto e la Nettunia Troia 
Desolala c combusta; i santi augùri 
Spiando, a vari osigli, a varie terre 
Per ricovro di noi pensando andammo: 

E ne la Frigia stessa a piè d'Antandro, 
Ne'monli d'Ida a fabbricar ne demmo 
La nostra armata, non ben certi ancora 
Ove il cicl ne chiamasse, e quale altrove 
Ne dèsse altro ricetto. Ivi le genti 
D'intorno accolte, al mar ne riducemmo, 

E n'imbarcammo al One. Era de Fanno 
La stagion prima, e i primi giorni appena, 
Quando, sciolte le sarte e date ai venti 
Le vele, come volle il padre Anchise, 
Piangendo abbandonai le rive e i porli 
E i campi, ove fu Troia, i mici compagni 
Meco traendo e'I mio figlio e i miei numi 
A Fonde in preda, e de la patria in bando. 

È de la Frigia incontro un gran paese 
Da'Traci arato, al fiero Marte addillo, 

Ampio regno c famoso, e seggio un tempo 
Del feroce Licurgo. Ospiti antichi 
S'eran Traci c Troiani; e fin ch’a Troia 
Lieta arrise fortuna, ebbero entrambi 
Comuni alberghi. A questa terra in prima 
Driuai'1 mio corso, c qui primieramente 
Nel curvo lito con destino arverso 
Una città fondai, che dal mio nome :3 
Eneàde nomossi. 



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libro mzma (■' 



49 



Sacra Dionaeae mairi divisque fcrcbam 
Auspicibus coeptorum operum; superoque ailenlcm 
Coeliculum regi maclabam in lilore iaurum. 

Forte fui! iurta luinulus, quo cornea sumino 
Virgulla, et dens's haslilibus horrida myrtns. 
Accessi; riridemquc ab humo convellere silvam 
Oonatus, ramis tegerem ut frondcnlibus aras, 
Jlorrcndum cl diclu video mirabile monslrum. 

Nam, quae prima solo, ruplis radicibus, arbor 
Vellitur, buie atro liquuntur sanguine gullae, 

Et lerram lobo maculant. Alibi frigidus horror 
Rursus et allerius lentum convellere vinien 
Inscquor, et caussas penilus tentare lalenles : 

Ater et allerius sequilur de corticc sanguis. 

Multa movens animo, Nymphas venerabar agreslcs, 
Gradivumque palrcm, Gelicis qui praesidet orvis,, 
Rite secundarent visus, omcnque levarcnt. 

Tcrlia sed postquam maiore haslilia nisu 
Aggredior, genibusque adversae obluclor arenac; 
(Eloquar, an sileam?) gemilus lacrimabilis imo 
Andilur tumulo, et voi reddila fertur ad aures: 

Quid miserum, Aenea, lacerasi Iam parce sepulto; 
Parce pias seelerare manus. Non me libi Troia 
Eilcrnum lulil, aul cruor hic de stipile manat. 

Ilcu fugo cru Jcles terras, fugo lilus avarum. 

Nam Polydorus ego. Hic conlìium ferrea tciit 
Telorum seges, et iaculis increvit acutis. 

Turo vero ancipiti mentem formidine pressus 
Obslupui, sletcrunlquc cornac, et voi faucibus haesil. 



Dune Polydorum auri quondam rum pondera magno 
Infelii Priamus furlim mandarat alendum 
Thrci'cio regi, quum iam diffiderei armis 
Dardaniae, clnglque urbem obsidione riderci. 



E mentre Intorno 
Me le travaglio, e 1 santi sacrifici 
A Venere mia madre, ed a gli dei, 

Che sono al cominciar propizi, indico; 
Mentre che 'n su la riva un bianco loro 
Al supremo Tonante offro per vittima , 
Edile che m'avvenne. Era nel lilo 
Un picciol monlicello, a cui sorgea 
Di mirti in su la cima c di corniali 
Una folla sclvclta. In questa entrando 
Per di fronde velare i sacri altari, 

Mentre dc'suol piò teneri c piò verdi 
Arbusti or questo, or quel diramo e svelgo; 
Orribile a veder, stupendo a dire, 

M'apparve un mostro; che divello il primo 
Da le prime radici, uscir di sangue 
Luride gocce, c ne fu il suolo asperso. 
Ghiado mi strinse il core, orror mi scosse 
Le membra tutte, e di paura il sangue 
Mi si rapprese, lo le cagioni ascose 
Di ciò cercando, un altro ne divetsi. 

Ed atro sangue uscinne: onde confuso 
Vie piò rimasi , e nel mio cor diversi 
Pensicr volgendo, or de l'agresli Ninfe, 

Or del Scitico Marte i santi numi 
Adorando, porgea preghiere umili, 

Che di si Aera e portentosa vista 
Mi si togliesse, o si temprasse almeno 
Il diro annunzio. Ritentando ancora, 

Vengo al terzo virgulto, e con piò forza 
Mentre lo scerpo, c i piedi al suolo appunto 
E lo scuoto c lo sbarbo (il dico, o’I taccio?) 
Dn sospiroso e lagrimabil suono 
Da l'imo poggio odo che grida, c dice : 

Ahi! perchè si mi laceri e mi scempi ? 
Perchè di cosi pio, cosi spietato, 

Enea, ver me ti mostri ? A che molesti 
En clf è morto e sepolto ? A che contamini 
Col sangue mio le consanguinee mani? 

Chè nè di patria, nè di gente esterno 
Son io da te; nè questo atro liquore 
Esce da sterpi, ma de membra umane. 

Alti fuggi, Enea, da questo empio paese: 
Fuggi da questo abomincvol lilo; 

Chè Polidoro io sono, c qui confitto 
fi M'ha nembo micidiale, e ria semenza 
Di ferri c d’aste, che dal corpo mio 
l'mor preso e radici, han fallo selva. 

A colai suon, da dubbia tema oppresso, 
Stupii, mi raggricciai, muto divenni, 

Di Polidoro udendo. 

En dc'flgliuoli 

Era questi del re, che al Tracio rege 
Fu con molto tesoro occultamente 
Accomandato attor, che daTroiani 



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/V 

'o 



50 



DELL’ ENEIDE 



llle.'ut opus fraclae Tcucrfltn, et Fortuna recessi!, 

Res Agametnnonias viclrìciaque arma secutus, 

Fas omne abrumpil, Polydoruin oblruncal, et auro 
Vi politur. Quid non morlalia pcclora cogis, 

Auri sacra farnesi Poslquam pator ossa reliquie, 
Deleclos popoli ad proccrcs primumque parcnlem 
Monstra dcOm refero, et quae sii sentendo, posco. 
Omnibus idem animus, scclcrata cxccdcre terra, 
Linqui pollulum hospilium, et dare classibus austro». 
Ergo inslauramus Polydoro funus, et ingcns 
Aggeritur tumulo tellus ; stani Manibus arac, 

Cacrulcis moeslae vittis atraque cupresso, 

Et circum Iliades, crinem de more solulae. 

Infcrimus tepido spumantia cymbia lacte, 

Sanguinis et sacri paleras; animamque sepulcro 
, , Condimus, et magna supremum voce cicmus. 



Inde, ubi prima Ddcs pelago, placalaque venti 
Dani maria, et lenls crepitans vocat auster in allum 
Deducunt socii naves, et lilora complcnl. 

Provcliimur porlu, tcrracquc urbesque recedunt. 

Sacra mari colitur medio gratissima tellus 
Ncreidum mairi, et Ncpluno Aegaco, 

Quam prius Arcilencns oras et litora circum 
Erranlem, Gyaro cclsa Myconoque rcvinxit, 
Immotamquc coli dedii, et eontcninerc ventos. 

IIuc feror; haec fessos luto placidissima porlu 
Accipit. Egressi vencramur Apollinis urbem. 

Rei Anius, rei idem liominum Phoebiquc sacerdos, 
Vittis et sacra redimilus tempora lauro 
Occurrit; vetcrem Anchisen agnoscit amicum. 

Iungimus hospitio dcxlras, et leda subimus. C ^ 
Tempia dei saxo vencrabar strucla vetusto: 

Da propriam, Thymbraec, domum, da mocnia fessis, 

Et genus, et mansuram urbem. Serva altera Troiac 
Pergama, relliquias Danaùm atque immitis Addili. 
Qucm sequimur ? quovc ire iubes ? ubi ponere sedes? 
Da, pater, augurium, atque animis illabcre noslris. 



Incominciossi a diffidar de Farmi, 

E temer de l'assedio. Il rio tiranno, 

Tuslo che a Troia la fortuna vide 
Volger le spalle, nnch'ci si volse, e Farmi 
E la sorte segui dei vincitori; 

SI che de l'amicizia e de l'ospizio 
E de l’umanità rotta ogni legge, 

Tolse al regio fanciul la vita e I’ oro. 

Ahi de l'oro empia ed esccrabil fame! 

E ebe per te non osa, c che non tenta 
Quesl’umana ingordigia? Or poichè’l gelo 
Mi fu da Fossa uscito, a'primi capi 
Del popol nostro ed a mio padre in prima 
Il prodigio refersi, e di ciascuno 
Il parer ne spiai. Via, disscr lutti 
Concordemente, abbandoniam qucst'empia 
E scellerata terra; andiate lontano 
Da questo infame e traditore ospizio. 
Rimettiamci nel mare. Indi l'csequie 
Di Polidoro a celebrar no demmo; 

E, composto di terra un alto cumulo, 

Gli aliar vi consacrammo a I Numi inferni , 
Che di cerulee bendo c di funesti 
Cipressi cran coperti. Ivi le donne 
D'Ilio, com’è fra noi rito solenne, 

Vestite a bruno e scapigliale e meste 
Ulularono intorno; e noi di sopra 
Di caldo latte c di sacrato sangue 
Piene tazze spargemmo, e con supremi 
Richiami amaramente al suo sepolcro 
Rivocammo di lui l’anima errante. 

Nè pria ne si moslràr Fonde sicure, 

E lìdi i venti, che, del porto usciti, 
Incontanente nc vedemmo avanti 
Sparir l’odiosa terra, c gir da noi 
Di mano in man fuggendo i liti c i monti. 

E nel mezzo a l'Egèo, diletta a Dori 
Ed a Nettuno, un'isola famosa, 

Che già mobile c vaga intorno a'Iiti 
Agitala da Fonde errando andava; 

Ma fatta di Latona e de'suoi figli 
Ricetto un tempo, dal pietoso arciere 
Tra Giare e Micon fu sirena in guisa, 

Che immota e colla e consacrala a lui 
Ebbe poi le tempeste e i vculi a scherno. 
Qui porto placidissimo c securo 
Stanchi ne ricevette, e già smontali 
Vcneravam d’ApoIlo il santo nido; 
Quand'ecco Anio suo rege, e rege insieme 
E sacerdote, che di sacre bende 
E d’onoralo alloro il crine adorno 
Ne si fa'nconlro. Era al mio padre Anchise 
Già di molt’anni amico; onde ben tosto 
Lo riconobbe, c con sembiante allegro 
Lui primamente, indi noi lutti accolli, 



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MIMO SECONDO 



SI 



Vi* ea faina crani, (rcmerc omnia risa repente, 
l.iminaque, laurusqtte dei, tolusque movcri 
Mons circnm, et mugirc adylis cortina reelusis. 
Submissi pctimus imam, et vo» ferlur ad aurea: 
bordanidae duri, quae vos a stirpe parenlum 
Prima lulil tellus, cadem ros ubere laeto 
Accipiet reducca. Autiquam «quirite matrein. 

Hic dumus Arnese ennetis dominabilur orìs. 

Et nati natorum, et qui nascentur ab illis. 
linee Phocbus; mixtoque ingens «orti tumulili 
Lactilia, et cuncti, quae sint ea moenia quaerunt. 
Quo Plioebus vocct errantcs, iubeatque rercrti. 
Tum gcnitor, vctcrum volvens monumenta rirorum, 
Auditc, o proccres, ait, et spes discile restras. 
Creta Iovis magni medio iacet insula ponto, 

Mons Idaeus ubi et gcnlis cunabula noslrac; 
Ccntum urbes liabitant magnas, uberrima regna; 
Maximus unde paler, si rite audila rccordor, 
Tcucrus Rhocleas primum est adrectus ad oras, 
Optavitquc loeum regno. Nondum llium et arces 
Pergamene sletcrant; habitabant rallibus imis. 

Itine malcr cullrix Cybelae, Corybanliaquc aera, 
IJacumque nemus; hinc fida silenlia sacri?, 

Et iuncti currum dominae subierc leoncs. 

Ergo agile, et, divòm ducunt qua iussa, sequamur, 
Placcmus ventos, et Gnosia regna pctamus. 

Noe longo distant cursu; modo lupiler adsil, 

Tertla lux classem Crclaeis sistcl in oris. 

Sic fatus, mcritos aria maclavil honores, 

Taurum Nepluno, taurum libi, pulcher Apollo, 
Nigram Ilicmi pecudcm, Zepltyris felicibus albam. 

M 



N'abbracciò, ne'nvilù, seco n'addusse. 
Quinci al delubro, che ad Apollo in rima 
Era d'un sasso anlicamentc ostruito, 

Tulli salimmo, ed io devoto orai: 

Danne, Padre Timbrco, propria magione 
E propria terra, ore già stanchi abbiamo 
Posa e ristoro, e ne da’stirpe e nido 
[ Opportuno, durabile c scettro; 

Danne Troia novella; c dc'Troiani 
Serba queste reliquie, che avanzale 
Sono appena a gli storpi, a le ruinc, 

Al foco, a’Greci, al dispiclalo Achille. 
Mostrane chi ne guidi, ove s’indrizxi 
Il nostro corso, c qual Ita T nostro seggio. 
Co i tuoi più chiari c manifesti augùri. 
Signor, tu ne predici, e tu n'ispira. 

Avea ciò detto appena, che repente 
Il limitare, il tempio c 'I monte tutto 
Crollossi intorno; scompigliàrsi i lauri; 
Aprissi, c da gli interni suoi ridotti 
Mugghiò la formidabile cortina. 

Noi riverenti a terra ne gillammo; 

E T suun, ch'era confuso, a l’aura uscendo, 
Articolossi, e cosi dire udissi: 

Dardanidi robusti, onde l'origine 
Traeste in prima, ivi ancor Itelo e fertile 
Di vostra antica madre il grembo aspettavi. 
Di lei dunque cercate; a lei tornatevi: 

Ch'ivi sovr'ogni gente in tutti i secoli 
Domineranno i gloriosi Encadi, 

E la posterità de gli lor posteri. 

Ciò disse Apollo; c del suo dello fessi 
Infra noi gran letizia e gran bisbiglio, 
Interrogando e ricercando ognuno 
Qual paese, qual madre, qual ricetto 
Ne s'accennasse. Allora il padre Anchisc 
Da lunge i tempi ripetendo e i casi 
Dei nostri antichi eroi: Signori, udite, 

Ne disse, ch'io darò lume e compenso 
A le vostre speranze. È del gran Giove 
Creta quasi gran cuna in mezzo al mare 
Isola chiara, e regno ampio e ferace, 

Che cento gran città nodrisce c regge. 

Ivi sorge iin'ailrTda, onde nomata 
Fu Fida nostra; ond'ha seme e radice 
Nostro legnaggio; onde primieramente 
Teucro, padre maggior dc'maggior nostri 
(Se ben me ne rammento), errando venne 
A le spiagge di Reto, ov'cgli elesse 
Di fondare il suo regno. Ilio non era; 

Nè di Pergamo ancor sorgean le mura 
Fino in quel tempo; c sol ne l'irne valli 
Abilavan le genti. Indi a noi venne 
l.a gran Cibele madre; indi son l’armi 
De’Coribanli, indi la selva Idea, 



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52 



DELL'ENEIDE 



Fuma volai, pulsum regni: ceasissc paterni: 
Idomenca duccm, dcscrtaque litora Crctac; 
llosle vacare domos, sedesque adatare reliclas. 
Linquimus Ortygiae porla?, pclagoquc volanms, 
Bacchalamque iugis Naxon, viridemque Donusam, 
Olearon, niveamque Paron, sparsasque per acquor 
Cycladas, et crebri: legimiis frela consila Icrris. 
Nanticu: cxorilur vario cerlamine clamor, 

Ilortantur socii, Cretarn proavosque pctamus. 
Proscquitur surgens a puppi ventus cuntcs. 

Et tandem antiquis Curctum allabimur oris. 

Ergo aiidus muro: optalac molior urbis, 
Pergameamquc voco et ladani cognomino gentem 
Ilorlor amare focos, arcemquc allollero tedia. 

Tamquc fere sicco subduclac litore puppes; 

Connubiis arvisquo novis operata iuventus: 
tura domosque dabam, subito quum tabida membri:, 
Corrnpto coeli traclu, miserandaque venit 
Arboribusquc salisque lues, et Iclifcr annus. 
Linqucbant dulces anima:, aut aegra Iraliebant 
Corpora; lum sterilcs cxurcrc Sirius agros; 

Arebant hcrbac, et victum segrs aegra negabal. 
Hursus ad oraclum Orlygiae l’hoebumque remenso 
llorlalur pater ire mari, veniamque precari: 

Quam fessis finem rebus ferat, unde laborum 
Tentare auxilium iubeal, quo vertere cursus. 



E quel Odo silenzio, onde celati 
Son quei nostri misteri, e quei leoni 
Che al carro de la dea son posti al giogo. 
Di là dunque veniamo, e là vuol Febo 
Clic si ritorni. Or via seguiamo il Fato : 
Plachiamo i venti, e ne la Creta andiamo, 
Clic non è lungc; e se n'i Giove amico, 
Anzi tre di n'approderemo ai liti. 

Ciò dello, a ciascun dio, come convicnsi, 
Sacrificando, due gran tori uccise, 

E l’un diede a Nettuno e l'altro a Febo; 
Una pecora negra a la Tempesta; 

Al Sereno una bianca. 

Era in quei giorni 
Fama, che Idomcnéo Cretose eroe, 

Da la sua patria e da'patcmi regni 
Era scaccialo; onde di Creta i liti, 

D'armi, di duce c di seguaci suoi 
Nostri nemici, in gran parte spogliati, 
Stavano a noi senza contesa esposti. 

Tosto d'Ortigia abbandonammo i porti; 
Trapassammo di basso i pampinosi 
Colli, c Bacco onorammo: i verdi liti 
Di Donusa, c d'Olèaro varcammo; 
Giungemmo a Paro, e le sue bianche ripe 
Lasciammo indietro. Indi di mano in mano 
L’ altre Cicladi tutte e l mar che rotto 
Da tant’ isole e chiuso ondeggia c ferve; 

E seguendo, com'i de* naviganti 
Marinaresca usanza, in Creta, in Creta, 
Lietamente gridando, con un vento 
Che no feria senza ritegno in poppa, 

Quasi a volo andavamo; onde ben (osto 
Dc'Cureli appressammo i liti antichi; 

E gli scoprimmo, c «'approdammo al fine. 
Giunti che fummo, avidamente diemmi 
A fabbricar le desiate mura, 

E Pcrgamea da Pergamo le dissi. 

Con questo amalo nome amore e speme 
Destai di nuova patria, e studio intenso 
D'alzar le mura c di fondar gli alberghi. ' 
Eran le navi in su la rena addotte 
Per la più parte; era la gente intenta 
A Parti, a la coltura, a i maritaggi, 

Ad ogni affare; ed io lor ministrava 
Leggi e ragioni, e Pacca tempii e strade, 
Quando fera, improvvisa pestilenza 
Ne sopravvenne; c la stagione e l’anno, 

E gli uomini c gli armenti e l'aria e l'acquo 
E tull'allro infettonne; onde ogni corpo 
0 cadeva, o languiva; e la semente 
E i frutti c i’erbc e le campagne stesse 
Da la rabbia di Sirio e dal veleno 
De l'orribil conlage arse e corrotte, 

Q negavano il vitto. Il padre mio 



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LIBRO SECO*!*» 



te eroi, et terris ammalia soinnus liabebat: 
Edlgics sacrae divùm Phrygiique Pcnales, 

Quos mecum a Troia mcdiisquc ex ignibus urbis 
Eztuleram, risi ante oculos adslare iaccnlis 
In somnis, multo muniresti lumino, qua se 
Piena por inscrtas fundcbat luna foncslras; 

Tum sic affari, et curas bis demere dictis: 

Ouod libi dolalo Orlygiam diclurus Apollo est, 
lite cani!, et tua nos en ultro ad limlna miltit. 

Kos, le, Dardania incensa, tuaquu arma sccuti, 
te, tumidum sub le permcnsi classibus acquor, 
Idem venturos lollemus in astra ^Qfiotes, 
Imperiumque urbi dabimus.J'u moenia magnis 
Magna para, longumque fugae ne linque laborem. 
Mnlandac sedes. Non haec libi litora suasit 
Delius, aut Crelae lussi! considero, Apollo. 

Est locus, ilesperiam Graii cognomino dicunt; 

Terra antiqua, potens armis atque ubere glebae: 
Oenotri colucre viri: nunc lama, minores 
Italiani dijissc ducis de nomine genlem. -, 

Ilae nobis propriae sedes; bine Dardanus ortus. 
lasiusquc palcr, genus a quo principo nostrum. 
Surge age, et haec lactus lungarno dieta parenti 
Haud dubitando reler: Corylbum lerrasquc requi rat 
Ausonias. Dictaca negai libi lupiterarva. 

Tal ih us altonitus visia ac voce deorum, 

(Ncc sopor illnd crai, sed coram agnosccre vullus 
Vclatasquc comas praescnliaque ora videbar ; 

Tum gelidus loto manabat corporc sudor) 

Corripio c stralis corpus, lendoque supinas 
Ad coclum cum voce manus, et multerà libo 
Intemerata locis. Perfecto laelus bonore 
Ancliisen facio cerlum, remque ordine pando. 
Agnavil prolem ambiguam gominosque parenles, 
Seque novo veterum dcceplum errore locorum. 

Tum memorai : Nate, lliacis eiercite fatis, 

Sola milii tales casus Cassandra cancbat. 

Nunc repeto, haec generi porlendere debita nostro, 
Et saepe Ilesperiam, saepe Itala regna vocare. 

Sed quis ad Ilcspcriac venturos litora Tcucros 
Crederei? aut quem tum vales Cassandra moverei ? 
Cedamus Phocbo, et moniti meliora sequamur. 

Sic all ; et cuncti dirlo paremus ovantcs. 
liane quoque deserimus sedem, paucisquc relictis 
A eia damus, vaslumquc cava trabe currimus acquor. 
Poslquam altum lenucrc rales, ncc iam amplius ullac 
Apparcnl terrac, coclum undique, et undique ponlus; 
Vusiuo voi. rateo. 



53 

Per consiglio ne diè che un’altra volta 
Rinavigando il navigalo mare, 

Si tornasse in Ortigia, e clic di nuovo 
Ricorrendo di Febo al santo oracolo, 

Perdon gli si chiedesse, aita c scampo 
Da si maligno e velenoso influsso, 

Ed alfln del cammino e de la stanza 
Chiaro ne si traesse indrizzo e lume. 

Era giù notte, e già dal sonno vinta 
Posa c ristoro avea l’umana gente. 

Quando le sacre effigie de’ Penati, 

Quelle che meco avea tcatle dal fuoco 
De la mia patria, quelle stesse in sogno 
Vivo mi si mostràr veraci e chiare: 

Tal piena, avversa e luminosa luna 
Penetrava per entro al chiuso albergo 
Di puri vetri i lucidi spiragli; 

E come eran visibili, appressando 
!.a sponda ov’io giacea soavemente 
Mi si fecero avanti, e ’n colai guisa 
Mi conforlaro: Quel che Apollo stesso, 

Se tornassi in Orligia, a te direbbe, 

Qui mandati da lui ti diciam noi: 

E noi siam quei che dopo Troia incensa 
Per tanti mari, a tanti affanni tcco 
N’uscimmo, e te seguiamo c l’armi tue. 

Noi compagni ti siamo; e noi saremo 
Ch'alia nova città, che tu procuri, 

Daremo eterno imperio, e i tuoi nipoti 
Ergeremo alle stelle. Alto ricetto 
Tu dunque, c degno de l'altezza loro, 

Prepara intanto; e i rischi c le fatiche 
Non rifiutar di più lontano esiglio. 

Cerca loro altro seggio; ergi altre mura 
Vie più chiaro di queste; chè di Creta 
Nè curiam noi, nè lo li dice Apollo. 

Una parte d’Europa, e che da'Grcci 
Si disse Esperia, antica, bellicosa 
E fertil terra. Da gli Enotrii colta 
Prima Enotria nomossi: or com’è fama, 

Preso d’italo il nome, Italia è della. 

Questa è la terra destinata a noi. 

Quinci Dardano in prima e lasio uscirò; 

E bardano è l’aulor del sangue nostro. 

Sorgi dunque c riporla al padre Anchise 
Quel ch'or noi ti diciam, che diciam vero: 

E tu cerca di Cònio, c d'Ausonia 
L'anlichc terre, chè da Giove in Creta 
Regnar ti s’inlcrdicc. Io di tal vista, 

E di lai voci, ch’eran voci c corpi 
De’ nostri dei, non simulacri c sogni, 

(Chè ne vid’in le sacre bende c i volli 
Spiranti vivi) attonito e cosperso 
Di gelato sudore, In un momento 
Salto dal letto; e con le mani al ciclo 
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54 



DELL’ ENEIDE 



Tum mihi cacrulcus suprn caput adslitit imber, 

Noelem hiememque fcrens; et inliorruil unda Icncbris. 
Continuo venti volvunt mare, magnaque siirguni 
Aequora; dispersi iaclamur gurgilc vasto. 

Involvcrc diem nimbi, et nox humida coclum 
Abstulit; ingemmarli abruptis nubibus ignes. 
Excutimur cursu, et caccis crramus in undis. 

Ipsc dicm noctcmque negai discernere coelo, 

Nei* meminisse viac media Palinurus in unda. 

Tres adeo inccrtos cacca caligine soles 
Erramus pelago totidem sine sidcre noctes: 

Quarto terra die primum se attollcre tandem 
Visa, apcrirc procul montcs, ac volvere fumum. 

Vela cadimi; remis insurgimus; haud mora, nautac 
Aditisi torquent sptimas, et caerula verruni. 

Servatimi ex undis Slrophadum me lilora primum 
Accipiunt. Strophades Graio stani nomine dictac 
Insulae Ionio in magno, quas dira Cclaeno 
Ilarpyiaeque colimi aliac, Phinela postquam 
Clausa dumus, niensasque nielli liquere priores. 
Trislius liaud illis monstrum, nec saevior ulla 
Pcslis et ira deùm Stygiis scsc extulil undis. 

Virginei volucrum vultus, foedUsima venlris 
Proluvies, uncacque manus, et pallida semper 
Ora fame. 

lluc ubi dclali porlus intravimus, ecce 
bacia boum passim campis armento videmus, 
Caprigcnumque pecus, nullo custode, per herbas. 
Irruimus ferro, et divos ipsumque vocamus 
In partem praedamque Iovem. Tum lilorc curvo 
Exslruimusque toros, dapibtisquc epulamur opimis. 

At subitac liorrifico lapsu de inontibus adsunt 
llnrpyiae, et magnis quaiiunt clangoribus alas, 
Diripiunlquc dapes, conlactuquc omnia focdanl 
Immundo: tum vox lelruin dira inter odorem. 

Rursum in seccssu longo sub rupe cavala, 

Arboribus clausi circuii! alque liorrenlibiis umbris, 
Iiistruinms mcnsas, orisque reponimus ignem: 
Rursum ex diverso coeli caecisque latebris 
Turba sonans praedom pedibus circumvolat uncis, 
Potimi ore dapes. Sociis lune, orma ropessant. 
Edipei dira bcllum nini gente gerendum. 

Haud sccus ac lussi facilini; leclosque per herbam 
Disponunl enses, et sciita lalcnlia condunl. 

Ergo, ubi delapsae sonitum per curva dedere 
Lilora, dat signum specula Misenus ab alla 
Aere cavo. Invadimi socii, et nova proclia tenlant, 
Obsccnas pelngi ferro foedarc volucrcs. 

Sed ncque vini plumis ullam, ncc vulnera tergo- 
Accipiunt, celerìque fuga sub sidern lapsae 
Scmcsam praedam et vestigio foeda rclinquunt. 

Una ili praccelsa consedil rupe Celaeno, 

Infelix vates, rupilquc Itane pectore voccm: 

Rellum eliam prò cacdc boum slralisquc iuvencis, 
Laomedontiadae, belluronc inferro paratia, 



E con la voce supplicando, spargo 
Di doni intemerati i santi fochi. 

Riveriti i renali, al padre Anchisc 
Lido men vado, c del portento intera- 
mente il successo e l'ordine gli espongo. 
Incontanente riconobbe il doppio 
Nostro legnaggio, ci due padri ci due tronchi, 
Di cui rami siam noi, vette c rampolli; 

E, d’erro uscito: Ora io m’avteggio, disse, 
Figlio, che segno sci delle fortune 
E del fato di Troia, e ciò rincontro 
Che Cassandra dicco. Sola Cassandra 
Lo previde e ’l predisse. Ella al mio sangue 
Augurò questo regno; e questa Italia 
E questa Esperia avea sovente in bocca. 

Ma chi mai nc I’ Esperia avria creduto 
Che regnassero i Teucri? E chi credca 
In quel tempo a Cassandra? Ora, mio figlio, 
Crediamo a Febo; e ciò chc'l dio del vero 
Nc dà per meglio, per miglior si elegga. 

Ciò disse, e i detti suoi tosto eseguimmo 
Ed ancor questa terra abbandonammo, 

Se non se pochi. N’andavamo a vela 
Con sccond'aura; c già d'alto mirando, 

Non più terra apparia, ma cielo ed acqua 
Vcdevam solamente; quando oscuro 
E denso e procelloso un nembo sopra 
Mi stette al capo, onde lempesta c notte 
Ne si fece repente , e, di più sili 
Rapidi uscendo, impcrvcrsaro i venti; 
S’abbuiò l’aria, abbaruffassi il mare, 

E gonfiaro altamente e mugghiar Tonde. 

Il ciel fremendo, in tuoni, in lampi, in folgori 
Si squarciò d'ogni parte. Il giorno notte 
Fòssi, e la nollc abisso; c l’un da l’altro 
Non discernendo Pnlinuro slesso 
De la via difildossi e de la vita. 

Così (olii dal corso, c quinci e quindi 
Per lo gran golfo dissipati e ciechi, 

Da buio e da caligine coverti, 

Tre soli interi senza luce errammo, 

Tre notti senza stelle. Il quarto giorno 
Vedemmo al fin, quasi dal mar risorta, 

La terra aprirne i monti c gittar fumo. 
Caggion le vele; e i remiganti a prova, 

Di bianche schiume il gran ceruleo golfo 
Segnando, inverso i liti i legni affrettano. 

Nè prima fui di sì gran rischio uscito, 

Che giunto nelle Strofadi mi vidi. 

Strofadl grecamente nominale 

Son certe isole in mezzo al grande Ionio, 

Da la fera Celeno c da qucll’altre 
Rapaci c lorde sue compagne Arpie 
Fin da l'ora abitate, che per tema 
Lasciar le prime mense, e di Fiitèo 



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I.IBBO ÌECOKOO ‘JJ. 



55 



El patrio Harpyias intontcs pellerc regno? 

Arcipilc ergo animi* alque liaec mea llgilc dieta. 

Quac Plioebo pater omnipoleos, mitri Plmebus Apollo 
Pracdiiit, fobia Furiarum ego maxima pando 
Italiani cursu petilis: vcnlisque vocali* 

Ibilis Italiani, porlusquc intrare liccbit; 

Sed nuli aule dalam cingclia moenibus urbani, 

Quam vos dira fumes noalraequc iniuria cacdis 
Ambesas subigat malia absumere menaas. 

Dixil, et in silvani pennis ablata refugit. 

At aociis subita gelidus formi dine sanguis 
Deriguit; cecidere animi, nee iam amplius armis, 

Sed volìs precibusqne iubent ciposccrc pacem, 

Sivc deac, scu siut dirae obscenaequc volucres; 

Et pater Anchiscs paasis de lilorc palmia 
Rumina magna vocal, meritosque indirii bonorcs: 

DI, probibete minas; di, (aleni avertile casum, 

Et placidi servate pios. Tum litore funem 
Deripere, cxcussosquc iubel taxarc rudenles. 

Tendimi velo Roti; ferimur spumantibus undis, 

Qua cursum ventusque gubernatorque vocabal. 

Ioni medio appare! fluclu nemorosa Zacynlhos, 
Dulichiumque, Samequc, el Reritos ardua saxis: 
EfTugimus scopulos Iibacac, Laorlia regna, 

Et lerram altriccm saevi exsecramur t.'lixi: 

Mox el Leuealac nimbosa cacumina montis 
El formidalus qaulis aperilur Apollo, 
llunc pctimus fessi, et parvae succcdimus urbi: 

Ancora de prora iacitur, stant licore puppcs. 



Fu lor chiuso l'albergo. Altro di questo 
Più sozzo mostro, altra più dira pesto 
Da le tarlarne grolle unqua non tenne. 
Scmbran vergini a'votli; uccelli c ragno - 
A Patire membra; hanno di ventre un fedo 
Profluvio, ond' è la piuma intrisa ed irta; 
Le man d' orligli armale; il collo smunto; 
La faccia per la fame c per lo rabbia 
Pallida sempre c raggrinzata e magra. 
Tosto che qui sospinti in porlo entrammo. 
Ecco sparsi veggiam per la campagna 
Senza custodi andar gran torme errando 
Di cornuti e villosi armenti c greggi. 
Smontiamo in terra; e per far carne, prese 
L’ armi, a predare andiamo, de la preda 
Gli dei chiamiamo c Giove stesso a parte. 
Fatta la strage e già parati i cibi, 

E distese le mense, cravam lungo 
Al curvo lido a ricrearne assiti, 

Quand'ecco che da’ monti in un momento 
Con dire voci e spaventoso rombo 
Ne si fan sopra le bramose Arpie; 

E con gli urli c con P ali e con gli ugnoni, 
Col tetro, osceno, abbomincvol puzzo 
Re sgominàr le mense, ne rapirò, 

Re infetlàr lutti, e i cibi e i lochi c noi. 

Era presso un ridotto, ove alta e cava 
Rupe d' arbori chiusa e d'ombre intorno 
Facca capace ed opportuno ostello. 

Ivi ne riducemmo, e ne le mense 
Riposti i cibi e ne gli altari i fochi, 

A convirar tornammo; ed ecco un'altra 
Volta d'un'allra parte per occulte 
E non previste vie ne si scoverse 
L'orribil torma; e con gli adunchi artigli, 
Co' Acri denti c con le bocche impure 
Ghermir la preda, e ne lasciàr di novo 
Véle le mense e scompigliate e sozze. 

Allor, via (dico a* mici) di guerra i d'uopo 
Contro si dira gente; c lutti all'arme 
Ed a battaglia incito. Eglino in guisa 
CIP io gli disposi, i ferri ignudi c Paste 
E gli scudi e le Trombe e i corpi stessi 
Infra l'erba acquatlaro: il lor ritorno 
Stero aspettando. Era Miseno in allo 
A la vedetta asceso; e non più tosto 
Scoprir le vide, c schiamazzare udillc, 

Che col canoro suo cavo oricalco, 

Re diè cenno a'compagni. Uscir d'aggualo 
Tutti in un tempo, e nuova zuffa e strana 
Tentar conira i marini uccelli in vano: 

Chi le piume e le terga ad ogni colpo 
Arcano impenetrabili e sccurc ; 

Onde scemamente al ciel rivolte 
Se ne fuggirò, c De lasciàr la preda 



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DELL’ ENEIDE 



5C 



Ergo insperata tandem tclfurc potiti, 
Lustramurque lovl, votisque inccndimus aras ; 
Arliaquc Iliacis cclcbramus litora ludis. 

F.vcrccnl palrias oleo labcnte palaeslras 
Nudali socii. luvat evasisse tot urbes 
Argolicas, mediosquo fugain tcnuisse per lioslcs. 



Sgraffiata, smozzicata e lorda tutta. 

Sola Ccleno a l'alta rupo in cima 
Disdegnosa fermossi; e d’infortunii 
Trista indovina, infuriassi, e disse: 

Dunque non basta averne, ardita razza 
Di Laomedontc, depredali e scorsi 
Gli armenti e i campi aostri, che ancor guerra. 
Guerra ancor ne movete? E le innocenti 
Arpie scacciar dal patrio regno osate? 

Ma sentite, e nel cor vi riponete 
Quel ch’io v’annunzio. lo son Furia suprema 
Clic annunzioavoiqucl chc't granGioveaFe- 
E Febo a me predice. Il vostro corso [bo, 
È per l'Italia; e ne l’Italia avrete 
E porto e seggio. Ma di mura avanti, 

La città che dal eie! vi si destina, 

Non cingerete, che d’un tale oltraggio 
Castigo arde; e dira fame a tanto 
Vi condurrà, che fino anco le mense 
Divorerete. E, cosi detto, il volo 
Biprese in vèr la selva, e dileguossi. 
Sgomcntaronsi i miei, cadde lor l'ira; 

E prieghi, in vece d’ armi, e voti oprando, 
Mercè chiesero c pace, o dive o dire 
Che si fosscr l'alale ingorde belve: 

ET padre Anchise in su la riva sporte 
Al ciel le palme, e i gran celesti numi 
Umilmente invocando, indisse i sacri 
A lor dovuti onori: 0 dii possenti, 

0 dii benigni, voi rendete vane 
Queste minacce; voi di caso tale 
Ne liberale; e voi giusti c voi buoni 
Siate pietosi a noi ch'empii non siamo. 

Indi ratto comanda che dal lito 

Si disciolgano i legni. Entriam nel mare, 
Spicghiam le velca gli austri, evia pcrl'ondc 
Spumose a lutto corso in fuga andiamo 
U 've 'I vento e ’l noccliier ne guida e spinge. 
E già d'alto apparir veggiam le selve 
Di Zacinto : passiam Dulichio e Samo: 
Yarchiam Nerito alpestre; c via fuggendo, 

E bestemmiando, trapassiam li scogli 
DTtaca, imperio di Laccio, e nido 
Del fraudolente Ulisse. Indi ne s'apre 
II nimboso Lcucate, e quel, che tanto 
A' naviganti & spaventoso, Apollo. 

Ivi stanchi approdammo: ivi gittate 
L'ancore, ed accostati i legni al lito, 

Ne la piccola sua cittade entrammo. 

Grata vie più quanto sperala meno 
No fu la terra; onde purgati ergemmo 
Altari e voti, ed ostie a Giove offrimmo. 

E d'Azio in su la riva festeggiando 
Ignudi ed unti, uscir de' mici compagni 

1 più robusti, c com' è patria usanza, 



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li mio secondo 



S7 



Interca niagnutn sol clrcumvohilur annum, 

Et glaciale liienis aquilonibus asperai undas. 
Aere caro ctipeum, magni geslamen Abanlis, 
Postibus adversis Ago, et rem cannine sigilo: 
Aeneas haec de Danai! victoribvs arma. 
Umilierò tum portus iubeo, et considero transtris. 
Cerlatim sodi feriunt mare, et aequora serrani. 
Protenus acrias Phaeacum abscondimus arces, 
Litoraquc Epiri tegimus, portuque subimus 
Chaonio, et celsam Buthroti acccdimus urbem. 



Ilic incrcdibilis roram fama occupai aures, 
Friamidcn llelenum Graias regnare per urbe;, 
Coniugio Aeacidac Pyrrlii sceplrisque politimi; 

Et patrio Andromachen ilerum cessissc marito. 
Obstupui, miroqnc inccnsum peclus amore 
Compcllare virum et casus cognoscerc lanlos. 
Progrcdior portu, classes et litora linquens; 

Solcmnis quum forte dapcs et Irislia dona 
Ante urbem in luco, falsi Simoentis ad undam, 
Libabat cineri Andromachc, Manesque vocabat 
Hccloreum ad lumulum, viridi quem cespite inanem, 
Et geminas, caussam lacrimis, sacraveral aras. 

Ut me conspciit venicntem, et Troia circum 
Arma amens vidit, magnis citerrila monslris, 

Dcriguil visu in medio; calor ossa reliquit: 

Labilur, et tongo vii tandem lempore fatur: 

Verune le facies, verus milii nunlius affers, 

Nate dea? Vi visite? aut, si lui alma recessit, 

Hector ubi est? Diiit, lacrimasque effudìt, et omnem 
Implevit clamore locum. Vii pauca furenti 
Subiicio, et raris turbalus vocibus bisce: 

Vivo equidem, vitamque extrema per omnia duco. 

Ne dubita; nam vera vides. 

llcui quis le casus, deiectam coniuge tanto, 

Eicipil? aut quae digita salis fortuna revisil? 
llecloris Andromacbe Pyrrhra’ connubia servas? 
Deiccit vultum, et demissa voce locula est : 

O fclii una ante alias Priamcia virgo, 
lloslilcm ad tumulum Troiac sub mocnibus alti: 
lussa mori, quae sorlilus non peduli! ullos, 

Nec victoris beri teligit capliva cubile I 
Nos, patria incensa, diversa per aequora veclao, 
Slirpis Acbilleae fastus luvcnemquc superbum, 
Scrvitio cnivae, tulimus; qui deinde, secutus 
Ledaeam Ilermioncn Lacedaemoniosquc Hymenacos, 
Me famulo fatnulamquc Ilclcno transmisil Itabcndam. 
Ast illuni, ercptac magno ioflammatus amore 
Coniugis, et scelcrum Furiis agilalus, Orcstcs 
Eicipil ineautum, patriasque oblruncal ad aras. 



Varie palestre a lotteggiar si diero; 

Gioiosi che per tanto mare c tante 
Greche terre mimiche a salvamento 
Fosscr lant'ollre addotti. Era de l'anno 
Compito il giro, e i gelidi aquiloni 
Infestavano il mare; ond’ io lo scudo, 

Che di forbito c concavo metallo 

Fu già del grande Abanlc insegna c spoglia, 

Con un tal molto in su le porle appesi: 

A' Greci oincifori Enea io tolse. 

Ed a le'l sacra, Apollo. Indi al mar giunti 
Ne rimbarcammo: e remigando a gara 
Fummo in un tempo dc’Feàci a vista, 

E gli varcammo: poi rivolti a destra, 
Costeggiammo l’Epiro, e di Caonia 
Giungemmo al porto, edinBulrotoenlrammo, 
Qui cosa udii elio meraviglia c gioia 
Ali porse insieme; c fu, ch'GIcno, Aglio 
Di Priamo re nostro, era a quel regno 
Di Greche terre assunto, c che di Pirro 
E del suo scettro c del suo letto crede, 
Troiano sposo, a la Troiana Andromachc 
S’cra congiunto. Arsi d'immenso amore 
Di visitarlo, e di spiar da lui 
Come ciò fosse; c de l'armata uscendo 
Scesi nel Ilio, e me n'andai con pochi 
A ritrovarlo. Era quel giorno a sorto 
Andromache regina in su la riva 
Del novo Simoenla a far solenne 
Sepolcral sacriAcio; c come è rito 
De la mia patria, avea fra due grand'aro 
Di verdi cespi una gran tomba creila, 
Monumento (li lagrime c di duolo; 

Ove con trisli doni e con lugùbri 
Voci del grand’ Eltór l'anima c'I nome 
Chiamando, il Anto suo corpo onorava. 
Poiché venir mi vide, c che di Troia 
Avvisò Farmi, e me conobbe, un mostro 
Veder le parve, c forsennata e stupida 
Fcrmossi in prima; indi gelala c smorta 
Disvenne c cadde; c dopo molto appena 
Risensando, mirommi, c cosi disse: 

Oh I sci tu vero, o pur mi sembri Enea ? 

Sci corpo od ombra ? Se da'morli udito 
È T mio richiamo, Eltór perchè te manda ? 
Perch'ei tcco non viene ? E sci tu certo 
Nunzio di lui ? Ciò detto, lagrimando, 

Empia di strìda c di lamenti i campi. 

Io di pietà a di duol confuso, Bppcna 
In poche voci, c quelle anco interrotte. 
Snodai la lingua. Io vivo, se pur vita 
È menar giorni si gravosi a duri: 

Ala cosi spiro ancora, o veramente 

Son io quel che li sembro. 0 da qual grado 



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58 



DELL’ENEIDE 



Morie Ncoptoleml regnorum recidila cessil 
Pars llelcno, qui Cbaonios cognominc campos, 
Cliaonianique omnem Troiano a Cliaonc disii, 
l’ergamaque Iliacamquc iugis liane addidii arccm. 
Sed libi qui cursum centi, quac fata dedere? 

Aul quisnam ignarum noslris deui appulit oris? 
Quid pucr Ascanius? superarne et tcseitur aura? 
Qucni libi iam Troia — 

Ecqua, (amen pucro, est amissae cura parenti»? 
Ecquid in antiquam virlutem animos<|ue viri Ics 
F.I pater Acneas et avunculus escila! llector? 

Talia fondebai lacrimans, longosque ciebat 
incassimi flclus; quum sese a moenibus beros 
Priamides inultis llcicnos comitanlibus aiTert, 
Agnoscilquc suo», laclusqiie ad limine ducil, 

El mulluin lacrima» corba inter singula fundil. 
Proredo, et parvam Troiani, simulalaque magni» 
Prrgama, el arenlem Xanlld cognominc rivum 
Agnosco, Scaeaequc ampleclor limina porlae. 

Ncc non el Teucri socia sitimi urbe fruuutur; 

Illos porlicibus rei accipicbal in ampiis. 

Aulai in medio libabanl pocula Bacchi, 

Imposilis auro dapibus, patcrasquc leocbaul. 



Scaduta, e da quanto inclito marito 
Andromache d'Ellorre a Pirro, a Pirro 
Fosti congiunta ! Or qual altra più lieta 
T'incontra, e più di le drgna fortuna ? 
Abbassò *1 volto, c con sommessa voce 
Cosi rispose: 0 fortunata lei 
Sovr'ogni donna, die regina e vergine 
Nc la sua patria a sacrifìcio offerta 
Del nemico fu vittima e non preda, 

1V6 del suo vincilor serva, nè donna. 

10 dopo Troia incensa, c dopo tanti 
E tanti arati mari, a servir uata. 

Ite la stirpe d’Achille il giogo e 'I fasto, 

ET superbo suo tiglio a soffrir ebbi. 

Questi poi con Ermi'one congiunto, 

E lei, che de la razza era di Leda 
E del sangue di Sparta, a me preposta. 
Volle ch’EIcno ed io, servi ambidue, 
N'accoppiassimo insieme. Oreste intanto, 
Che tor l'amata sua donna si vide. 

Da l'amore infiammato e da le faci 
De le furie materne, anzi a gli altari 
Dei padre Achille, insidiosamente 
Tolse la vita a lui. Per la sua morte 
Fu *1 suo regno diviso, e questa parte 
De la Caonia ad Eleno ricadde. 

Che dal nome di Caonc Troiano 
Cosi i’ha della, come disse ancora 
Ilio da l'Ilio nostro questa rùcca 
Clic qui su vedi; e Simoenla c Pergamo 
Queste picciole mura e questo rivo. 

Ha te quai venti, o qual nostra ventura 
Ila qui condotto, fuor d'ogni pensiero 
Di noi certo, c tuo forse ? Ascanio nostro 
Vive ? cresce ? che fa, come ha sentito 
La morte di Criiusa ? E qual presagio 
Ne dò, ch'Enea suo padre, Eltòr suo aio 
Si rinnovino in lui ? Colali Andromache 
Spargca pianti e parole, ed ecco intanto 

11 Teucro eroe che, de la terra uscendo, 
Con molti intorno a rincontrar ne venne. 
Tosto che ne adocchiò, meravigliando 
Ne conobbe, n'accolse, e lietamente 
Seco n'addusse, de' comuni affanni 

Molto con me, mentre andavòmo, anch'egli 
Ilagionando e piangendo. Entrammo al Gnc 
Ne la piccola Troia, e con diletto 
Un arido ruscello, un cerchio angusto 
Sentii con finti e rinnovali nomi 
Chiamar Pergamo e Xante; c, de la Scea 
Porta, entrando, abbracciai l’amata soglia. 
Cosi fecero i miei, meco godendo 
L’amica terra, come propria e vera 
Fosse lor patria. Il re le sale e i portici 



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LIBRO S BWWTTO 



39 



'tv, 



Iamqne dies, allcrque dies professi!; el auree 
Vela vocant, tumidoque inflalur carbasus auslro : 

Ilis vatem aggredior dictis, ac (alia quaeso : 
Troiugcua, inlcrpres ditóni, qui numina Pboebi, 

Qui Iripodas, Clarii laurus, qui sidera senlis, 

El volncrum linguas, el praepctis omina pernice, 

Fare agc ( namque omnem corsimi mihi prospera diti! 
Rclligio, el cuncli suascrunt numine diti 
Italiani pelere, et terras tentare repostas ; 

Sola novum dicluque nefas Ilarpyia Celacno 
Prndigium canil, el Irisles denunliat iras, 
Obsccnamquc faraoni) quae prima pericula rito ? 
Quidve sequens lanlos possim superare labores ? 

Die Helenus, caesis primum de more iuvencis, 

Esordi pacem ditùm, villasque resolvit 
Sacrati capilis, meque ad tua limino, Phoebe, 

Ipso numi multo suspeusum numine ducil ; 

Alque liacc deinde canil divino cs ore sacerdos : 



Naie dea ( nam te maioribus ire per allum 
Auspiciis manifesta fides ; sic fata deùm rei 
Sorlitur, rolvilque vices ; is vcrlilur ordo) 

Panca libi c mullis, quo lutior bospita luslres 
Aequora, el Ausonio possis considero porlu, 
Expediam dictis ; prohibcnl nani celerà Parcac 
Scirc Ilclenum farique velai Salurnia (uno. 
Principio Italiani, quam tu iam rerc propiuquam, 
Vicinosque, ignare, paras invaderò porlus, 

Longa procul longis via dividii invia terris. 

Ante el Trinacria lenlandus remus in unda, 

El salis Ausonii lustrandum navibus aequor, 
Inferniquc lacus, Aeaeaeque insula Circac, 

Quam luta possis urbcm coniponerc terra. 

Signa libi dicano ; lu condita mente tcnelo, 

Quum libi solticito secreti ad fluminis uudam 
Litorels ingens inventa sub ilicibus sus, 

Triginla capitimi Ictus eniia, iaccblt, 

Alba, solo recubans, albi circuni ubera nati, 

Is Incus urbis crii, requies ca certa laborum. 

Noe tu mensarum morsus liorresce fuluros ; 

Futa tiara invcnienl, aderilque vocatus Apollo, 
llas aulem terras llalique liane liloris oram, 
Prolima quae nostri perfundilur acipioris acslu, 
EITuge ; cura la malis liabilanlur wocnia Giaiis. 



Di mense empiendo, fe'lor cibi c vini 
Da'rcgi servì realmente esporre 
Con vaselli d'argento e coppe d'oro. 

Passato il primo giorno e l'altro appresso, 
Soflìdr prosperi i venti; ond'io commiato 
A l' indovino re chiedendo, seco 
Hi ristrinsi e gli dissi: Inclito sire, 

Cui non son degli dei le menti occulte, 

Clic Febo spiri e 'I tripode c gli allori 
Del suo tempio dispensi, e de le stelle 
E desolanti ogni secreto intendi, 

Danne certo (li priego) indirio e lume 
De le nostre venture. Il nostro corso, 
Com'ogni augurio accenna, ed ogni nume 
Ne persuade, è per Italia; e lieto 
E fortunato ancor ne si promette 
Infino a qui. Sola Cclcno Arpia 
Novi e tristi infortunii, e fame ed ira 
De gli dei ne minaccia, lo da te chieggo 
Avvederne c ricordi, onde sia saggio 
A lai perigli, e forte a tanti afTaurii. 

Qui pria solennemente Eleno, uccisi 
I dovuti giovenchi, in atto umile 
Impetrò da gli dei favore e pace; 

Poscia, raccolto in sè, le bende sciolse 
Del sacro capo; e me, cosi com'era 
A tanto odldo attonito c sospeso, 

Per man prendendo la febèa spelonca 
H'addussc avanti, e con divina voce 
Intonando proruppe: 

0 de la dea 

Pregiato figlio (quando a gran fortuna 
E chiaro in prima che 'I tuo corso ì volto; 

Tal è del ciel, dc'Fali e di colui 

Che gli regge, il voler, l’ordine e T molo), 

Io di molte e gran cose che antiveggo 
Del tuo peregrìnaggio, acciò più franco 
Navighi i nostri mari, e T porlo Ausonio, 
Quando che sia, securamcnlc attinga. 

Poche ne ti dirò; chi a le le Parche 
Yiclan che piu ne sappi; cd a me Giuno, 

Ch'io più le ne riveli. Ili prima il porto, 

E l'Italia che cerchi, e si vicina 
Ti sembra, è da tal via, da tanti intrichi 
Scevra da te, ch'ami che tu v'aggiunga, 

Ti parrà malagevole c lontana 

Più che non credi, e li fla d'uopo avanti 

Stancar più volte i remiganti e i remi, 

E ’l mar de la Sicilia c il mar Tirreno, 

E i laghi inferni c l'isola di Circe 
Cercar li converrà, pria che vi fondi 
Securo seggio, lo di ciò chiari segni 
Barelli, e tu ne fa' nota e conserva. 

Quando più stanco e travaglialo a riva 
Sarai d'un duine, u 'sotto un'clcc accolla 



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DELL’E.NEIDE 



Ilio et Narycii posucrunl mocnia Locri, 

El Sallcnlinos obsedil milite campos 
Lyclius Idomeneus; liic illa ducis Mclibori 
Parva Pbiloclclae subniva Pelelia muro. 

Quin, ubi Iransmissac slclcrint trans acquerà classcs, 
El, positis aris, iam vota in liloro solvcs, 

Purpureo velare comas adoperili* amictu, 

Ncqui intcr sanctos ignes in honore dcorum 
Hostilis Facies occurral, et omino turbe). 

Ilunc socii morem sacrorum, burle ipse tendo; 
llac casti maneant in relligione nepoles. 

Ast, ubi digrcssum Siculac te admoveril orae 
Ventus, et angusti rarcsccnl claustra Pelori, 

Laeva libi Icllus, et longo laeva pclautur 
Acquora 'circuito; delirimi Fugo litus et undas. 

Haec loca, vi quondam el vasta convulsa ruina, 
(Tantum aeri longinqua vaici mutare vclustas) 
Dissiluissc Ferunt, quum prolinus ulraquc Icllus 
Lna Forte; venil medio vi pontus, et undis 
Hespcrium Siculo lalus abscidit, arvaque et urbes 
Litore diductas angusto interluii aestu. 

Delirino Scylla latus, lacvum implarata Charybdis 
Obsidct, alque imo baratimi ter gurgitc vastos 
Sorbcl in abruplum (luctus, rursusque sub auras 
Erigi! allemos, et solerà serberai unda. 

At Scyllam rnccis cohibct spelonca latebris, 

Ora csserlanlem, et naves in saia trabcnlcm. 

Prima bominis Facies, et pulchro pectore virgo 
Pube Icnus; postrema immani corporc pislrii, 
Delphinum caudas utero eommissa luporum. 

Praestal Trinacrii metas lustrare Pachynl 
Ccssantcm, longos et circumflcctcrc cursus, 

Quam semel ioFormcm vasto vidissc sub antro 
Scyllam, et cacrulcis canibus rcsonantia sava. 
Praelcrea, si qua est Uelcno prudentia, vati 
Si qua lides, animimi si vcris implel Apollo, 

Enum illiid libi, nate dea, pracquc omnibus unum 
Procdicam, et rcpctcns ilcrumquc itcrumque monebo: 
limoni, magnac primum prece numcn adora: 

Iunoni cane vola llbcns, doiriinamquc potcntcm 
Supplicibus supera donis. Sic denique victor. 

Trinacria flucs Italos mittcre rcliela. 
line ubi dclalus Cumacam accesscris urbcm, 
Divinosquc laeus et Averna sonanlia silvia, 

Insanam vatem adspicies, quae rupe sub ima 
Fata eanil, Foliisquc notas et nom ila mandai. 
Quaccumquc in Foliis descripsit carmina virgo, 

Digerii in numcrum, atque antro scclusa rclinquil. 

Illa manent immuta locis, ncque ab ordine ccdunL 
Vcrum eadem, verso tenuis quetn cardine ventus 
Imputi!, ellcncras turbavi! ianua Frondes, 

IVunquam deinde cavo velitanlia prendere saio, 

Noe revocare silus, aut iungere carmina curai. 
Inconsulti abcunl, sedemque oderc Sibyllae. 

Die libi nc i;ua mora Fuctinl dispcndia tanti, 



Sari candida troia, ed ari trenta 
Candidi Agli a le sue poppe intorno, 

Allor di’: Onesto è il segno c ’I tempo c 'I loco 
Di Fermar la mia sede, c questo 6 T Ano 
De’mici travagli. Or ebe l’ingorda Fame 
Addur li deggia a trangugiar le mense, 
Comunque avvenga, i Lati a ciò daranno 
Opportuno compenso; c questo Apollo 
Invocalo da voi presto saravvi. 

Queste terre d’Italia e questa riva 
Vèr noi volta c vicina a i liti nostri, 

E tutta da’ nemici e da’ malvagi 
Greci abitata e cólta; d però lungo 
Fuggi da loro. I Locri di Narizia 
Qui si posaro; c qui ue’Salenlini 
I suoi Cretesi Iilomenco condusse. 

Qui Filollclc il llelibéo campione 
La picciolctla sua Pelilia eresse. 

Fuggiti, dico; » quando anco varcalo 
Sarai di lì ne l’altro Ilio, intento 
A sciorrc i voli, di purpureo ammanto 
Ti vela il capo, acciò tra i santi Fochi, 

Mentre i tuoi numi adori, ostile aspetto 
Te co’tuoi sacrifico non conlurbi: 

E questo rito poi sia castamente 
Da le servato e da’nepoti tuoi. 

Quindi partilo, allor clic da vicino 
Scorgerai la Sicilia, c di Peloro 
Ti si discovrirà l'angusta luce, 

Ticnli a sinistra; cdcl sinistro mare 
Solca pur via quanto a dilungo intorno 
Gira l'isola lulla, c da la destra 
Fuggi la terra c Tonde. È Fama antica 
Cile questi or due tra lor disgiunti lochi 
Erano in prima un solo, clic per Forza 
Di tempo, di tempeste c di rùine 
(Tanto a cangiar queste terrene cose 
Può dc’sccoli il corso) un dismembralo 
Fu poi da l'altro. Il mar Fra mezzo entrando 
Tanto urlò, tanto ròse, che l'Esperio 
Dal Siculo terreno ai An divise: 

E i campi c le città, che. in su le rive 
Resterò, angusto Frelo or bagna c sparlc. 

Nel destro lato è Scilla; nel sinistro 
É l'ingorda Cariddi. Eoa vorago 
D'un gran baratro è questa, clic tre volle 
1 vasti fluiti rigirando assorbe, 

E tre volle a vicenda li ributta 
Con immenso bollor Ano alle stelle. 

Scilla dentro a le sue buie caterno 
Stassene insidiando; o con le bocche 
Dc’suoi mostri voraci, clic distese 
Tien mai sempre ed aperte, i naviganti 
Entro al suo speco a sò traggo c trangugia. 
Dal mezzo in su la Faccia, il collo e’I petto 



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LIBRO TERZO 



M 



Quamvls iucrepllent sodi, et ri cursus in a'iuni 
Vela vocel, poaslsque sinus implcre secundos. 

Quia adeas, v stero, precibusque oracula poscas. 

Ipsa canal, vocemquc tolcns alque ora resolval. 

Illa libi llaliae populos, renluraque bella, 

El, quo quemque modo Rrgiasque ferasque laborcni, 
Expedici, cursusque dabil venerala secundos. 

Ilaec sunl, quae nostra liceal lo voce moneri. 

Vado age, el ingentem faclis fer ad aelhera Troiani. 
Quae postquam vales sic ore efTalus amico esl, 

Dona dehinc auro gratia secloque elephanlo 
Imperai ad naves ferri, slipalque carinis 
Ingens argcnlum, Dodonaeosque Icbelas, 

Loricam consertam hamis auroque Irilicem, 

El conum insignis galeac crislasque comanles, 

Arma Cieoplolemi. Sunl el sua dona parenti. 

Addii equos, addilque duces ; 

Remigium supplet, socios simul inslruil arniis. 



Vnoiuo vol. carco. 



Ha di donna e di vergine; il restante, 

D'una pislrice immane, che simile 
A'dellini ha le code, a i lupi il ventre. 

Meglio i con lungo indugio e lunga volta 
Girar Pachino e la Trinacria tutta, 

Che, non ch’altro, veder quell'antro orrendo, 
Sentir quegli urli spaventosi e Aeri 
Di quei cerulei suoi rabbiosi cani. 

Oltre a ciò, se prudenti, se fedeli 
Sembrar ti può che sian d'Eleno i detti, 

E se scarso non m’è del vero Apollo; 

Sovr’a tutto io t’accenno, ti predico, 

Ti ripeto più volle e ti rammento, 

La gran Giunone invoca: a Giunon voti 
E preghi c doni e sacrifico offrisci 
Devotamente; chè, lei vinta, al fine 
Terrai d'Italia il desiato lito. 

Giunto in Italia, allor che ne la spiaggia 
Sarai di Cucca, il sacro Averno lago 
Visita, e quelle selve e quella rupe, 

Ove la vecchia vergine Sibilla 
Profetine il futuro, e'n su le foglie 
Ripone i Fati: in su le foglie, dico, 

Scrive ciò che prevede, e ne la grotta 
Distese ed ordinate, ove sian lette, 

In disparte le lascia. Elle serbando 
L'ordine e i versi, ad uopo de’mortali 
Parlan de l’avvenire; e quando, aprendo 
Talor la porta, il vento le disturba, 

E van per l’antro a volo, ella non prende 
Più di ricorle e d'accoziarlc affanno; 

Onde molti delusi e sconsigliati 
Tornan sovente, c mal di lei s'appagano. 

Tu per soverchio che li sembri indugio, 

Per richiamo de’venli e de’compagni, 

Non lasciar di vederla, e d’impetrarne 
Grazia, ebe di sua bocca ti risponda, 

E non con frondi. Ella damili avviso 
D'Italia, de le guerre e delle genti 
Che ti fian contro; e mostreratli il modo 
Di fuggir, di soffrir, d’espugnar tutte 
Le tua fortune, e di condurti in porto. 
Questo è quel che mi occorre, o che mi lice 
Ch’io ti ricordi. Or vanne, e co'tuoi gesti 
Te porta e i tuoi con la gran Troia al cielo. 
Poscia che ciò come profeta disse, 
Comandò come amico che a le navi 
Gli portassero i doni, opre e lavori 
Che avea d’oro e d’ avorio apparecchiati, 

E gran masse d’argento e gran vaselli 
Di Dodonèo metallo: una lorica 
Di forbite animine, e rintronale 
Maglie, dentro d’acciaro, e'ntorno d’oro. 
Etra larga, un cimiero, una celala, 

y 



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il DELL' ENEIDE 



Intensa claasem ralla apiare iubebat 
Aucblses, Aerei renio mora ne qoa fercoli. 

Quetn Phoebi inlerprca multo compellat honore : 
Coniugio, Anchina, Veneris dignale superbo, 

Cura deflm, bis Pergameis erepte ruinis, 

Ecce libi Ausoniae lellus; hanc arripe relia. 

Et tamen hanc pelago praeterlabare necesse esl. 
Ausoniae pars illa procul, quam pandi! Apollo. 

Vade, ail, o felii nati pielate. Quid ultra 
Prorehor, et fando surgenlea demoror auslroa ! 

Nec minus Andromache, digressu mocsla supremo, 
Feri picturatas auri subtemine resles 
Et Phrygiam Ascanio chlimjdcm; nec cedit honore; 
Tettilibusque onerai donis, ac (alia falur: 

Accipe et haec, roanunm libi quae monumenta mearum 
Sint, puer, et longum Andromaetiae lestentur amorem, 
Coningis Hectorcae. Cape dona estrema tuorum, 

0 mihi sola mei super Asljanacliv imago. 

Sic oculos, sic ille manus, sic ora ferebat ; 

Et nunc aequali tecum pubesceret aero, 
lios ego digrediens lacriinis adattar oborlis : 

Virile felices, quibus est fortuna peracta 
lam sua ; nos alia ei alii» in fata roeamur. 

Vobis parla quies; nullum meri» acquor arandum, 
Arra ncque Ausoniae, semper cedentia retro, 
Quacrenda. EiBgicm Xanlbi Troiamque ridelia, 

Quam restrae fecere manus, melioribus, opto, 
Auspiciis, et quae fuerH minus obvia Graiis. 

Si quando Thybrim vicinaque Thybrìdit arra 
Inlraro, gcntique mese data monna cernam, 

Cognalas urbes olim populosque propinquo» 

Epiro, liesperia, quibus idem Dardanus auctor, 

Alque Idem casus, unam facieiaus utramquo 
Troiani auimis. Mancai nostre» ea cura nepoles. 



Ond'era a pompa ed a difesa armato 
Ncoltolemo altero. Il vecchio Anchise 
Ebbe anch’egli i suoi doni: ebber poi tulli 
Cavalli e guide; e fu di remi e d’armi 
Ciascun legno provvisto. 

E perchè T renio 

Che secondo feria, noo punto indarno 
Spirasse, ordine uvea di seior le vele 
Già dato Anchise, a cui con molto onore 
Si fece Eleno aranti, e cosi disse: 

0 ben degno, a chi fosse amica e sposa 
La gran madre d’ Amore; o de’Gelesti 
Sovrana cura, che a l'eccidio avanti 
Già duo volte di Troia, eccoli a vista 
Giunto d'Italia. A questa il corso ìndrizia; 

Ma fa mestier di volteggiarla ancora 
Con lungo giro, perchè lunge assai 
È la parie di lei die Apollo accenna. 

Or lieto te ne va’, padre felice 
Di si pietoso Aglio. Io, già clic l'aura 
SI vi spira propizia, indarno a bada 
Più noo terroni. Indi la mesta Andromache 
Eo e con tulli, e con Ascanio al Anc 
La suprema partenza. Arnesi d'oro 
Guarniti e ricamati, e drappi e giubbe 
Dì moresco lavoro, ed altri degni 
Di lui vestili e fregi, e ricca e larga 
Copia di biancherie dettàgli, e disse: 

Prendi, Aglio, da me quesl'opre uscite 
Da le mie mani, c per memoria lienle 
Del grande e luogo amor che sempre arreni 
Andromache d'Etlorrc; ubimi doni 
Che ricevi da'tuui. Tu mi sci, figlio, 
Quell'unico sembiante die mi resta 
D’Aslianailc mio. Cosi la bocca, 

Cosi le man, cosi gli occhi movea 
Quel mio Aglio infelcc; e d'anni eguale 
A le, del pari or saria leco in fiore. 

Ed io da loro, anzi da me partendo, 

Con le lagrime a gli occhi al fiu soggiunsi: 
Vivete lieti voi, chè già la sorte 
Vostra è compita: noi di fato in falò. 

Di mare in mar tapini andrem cercando 
Quel che voi possedete. A noi l'Italia 
Tanto a noi se ne va più lunge, quanto 
Più la seguiamo: e voi già la sembianza 
D'Ilio e di Troia in pace vi godete, 

Regno e fattura vostra: Ah ! che de l'altra 
Sia sempre e più relice e meno esposta 
A le forze de'Greci. lo s'unqua il Tebro 
Vedrà, se Ila giammai che nc'suoi campi 
Sorgali le mura destinale a noi; 

Come la nostra Esperia e’I vostro Epiro 
SI son vicini, c come ambe le terre 
Fieli vicine e cognate, ed ambe avranno 



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LIBRO TERZO 



<3 



Proieliimur pelago vicina Ccraonia iuila. 

Lodo iter Ilaliam ctirsusque brcvissimus undis. 

Sol ruit interra, el monte* umbranlitr opaci ; 
Slernimur optatae gremio telluri* ad undam. 

Sortili remos, passimque in litore sicco 
Corpora curamus ; fesso* sopor irrigai arlus. 

Necdum orbem medium Noi borii acla subibal 
Ilaud segni* strato surgii Palinurus, et omnes 
Eiploral lenlos, alqne auribua aera captai; 

Sidcra runcta notai tacito labentin coelo, 

Arcturum, pluviasquc lljadas, geminnsque Trioncs, 
Armalumque auro circumspicil Oriona. 

Poslquam cuocio videi coelo constare sereno, 
l)at clarum e puppi signum; nos castra movemus, 
Tcnlamusque viatn, el velorum pandimus alas. 
lamquc rubeseebat slcllis Aurora fugalis; 

Quum procul obseuros colles humilcmque videmus 
Italiani. Ilaliam prìmus conclamai Achalea ; 

Italiani laeto socii clamore salulant. 

Tum pater Anctiises magnimi cratere corona 
Induit, implevitque mero, divosque vocavit 
Stans celsa in puppi : 

Di maria et terrae lempcstatumque potcntes. 

Ferie viam vento facilcm, et spirale secundi. 
Crebrescunt optatae aurae, porlusque paiescit 
Iam propior, templumque apparet in arce Minervoc. 
Vela legunt socii, et proras ad lilora torquent. 

Porlus ab Euroo floctu curvalus in arcum ; 

Obieclae salsa spumanl adspergine caules : 

Ipsc latei ; gemino demittunl brucino muro 
Turriti scopuli, refugiique ab lilore lemplum. 

Qualuor hic, primum omcn, equos in gramine vidi 
Tondenles campum late, candore nivali. 

Et pater Anchises : Bellum, o terra bospita, porlas ; 
Bello armanlur equi ; bellum haec armenta minanlur. 
Sed (amen idem olim curru succedere sueli 
Quadnipedcs, et frena iugo concordia fcrre. 

Spes el pacis, ait. Tum numina sancta prccamur 
l'alladis armisonae, quae prima accepit ovanles ; 

El capita ante aras Phrygio veiamur amictu ; 
Pracceptisque Hclcni, (lederai quae maiima, rilc 
lunoni Argivae iussos adolemus honures. 

Ilaud mora : continuo pcrfcclis ordine volis, 

Cornua vclalarum obrcrlimus anlennarum, 
Graiugenùmque domos suspectaque linquimus aria. 
Ilinc sinus ilerculei, si iera est fama, Tarenli 
Cernilur. Alleili! se dira Lacinia conira, 

Cauionisquc arces, et navifragum Sculaccimi. 

Tum prucul c (luclu Trinacria cernilur Aetna; 

El gemitum ingenlem Pelagi puisataque saia 



Dardano per autore, e per fortuna 
Un caso stesso; cosi d'ambedue 
Mi proporrò che d'animi e d'amore 
Siamo una Troia; e ciò perpetua cura 
Sia de'nostri nipoti. 

Entrati in mare 

Ne spingemmo oltre a gli Cerauni monti 
A Bulroto vicini, onde a le spiagge 
Si fa d'Italia il più breve tragitto. 

Gii declinava il sole, c erescean l'ombra 
De'monti opachi, quando a terra vólti 
Col desire, e co'remi in so la riva 
Pur n'adducemmo, e procurammo a corpi 
Cibo, riposo e sonno. Ancnr la notte 
Non era a metto, die del suo slramatto, 
Surse il buon Palinuro; e poscia ch'ebbe 
Con gli orecchi spiato il vento e 'I mare, 
Mirò le stelle, contemplò l'Arturo, 

L indi piovose, i gemini Trioni, 

Ed Orione armato: e, visto il cielo 
Sereno e T mar sicuro, in su la poppa 
Recosai, e 'I segno dienne. Immantinente 
Movemmo il campo, e quasi in un baleno 
Giunti e posti nel mar, vela facemmo. 

Avea l'Aurora già vermiglia e rancia 
Scolorile le stelle, attor che lunge 
Scoprimmo, e non ben chiari, i monti io prima, 
Poscia i liti d'Italia. Italia, Acate 
Gridò primieramente: Italia, Italia 
Da ciascon legno ritornando, allegri 
Tutti la salutammo. Allora Anchlse 
Con una inghirlandala e piena latta 
In su la poppa alteramente assiso: 

0 del pelago, disse, e de la terra, 

E de le tcmpeslà numi possenti, 

Spirate aure seconde, e vèr l’Ausonia 
De'nostri legni agevolate il corso. 
Rinfortaronsi i venti; apparve il porlo 
Più da vicino; apparve al monte in cima 
Di Paliade il delubro. Attor le vele 
Calammo, e con le prore a terra demmo. 

È di vir l'Oriente un curvo seno 
In guisa d'arco, a cui di corda in vece 
Sta d'un lungo macigno un dorso avanti, 

Ove spumoso il mar percuote e frange. 
Nc'suoi corni ha due scogli, ami due torri, 
Che con due braccia il mar dentro accogliendo 
Lo fa porlo e l'asconde; e sovra al porto 
Lungo dal lito ì ’t tempio. Ivi smontali 
Quattro destrier vie più che ncte bianchi, 
Clic pascevano il campo, ai primo incontro 
Per nostro augurio avcmmo.Óh! disse Anch'so, 
Guerra ne si minaccia; a guerra addilli 
Sono i cavalli; o pur sono anco al carro 
Talvolta aggiunti, e van del pari al giogo: 



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64 



DELL’ ENEIDE 



Audimus looge, fraclosquc ad litora voccs; 
Exsullantque vada, atque aeslu miscentur arenae. 

Et pater Anchises : Nimirum haec illa Charybdis ; 
Hos Helenus scopulos, haec saia horrcnda canebat. 
Eripite, o sodi, pariterque insurgile rcmis. 

Ilaud minus ac iussi faciunt ; primusque rudentcm 
Contorsi! laevas prnram Palinurus ad undas ; 
Lacvam cuncla cohors remis venlisque petivit. 
Tollimur in coelum curvalo gurgite, et idem 
Subducia ad Manes imos desidimus unda. 

Ter scopuli ciamorem inter cava saia dederc ; 

Ter spumoni elisam et rorantia vidimus astra. 
Intcrea fessos venlus cum soie reliquil, 

Ignarique viae Cyclopum allabimur oris. 

Porlus ab accessit ventorum immotus, et ingens 
Ipse ; sed horrificis iuxta tonat Aetna ruinis, 
Interdumquc alram prorumpit ad aethera nubem, 
Turbine fumanlem piceo et candenle favilla ; 
Atlollilque globos flammorum, et sidera lambii : 
Interdum scopulos avulsaque viscere monlis 
Erigil eructans, liquefactaque saxa sub auras 
Cum gemilu glomerat, fundoque cxaestual imo. 
Fama est, Enceladi semiustum fulmine corpus 
Urgeri mole bac, ingentemque insuper Aelnam 
Imposilam ruplis flammom e xspira re caminis ; 

Et fessum quoties mulet lalus, intremere omnem 
Murmurc Trinacriam, et coelum sublexere fumo. 
Noctem illom tedi silvis immania monstre 
Perferimus, nec, quae sonitum del caussa, videmus. 
Nam ncque crani astrorum ignea, nec lucidus aelhra 
Sidera polus, obscuro sed nubila coelo, 

El Lunam in nimbo noi inlempesta tenebal. 



Guerra fla dunque in prima, c pace dopo. 
Quinci devoti venerammo il nume 
De l’armigera Palla a cui gioiosi 
Prima il corso imi rizzammo. In su la riva 
Altari ergemmo; e noi d’intorno, come 
Eleno ci ammoni, le teste avvolte 
Di Frigio ammanto, a la gran Giuno Argiva 
Preghiere e doni c sacriflzii offrimmo. 

Poiché solennemente i prieghi e i voti 
Furon compili, al mar ne radduccmmo 
Immantinente; e rivolgendo i corni 
De le velale antenne, il Greco ospixio 
E'I sospetto paese abbandonammo. 

E prima il Tarantino erculeo seno 
(Se la sua fama è vera) a vista avemmo: 
Poscia a rincontro di Lacinia il tempio, 

La rocca di Caulone e ’l Scilacéo, 

Onde i navigli a si gran rischio vanno. 

Indi ne la Trinacria al mar discosto 
D’Eina il monte vedemmo, e lungc udimmo 
Il fremilo, il muggito, i tuoni orrendi 
Che fncean ne’suoi liti c’ntorno a'sassi 
E dentro a le caverne i Audi c i fuochi, 

Al cicl rullando insieme il mare e'I monte 
Fiamme, fumo, faville, arene e schiuma. 

Qui disse il vecchio Anchise: È forse questa 
Quella Carici Ji ? Questi scogli certo, 

E questi sassi orrendi Eleno dianzi 
Nc profetava. Via, compagni, a* remi 
Tutti in un tempo, e vincitori usciamo 
D’un tal periglio. Palinuro il primo 
Rivolse la sua vela c la sua proda 
Al manco lato; e ciò gli altri seguendo, 

Con le sarte e co’rcmi in un momento 
Ne gittammo a sinistra; e il mar sorgendo 
Prima al ciel ne sospinse; indi calando, 

Ne l’abisso ne trasse. In ciò tre volle 
Mugghiar sentimmo ì cavernosi scogli, 

K tre volte rivolli in vèr le stelle 
D'umidi spruzzi c di salata schiuma 
Il cicl vedemmo rugiadoso e molle. 

Erevan) lassi; e’I venio e’I,’ sole insieme 
Nc mancAr si, che del viaggio incerti 
Disavvedutamente a le contrade 
Dc’Ciclopi approdammo. E per sé stesso 
A’venii inaccessibile c capace 
Di molli legni il porlo, ove giugnemmo; 

Ma sì d'Etna vicino, clic i suoi tuoni 

E le sue spavenlevoli ruine 

Lo tempestano ognora. Esce talvolta 

Da questo monte a l’aura un'atra nube 

Mista di nero fumo c di roventi 

Faville, che di cenere c di pece 

Fan lurbi c groppi, ed ondeggiando a scosse 

Vibrano ad ora ad or luride fiamme 



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LIBRO TERZO 



65 



Posterà iamque dies primo surgebat Eoo, 
Humenlemque Aurora polo dimorerai timbrarli ; 
Quam subito e silvia, macie confecla suprema, 
Ignoti nova forma viri miserandaquc cultu 
Procedi!, supplezquc manus ad litora tendit. 
Respicimus. Dira iliuvies, immissaque barba, 
Conscrlum tegumen spinis : at caetera Graius, 

Et quondam patriis ad Troiam missus in armis. 
Isque ubi Dardanios habitus et Troia vidit 
Arma procul, paullum adspectu conterrilus hacsit, 
Continuitquc gradum ; mot scse ad litora pracceps 
Cum fletu precibusque lulit : Per sidera testor, 

Per superos, atque hoc coeli spirabile lumen : 
Toltile me, Teucri; quascunquc abducitc terras; 
Hoc sai erit. Scio me Danais e classibus unum, 

Et bello lliacos fateor petiisse Penatcs. 

Pro quo, si sceleris tanta est iniurta nostri. 

Spargile me in fluclus, vasloque immergile ponto. 
Si perco, bominum manibus periisse iuvabit. 

Ditterai ; et gcnua amplexus, genibusque volulans 
Haerebat. Qui sii, fari, quo sanguine cretus, 
Hortamur ; quae deinde agilet Fortuna, faleri. 

Ipse pater dextram Anchises, haud multa moratus, 
Dat itiveni, atque animum pracsenli pignoro firmai. 
Ille haec, deposita tandem fbrmidmc, falur : 

Sum patria ex Ithaca, comes infelici» Ulixi, 

Nomen Acbemenidcs, Troiam genitore Adamasto 
Pauperc ( mansissetque ulinam fortuna ! ) profectus. 
Hic me, dum trepidi crudelia limina linquunt, 
Immcmores socii vasto Cyclopis in antro 
Dcscrucre. Domus sanie dapibusque cruentis, 

Intus opaca, ingcns. Ipse arduus, allaque pulsai 
Sidera, ( di, talem lerris avertile pcstem ! ) 



Che van lambendo a scolorir le stelle, 

E talvolta, le sue viscere stesse 
Da sè divelto, immani sassi e scogli 
Liquefatti e combusti al eie! vomendo 
In fin dal fondo romoreggia c bolle. 

È fama, che dal fulmine percosso 
E non estinto, sotto a questa mole 
Giace il corpo d’Encelado superbo; 

E che quando per duolo e per lassezza 
Ei si travolve, o sospirando anela, 

Si scuote il monte c la Trinacria tutta; 

E del ferito petto il foco uscendo 
Per le caverne mormorando esala, 

E tutto intorno le campagne e’I cielo 
Di tuoni empie e di pomici c di fumo. 

A questi mostri tutta notte esposti 
Entro una selva stemmo, non sapendo 
Le cagion d’essi, e di cercarle ogni uso 
Ne si togliea, poiché ’l paese conto 
Non c’era; nè stellato, nè sereno 
Si vedea ’l ciel, ma fosco e nubiloso, 

E tra le nubi era la luna ascosa. 

Già del giorno seguente era il mattino, 

E chiaro albore avea l'umido velo 
Tolto dal mondo, quando ecco dal bosco 
Ne si fa incontro un non mai visto altrove 
Di strana e miserabile sembianza, 

Scarno, smunto e distrutto, una figura 
Più di mummia che d’uomo. Avea la barba 
Lunga, le chiome incolte, indosso un manto 
Ricucilo di spini: orrido tutto, 

E squallido e difforme, con le mani 
Verso il filo distese, a lento passo 
Venia mercè chiedendo. Era costui, 

Come prima ne parve c poscia udimmo, 
Greco, e di quei che militare a Troia. 

Onde noi per Troiani e i nostri arnesi 
E le nostr’armi conoscendo, in prima 
Attonito fermossi; e poscia quasi 
Rincorato a noi venne; e con preghiere 
E con pianto ne disse: 0 se le stelle, 

Se gli dei, se quest'aura, onde spiriamo, 
Generosi c magnanimi Troiani, 

Scrbin la vita a voi, quinci mi tolga 
La pietà vostra, c vosco m’adducete. 

Ove che sia; chè mi fia questo assai; 
Poich’io snn Greco, e di quei Greci ancora 
Che venner (lo confesso) ai danni vostri. 

Se T fallo è tale, c se ’l vostro odio è tanto 
Ch’io ne deggia morir, morte mi date, 

E (se così «'aggrada) a brano a brano 
Mi tanfate, e ne fate esca a’ pesci; 

Chè se per man d’umana gente io pero, 
Perir mi giova. E. così detto, a’picdi 
Ne si gitlò. Noi l’esortammo a dire 



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66 



DELL’ ENEIDE 



Nec visu facili», nec diclu afiTsbilis ulti. 

Visceribus miserorum et sanguino vescilur atro. 
Vidi egomet, «Ino de numero quum corpora nostro 
Prensa manu magna medio resupinus in antro 
Frangerci od saxum, sanicque eir persa notarmi 
Limina ; ridi, atro quum membra flucntia lobo 
Manderei, et tepidi Iremerent sub denlibus arlus. 
Ilaud impune qiiidem ; nec talia passus Ulizes, 
Oblilusve sui est llhar.us discrimine tanto. 

INam simili, cipletus dapibus viuoque sepullus, 
Cerricem inOcxam posuit, iacuilque per antrnm 
Immcnsus, saniem erurtons ac frusta cruento 
Per somnum commista mero, nos, magna precati 
Numtna, sortilique riees, una umliquc circum 
Fundimur, et telo lumen terebramus acuto 
Ingens, quod tona solimi sub fronte latebat, 

Argolici clipei ani Phoebeae lampadis instar, 

Et tandem laeli soeiorum ulciscimur umbras. 

Sed fugile, o miseri, logitc, alque a litore funem 
Rumpite. 

Nam, qualis quanlnsque caro Polyplirmus in antro 
Lanigeras Claudi! pecudes, alque ubera pressai, 
Centum olii ctirra lutee liabitanl mi litora vulgo 
Infondi Cyrlopes, et allis montibus crrant. 

Tenia iam lunac se cornua lumine complenl, 

Quum titani in siltis, inler deserla fcrarum 
Lustra domosque trailo, taslosquc ab rupe Cyclopas 
Prospicio, sonilumque pedum vocemque Ircmisco. 
Viclum infelicem, baccas lapidnsaque corna, 

Dant rami, et vulsis pascimi radicibus licrbac. 
Omnia collustrans, bone primum ad litora ctasscm 
Conspeii renientem. Iluic mo, quaccunque fuisset, 
Addili ; satis est gcntrm efTugissc nefandam. 

Vos animimi liane potius quocunque absumile loto. 



Ctd fosse e di che patria e di che sangue 
E qual era il suo casa. Il vecchio Ancliisa 
La sua destra gli porse, e con tal pegno 
L'alBdò di salute; ond’ei securo 
Tosto soggiunse: Itaca è pairia mia: 
Arhcmcnide il nome. Io fui compagno 
De l’infelice Ulisse; e venni a Troia, 

I a povertà del mio padre Adamasto 
Fuggendo: (cosi povero mai sempre 
Foss'io stalo con lui I ) Qui capitai 
Con esso lilissc; e qui, mentr'ci fuggia 
Con gli altri suoi questo crudele ospiiio, 
Per tema abbandonommi e per obblio 
he l’antro di i Ciclnpo. È questo un antro 
Opaco, Immenso, clic macello è sempre 
D'umana carne, onde ancor sempre intriso 
£ di sanie e di sangue; cd è’I Ciclopo 
Un mostro spaventoso, un che col capo 
Tocca le stelle (o Dio, leva di terra 
Una lai pcslc), cliè a mirarlo solo, 

Solo a parlarne orror senio ed angoscia. 
Pascasi de lo viscere e del sangue 
De la misera genie; ed io l'ho visto 
Con gli occhi miei nel suo speco rovescio 
Stender le branche, e due presi de’nostri, 
Rotargli a cerchio e sbattergli e sobillarne 
Infra quei tufl le midolle c gli ossi. 

Vistilo quando le membra de’meschinl 
Tiepide, palpitanti e vive ancora 
Di sanguinosa bava il mento asperso 
Frangea co’denli a guisa di maciulla. 

Ma noi soffri senta vendetta Ulisse: 

Nè di se stesso in al morlsl periglio 
Punto obbliossi; cbè non prima sleso 
Lo vide ebro e satollo a rapo chino 
Giacer ne l’anlro, e sonnacchioso c gonflo 
Rullar peni di carne e sangue c vino. 

Clic ne restrinse, ed Invocali in prima 
I santi numi, divisò le veci 
SI, che parie il tenemmo in terra saldo, 
Parie ron un gran palo al foco agutio 
Sopra gli fummo; e quel ch'unico avea 
l)i targa e di febèa lampada in guisa 
Sotto la lorva fronte occhio rinchiuso, 

Gli Inveliamolo, vendicando al One 
Col lor la luce a lui l'ombre de' nostri. 

Ma voi che fate qui 7 chi non fuggite, 
Miseri voi 7 Fuggite, e senza indugio 
Tagliale il fune e v'allargale in mare: 

Cbè cosi smisurati e cosi fieri, 

Com'è costui clic Poliremo è dello. 

Ne son via più di cento in questo lilo, 
Tulli Ciclopi, e tulli Antropofàgi 
Che vanno il di per questi monti errando. 
Gii visto ho la cornuta e scema luna 



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LIBRO TERZO 



61 



Vii ca fatai crai ; sommo quum monte videmus 
Ipsum inlcr pecudes «asta se mole moventem 
Pastorcm Polyphemum, el litora nota petentem, 
Monslrum liorremlum , informe, ingens, cui lumen 

adorni um. 

Tronca menu pinus regii et restigia firmai ; 

Lanigerae comitanlur ores ; ea sola «oluptas, 
Solamenque mali. 

Poslquam altos teligli fluctas, el ad aequora veti i l , 
Luminis cflossi fluidum lavi! inde crnorem, 

Dentibus mfrendens gemila ; graditurque. per aequor 
lam medium, needum Ouctus talera ardua tinxiL 
Noi procul inde fugam trepidi celerarc, receplo 
Supplice, aie merito, tacitique incidere funem ; 
Verrimus el proni certantibus aequora remis. 

Sensil, et ad sonitum vocis vesligia torsit. 

Verum ubi nulla datar delira affeclare potestà], 

Ncc polis lonios fluclus acquare sequendo, 

Clamorem immensum tallii, quo pontus el omnes 
Intrcmuere undse, penitusque eiterrita tellus 
Italiae, curvisque immugiil Aetna cavernis. 

Al genus e silvis Cvclopum et montibus allis 
Eicitum ruil ad porlus, et litora complent. 

Cernimus adstanlea nequidquam lumine torvo 
Actnaeos fralres, coelo capita alta ferentes, 

Concilium horrendum : quales quum vertice cclso 
Aèriae qucrcus, aul conifcrae cyparissi 
Consliterunt, siivi alta Iovis, lucusse Dlanae. 
Praecipites metus acer agii, quocunque rudenles 
Escutere, el veulis intendere vela secundis. 

[Contra iussa monenl Heleni, Scjllaoi alque Charjbdim 
Inler, utraroque tiara leti discrimine parvo, 

Ri teneant cursus ; certum est dare lintea retro.] 

Ecce autem Boreas angusta ab sede Potori 
Missus adest. Viro praetervehor ostia saio 
Pantagiae, Hegarosque sinus, Thapsumquc iaeentem. 
[Talia msnslrabal relegens errala retrorsum 
Litora Achcmenidea, comes infelkis Olili.] 



Tornar tre volte luminosa e tonda, 

Da che son qui tra selve e tra burroui 
Con le fere vivendo. Entro una rupe 
È ’l mio ricetto; e quindi, benché lungc 
Gli miri, ad or ad or d'atcrgrinlorno 
Hi sembra, e’I suon n'abborro e'I calpestio 
De la voce e de'piè. Pascolili d'erbe, 

Di coccole e di more e di corgnali, 

E di tali altri cibi acerbi c fieri: 

Vita e vitto infelice. In questo tempo, 

Quanto ho scoperto intorno, unqua non vidi 
Ch'altro legno giammai qui capitasse, 

Salvo che i vostri. A voi dunque del tutto 
M'addico; e, che che sia. parrammi assai 
Fuggir questa nefanda e dira gente. 

Voi, pria che qui lasciarmi, ogni supplichi 
Hi date ed ogni morte. 

Appena il Greco 

Avea ciò detto, ed ecco in su la vetta 
Del monte avverso, Polifemo apparve, 
Sembrato mi sarebbe un alto monte, 

A cui la gregge sua pascessc intorno, 

Se non che si movea con essa insieme, 

E torreggiando inverso la marma 
Per l'usato senlier se ne calava: 

Mostro orrendo, difforme e smisurato. 

Che avea come una grotta oscura in fronte 
In vece d'occhio, e per bastone un pino. 
Onde i passi fermava. Avea d'intorno 
La greggia a'piedi, e la sampogna al collo: 
Quella il suo amore, e questa il suo trastullo, 
Ond'orbo alleggeriva il duolo in parte. 
Giunto a la riva, entrò ne Tonde a guano; 

E pria de l’occhio la sanguigna cispa 
Lavossi, ad or ad or per ira i denti 
Digrignando e fremendo; indi si stese 
Per enlro'l mare, e nel più basso fondo 
Fu pria co’piè, che non fur Tonde a Tanche. 
Noi per paura (ricevuto in prima, 

Come ben meritò, l'ospite Greco) 

Di fuggir Raffrettammo; e chetamente 
Sciolte le funi a remigar ne demmo 
Più che di furia. Udì'! Cielopo il suono 
E 'I trambusto de'remi; e vólti i passi 
Vèr quella pane e T suo gran pino a cerco. 
Poiché lungi scottane, e lungamente 
Pensò seguirne per l'Ionio in vano, 

Trasse un mugghio, che'l maro o i liti intorno 
Ne tremar talli, ne senti spavento 
Fino a l'Italia : ne tonaron quanti 
La Sicania avea seni, Etna caverne. 

L'udlr gli altri Ciclopi, c da le selve 
E da’monti calando, in un momento 
Corsero al porlo, e se D'eropiero I liti. 

Gli vedevam da lunge in su l'arena, 



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DELL' ENEIDE 



OS 



Sicanio practenta situi iaccl insula conira 
Pleinyrium undosum ; nomcn diicre priores 
Orlygiam. Alpheum fama est huc Elidis amoeni 
Occullas rgisse vias subter mare, qui nunc 
Ore, Arelhusa, tuo Siculis confundilur undis. 
lussi numina magna loci veneramur ; et inde 
Euupcro praepingue solum slagnanlis Udori. 

Dine alias cautcs proiectaquc saia Pachyni 
Itadimus ; et falis nunquam concessa moveri 
Apparet Camarina procul, campique Geloi. 
(Immanisque Gela fluvii cognomine dieta.) 

Arduus inde Acragas ostentai maiima longe 
Moenia, mognanimùm quondam generator equorum, 
Teque datis linquo venlis, palmosa Selinus, 

Et vada dura lego saiis Lilybeia caecis. 

Dine Drepani me portus et illaciabilis ora 
Accipit. Hic, pclagi tot tempeslalibus actus, 

Heu, genilorem, omnis curae casusque levamen, 
Amitto Ancbisen : hic me, pater oplime, fessum 
Deseris, heu, lonlis nequidquatn erepte periclis I 
Nec vales Helenus, quum multa horrenda tuonerei, 
llos mihi praedixit luctus, non dira Cctaeno. 

Hic labor ritremus, longarum haec meta viarum. 
Dine ine digressum vestris deus appulit oris. 



Quantunque Indarno, minacciosi e torri 
Stender le braccia a noi, le teste al cielo, 
Concilio orrendo; ebe ristretti insieme 
Erano quai di querce annose a Giove, 

Di cipressi coniferi a Diana 
S'ergono i boschi alteramente a l’aura. 
Fero timor n’assalse; e da l'un canto 
Pensammo di lasciar che ’1 vento stesso 
Ne portasse a seconda ovunque tosse, 
Purché lunge da loro; ma da l'altro, 
D'Eleno ce I vietava il dello espresso, 

Che per meuo di Scilla c di Cariddi 
Passar non si dovesse a si gran rischio, 

E di $1 poco spazio c quinci e quindi 
Scevri da morte. In questa, che gii fermi 
Eracam di voltar le vele a dietro. 

Ecco che da lo stretto di Peloro 

Ne vien Borea a grand' uopo, onde repente 

A la sassosa foce di Panlagia, 

Al Mcgnrico seno, a i bassi liti 
Ne trovammo di Tapso. In colai guba 
Riferiva Achemenide, compagno 
Che s' è detto d'Ulisse, esser nomati 
Quei lociii, onde pria seco era passato. 

Giace de la Sicania al golfo avanti 
En’ isoletta che a Plemirio ondoso 
È posta incontro, e dagli antichi è delta 
Per nome Orligia. A quest' isola è fama, 
Che per vie sotto il mare il Greco Alféo 
Vien, da Doride intatto, infln d' Arcadia 
Per bocca d’ Arelusa a mescolarsi 
Con l' onde di Sicilia. E qui del loco 
Venerammo i gran numi; indi varcammo 
Del paludoso Eloro i campi opimi. 
Rademmo di Pachino i sassi alpestri, 
Scoprimmo Camerino, e 'I fato udimmo 
Che mal per lei fòra il suo stagno asciutto. 
La pianura passammo de' Geloi, 

Di cui Gela è la terra, e Gela il fiume. 
Mollo da lunge il gran monte Agraganle 
Vedemmo, e le sue torri e le sue spiagge 
Che di rute fur già madri famose. 

Col vento stesso in dietro ne lasciammo 
La palmosa Sellne; e ’n su la punta 
Giunti di Liiibéo, tosto girammo 
Le sue cieche seccagne, e '1 porto al (Ine 
Del mal veduto Drepano afferrammo. 

Qui, lasso me I da tanti affanni oppresso, 

A tanti esposto, Il mìo diletto padre, 

Il mio padre perdei. Qui stanco c mesto, 
Padre, m' abbandonasti: e pur tu solo 
M' eri in tante gravose mie fortune 
Quanto arca di conforto e di sostegno. 
Oimè 1 che indarno da si gran perigli 
Salvo ne ti rendesti. Ab, che fra tanti 



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libro terzo 






Sic pater Acneas, intentis omnibus, unus 
Fata rcnarrabai divftm, cursusque docebal. 
Conlicuil tandem, factoque tiic line quicrit. 



Orrendi c miserabili infornimi, 
di’ Elmo ci predisse c l’ empia Arpia, 
Questo non era gii, eh* era il maggiore 1 
Oli fosse questo ancor P ultimo affanno 
Com - è I* ultimo corso ! Chi partendo 
l>a Drepano, se ben fera tempesta 
Qui m’ ha gitlato, certo amico nume 
M' ha, benigna regina, a voi condotto. 

Così da tutti con silenzio udito, 

PoicIP ebbe Enea distesamente esposto 
La rùina di Troia c i rischi c i fati 
Egli error suoi, fece qui line c tacque. 







Virgilio tol. OTTICO. 



IO 



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LIBRO QUARTO 



Al regina grati ioni dudum saucia cura 
Vulnus alil venia, el carco carpitur igni. 

Molla riri virlus animo. inuUinquc recursal 
Ucnlis lionos ; liacrenl inllxi peclorc vullus 
Verbaquc ; noe placidam membris dal cura quielem. 
Posterà Pliocbca luslrabal lampade lerras 
llumeiilcniquc Aurora polo dimoierai umbrani ; 
Qilum sic iinanimam nlloquilur male sana sororem : 
Anna soror, (pine me snspensam insomnia lerrent I 
Quis novns hic noslris succcssit sedilius liospcs ! 
Qucm scse ore fercns ! qnam foni peclorc el armis I 
Credo equidem, ner. vana fldes, gcnus esse deorum ; 
Uegcncrcs anirnos timor arguii. Ilru, quibus ilio 
laclalus falis I quae bella cibausla canebai I 
Si milii non animo nmm immolumquc sederci, 

Ne cui me lincio vcllem sodare iuguli, 
l’ostquam primus amor deccptam morie fcfellil ; 

Si non pertaesum Ibalami lacdacquc frisaci : 
lluic uni (orsan potili succiimbcrc culpae. 

Anna, Talcbor cnim, miseri posi (ala Sycliaci 
Coniugis, et sparso* (ralcrna carde Penale*, 

Solus Ilio inflcvit scnsus, animumque labanlcm 
Imputi! ; agnoseo velcri* vestigio flammee. 

Sed milii rei tellus optem prius ima dchiscal, 

Vcl Pater omnipolons alligai ine fulmine ad umbra*, 
Pallente* umbra* Èrebi noctemquc pro(undam. 

Ante, Pudor, quam le violo, aul Ina iura rcsolro. 

Ilio meos, primus qui me sibi iunsil, umores 
Abslnlil ; illc liabcal secum, serrclque sepolcro. 

Sic citata, simun lacrimi* implcvil oborlis. 



Anna refert : 0 luce magis dilccta sorori, 
Solane pcrpeluo moercns carperc invelila, 



Ma la regina il' amoroso strale 

Già punta il core, e ne le vene accesa 

D* occulto foco, intanto arile c si sface; 

E de l' amato Enea fra sii volgendo 
Il legnaggio, il valore, il senno, l'opre, 

K quel, clic più le sta ne l'alma impresso, 
Soave ragionar, dolce sembiante. 

Tutta notte ne pensa r mai non dorme. 
Sorgea l' Aurora, quando sursc aneli' ella, 
Cui le piume parean già stecchi c spini ; 

E con la sua diletta c lido suora 
Si ristrinse e le disse; Anna sorella, 

Clic vigilie, clic sogni, clic spaventi 
Son quosli mici ? die peregrino è queslo 
Che qui novellamente 6 capilato ? 

Vedesti mai si grazioso aspello 
Conoscesti unqua il più saggio, il più forte, 
E il più guerriero ? lo credo ( e non è vana 
La mia credenza ) die dal del discenda 
Veracemente. I.' alterezza è segno 
I)' animi generosi. E che fortune, 

E clic guerre ne conta ! lo, se non fosse 
Clic fermo e stabilito ho nel cor mio 
Clic nodo maritai più non mi stringa, 
Poiché il primo si ruppe, c se d' ognuno 
Schiva non fossi, solamente a lui 
Forse in’ inchinerei. Ciiè, a dirti il vero, 
Anna mia, da rhu morte e l' empio frate 
Mi privàr di Sichéo, sol questi ha mosso 
1 mici sensi e T uno core, e solo in lui 
Conosco i segni de l' aulica fiamma. 

Ma la terra m’ ingoi, c ’l del mi fulmini, * 
E nell’ abisso lui trabocchi ili prima 
Cir io li violi mai, pudico amore. 

Col mio Sichéo, con chi pria mi giungesti, 
Giungimi sempre, c' ntcmcralo e puro 
Entro ni sepolcro suo seco ti serba. 

E qui piangendo c sospirando tacque, 

Anna rispose: 0 più ile la mia vita 
Sfossa, amala sorella, adunque sola 



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Milito QUARTO 



71 



Nec ilulccs nalos, Vcneris nec pracmia noria ? 

Ili cincrem lui llancs crcdis curaro scpullos ? 

Eslo : aegram aulii quondam flezerc inarili, 

Non Libyae, non anlc Tyr» ; dcspcclus larbas, 
Ductorcsquc alii, quos Africa terra Iriuuiphis 
Divcs ali! : placilonc etiam pugnalo < amori ? 

Noe venit in mcnlcm, quorum conscdcris arvis ? 

■line Gaclulac urbes, genus insuperabile bello. 

Et Numidac inficili cingunl, cl inospila Syriis ; 

Itine deserta sili regio, lateque furcnlcs 
Barraci, Quid bella Tyro surgenlia dicani, 

Gcrmanique niinas ? 

Dls equidem auspicibus rcor et lunonc secunda 
line cursum lliacas vento tenuisse carinas. 

Quam tu urbcm,soror, bone cerncs, quac sorgere regna 
Coniugio tali I Tcucrùm comitanlibus armis, 

Punica se quanlis atlollet gloria rebus! 

Tu modo poscc dcos vernare, sacrisque litatis 
Indulge liospitio, caussasque innccte morandi, 

Dum pelago desaevit liienis cl aquosus Orino, 
Quassataeque ratea, dum non trattabile coclum. 
liis dictis incensum auimum inflammavit amore, 
Spcmquc dedii dubiae menti, soivilque pudorem. 



I 



Principio dclubra adeunt, paccmquc per aras 
Evquirunl : modani leclas de more bidentes 
Lcgifcrae Cereri, Phocboque, patrique Lyaco, 
limoni ante omnes, cui vincla iugalia curar. 

Ipsa tennis destra paleram pulcherrima liido, 
Candcnlis taccae media inter cornua fundit ; 

Aul ante ora deftm pingues spaliatur ad aras. 
Insta uratquc diem donis, pccudumque reciusis 
Pectoribus inliians spirantia consulil evia, 
lleu valum ignarac mcntcs I Quid vota furentem, 
Quid dclubra iuvant ? Est mollis fiamma medullas 
lnterea, et tacitum vivit sub pectore vulnus. 
Eritnr infelis Dido, tolaque vagalur 
Erbe furcns, qualis conieeta cerva sagilla, 

Quam procul incaulam nemora intcr Creala liti! 
Pastor agens lelis, liquitquc volatile ferrum 
Ncscius ; illa fuga silvas saltusque pcragral 



Vuoi tu vedova sempre c sconsolata 
Passar questi tuoi verdi e florid' anni, 

Cile frutto non ne colga, e mai non gusti 
La dolcezza di Venere e ’l contento 
De' cari Agli ? Una gran cura certo 
llan di ciò l' ombre e '1 ccncr de’ sepolti! 
Abbili iusino a qui fatto rifiuto 
E del Gelulo larba c di lanl’ altri 
Possenti, generosi e ricchi duci 
Peni e Fenici, eli* io di ciò ti scuso, 

Com' allor dolorosa, e non amante; 

Ma poich'ami, ad amor sarai rubclla, 

E ritrosa a te stessa ? All I non sovvicnti 
Qual cinga il tuo reame assedio intorno? 

Com' ha gl' insuperabili Cenili 
Da l' una parte, i Numidi da l’ altra, 

Fera gente e sfrenata? indi le secche, 

Quinci i deserti, e più da lunge infesti 

I feroci Barcei? Taccio le guerre 
Clic giù sorgon di Tiro, c le minacce 
Del fiero tuo fratello. Io penso certo 
Clie la gran Giuno, e tutto il cicl benigno 
Ne si mostrasse allor che a' nostri liti 
Questi legni approderò. 0 qual ciltadc, 

Qual imperio Ila questo ! Quanto onore, 
Quanto prò, quanta gloria a questo regno 
Ne verrò, quand' ci leco, c l'armi sue 
Saran giunte a le nostre ! Or via, sorella, 
Porgi preci a gli dei, fa vezzi a lui, 
Assccuralo, onoralo, intratlienlo; 

Che ’l crudo verno, il tempestoso mare, 

II piovoso Orione, i venti, il ciclo, 

Le sconquassate navi in ciò ne dònno 
Mille scuse di mora c di ritegno. 

Con questo dir, che fu qual aura al foco, 
Ond'era il cor de la regina acceso, 

L' infiammò, l' incitò, speme le diede, 

E vergogna le tolse. 

Andaro in prima 
A visitare i tempii, a chieder paco 
E favor da' celesti, a porger doni, 

A far d' elette pecorelle offerta 
A Cerere, ad Apollo, al padre Bacco, 

E, pria clic a tulli gli altri, a la gran Giuno, 
Cui son le nozze e i maritaggi a cura. 

La regina ella stessa ornata c bella 
Ticn d’ oro un nappo, e fra lo corna il versa 
D' una candida vacca; o si ravvolge 
Intorno a' pingui altari, cd ogni giorno 
Rinnova i doni, c de le aperte vittime 
Le palpitanti fibre, i vivi moli, 

E le spiranti viscere contempla, 

E cou lor si consiglia. 0 menti sciocche 
De gl’ indovini I E clic potino i delubri, 

E i voti, esterni aiuti, a mal eh' ò dentro ? 



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72 



LlìLL’ ENEIDE 



Dictacos ; liaercl latori letali* annido. 

Nunc media Acncan sccum per moenia ducit, 
Sidoniasqiic ostentai opcs, urbemque paratali), 
Incipit effari, mediaque in voce resisti! : 

Rune cudem, labenle die, con vi via quacrit, 
lliacosque ilerum demens atidirc labores 
Kxpnscit, pendetque iterura narranti» ab ore. 

Post, ubi digrossi, lumenque obscura vicissim 
Luna prcinil, suadentquc cadentia sidera somnos, 
Sola domo mocrel vacua, slralisquc relielis 
Incubai ; illuni absens absenlem auditque videlque. 
Aul premio Ascanium, penitoris imapinc capta, 
Delinei, infandum si fallerò possil amorem. 

Non coeptae assurgimi turres ; non arma iuvenlus 
Exercet, portusvc ani propupnacula bello 
Tuta parali! : pendoni opera inlcrrupta, minacquc 
Murorum ingentes, acquataquc macliina coelo. 



Quam simili ac tali personal peste teneri 
Cara lo vis coniunx, nec fa inani obstare furori, 

Talibus aggreditur Vcncrern Saturnia diclis: 

Egrcgiam vero laudern et spolia ampia refertis 
Tuquc puerque liius; magnum et memorabile numen, 
Una dolodivòm si frmina vieta duorum est. 

Ncc me adeo fallii, verilam le moenia noslra 
Susppclas habuissc domos Carlbaginis allac. 

Sed quis crii modus ? aul quo nunc ccrtamina (anta ? 
Quin potius pacein acternain paclosque il vmenacos 
Kxcrccmus ? Ilahcs, Iota qiiod mente pctisti: 

Ardct amans Dido, Iraxitque per o>sa furorem. 
Commiincm lume ergo populum paribusque regamus 
Auspici»; liceal Phrygio servire marito, 

Dotalcsquc tuac Tyrios pcrmiltcrc d ex tra e. 



Nel coor, ne le midolle c nc le vene 
È la piaga e la fiamma, ond'ardc c pere. 
Arde Dido infelice, e furiosa 
Per tutta la città s* aggira c smania : 

Qual nc 1 boschi di Creta incauta cerva 

D’ insidioso arder fugge lo strale 

Che P ha già colta; c seco, ovunque vada, 

Lo porta al fianco infisso. Or a diporto 
Va con Enea per la città, mostrando 
Le fabbriche, i disegni e le ricchezze 
Del suo novo reame; or desiosa 
Di scoprirgli il suo duol prende consiglio: 
Poi non osa, o s'arresta. E quando il giorno 
Va declinando, a convivar ritorna, 

E di nuovo a spiar de gli accidenti 
E de* fati di Troio, e nuovamente 
Pende dal volto del facondo amante. 

Tolti da mensa, allor dio notte oscura 
In disparte gli Iraggc, c che le stelle 
Sonno, dal ciel caggendo, a gli occhi infon- 
Dolente, in solitudine ridotta, [dono, 

Ritirata da gli altri, è sol con lui 
Che le sta lungc, c lui sol vede e sente. 
Talvolta Ascanio il pargoletto figlio 
Per sembianza del padre in grembo accolto, 
Tenia, se cosi può, l’ ardente amore 
0 spegnere, o scemare, o fargli inganno. 

Le torri, i tempii, ogni edificio intanto 
Cessa di sormontar; cessa da V arme 
La gioventù. Le porle, il porlo, il molo 
Non sorgon più: dismesse ed interrotte 
Pendon P opere tutte e la gran macchina 
Clic Tea dianzi ira a' monti e scorno al ciclo. 

Vide da l'alto la saturnia Giuno 
Il furor di Didonc, e tal che fama 
E rispetto d' onor più non V affiena : 

Onde Venere assalsc, c in cotal guisa 
Disdegnosa le disse: Una gran loda 
Certo, un gran merlo, un memorabil nome 
Tu col fanciullo luo, Ciprigna, acquisti 
D’aver due si gran dii vinta una femmina. 

10 so ben clic guardinga e sospettosa 
Di me li rende c de la mia Cartago 

11 temer di tuo figlio. Ma Ila mai 
Clic questa tema c questa gelosia 

Si finisca tra noi 7 Chò non più tosto 
Con una eterna pace c con un saldo 
Nodo di maritaggio unitamente 
Nc restringono ? Ecco hai già vinto; c vedi 
Quel che più desiavi. Ama, arde, infuria, 

Con ogni affetto è verso Enea, luo figlio, 

La mia Dido rivolta. Or lui si prenda ; 

E noi concordemente in pace abbiamo 
Ambedue questo popolo in tutela : 

Nè ti sdegnar che si nobil regina 



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LIBRO QUARTO 



73 



Olii (sensi! enim simulala mente loeulam, 

Quo regnum llnliac Libycas averterei oras) 

Sic contra est ingressa Vcnns: Quis lalia demens 
Abnuat, aut Iccum mali! contendere bello ? 

Si modo, quod niemoras, factum fortuna sequatur. 
Sed fati* incerta feror, si Iupìtcr unam 
Esse velil Tyriis urbem Troiaque profeclis, 

Misccrive probel populos, aut foedera iungi. 

Tu comuni; libi fas animum tentare precando. 

Perge; sequar. Tum sic eieepil regia lutto : 
llecutn erit iste labor. Pinne qua ratione, quod instai, 
Conficri possi), paucis, advcrle, docebo. 

Venatum Aeneas unaque miserrima Dido 
In nemus ire patant, ubi primos crasliuus ortus 
Exluleril Tilan, radiisque rctcìcril orbem. 

His ego nigranlem commista grandine nimbum, 

Dum trepidati! alac, saltusque indagine cingunt, 
Desuper inrundam, et lonitru coelum ornile ciebo. 
DilTugient comites, et noctc legeulur opaca : 
Speluncam Ditto dui et Troianus eandem 
Devenicnt. Adero, et, tua si milti certa toluntas , 
Connubio iungam stabili propriamque dicobo. 

Die Hymenaeus crii. Non adversala petenti ' 

Annuii, alque dolis risii Cylherca reperlis. 



Occanum inlcrca surgens Aurora reliquit. 

It porlis, in Dare esorto, delccta iuventus; 
lidia rara, piagai-, luto venabula ferro, 
Massyliquc ruttili eqnites, et odora canum vis. 
Reginam lltalamo cunctantem ad Umilia primi 
Poenorum cispectant; ostroque insignis et auro 
Stai sonipcs, ac frena ferOi spumantia mandi!. 
Tandem progrcdilur, magna stipante caterva, 
Sidoniam picto cblamydetn circumdala limbo ; 
Cui pharctra ci auro, crincs noduntur in aurum, 
Aurea purpurcam subneclit fibula vcslem. 

Noe non et Plirvgii comites et laetus Iulus 
Iiiccdunt. Ipso ante alios pulclierrintus otnncs 
Inferi se sociutn Aeneas, atqucagmiua iungil. 



Serva a Frigio marito, c eli' ci le genti 
Pi" aggio di Tiro e di Cartago in dote. 

Venere, clic ben vide ove mirava 
Il colpo di Giunone, e che t'occulto 
Suo bersaglio era sol con questo avviso 
Distor d'Italia il destinato impero 
E trasportarlo in Libia, incontro a lei 
Cosi scaltra rispose: E chi si folle 
Sarebbe mai che un tal fisse rifiuto 
Di quel ch'ei più desia, per leco averne, 
Tcco, che tanto puoi, gara e tenzone, 
Quando ciò clic tu di' possibil fosse? 

Ma non so che si possa, nè che 'I Fato, 

Nè clic Giove il permetta, che due genti 
Diverse, come son Tirii e Troiani, 

Una sola divenga. Tu consorte 
Gli sei; tu ne T dimanda, e tu l'impetra, 
Ch’io per me nc son paga. Ed io, soggiunse 
Giuno, sopra di me i'incareo assumo, 

Ch'ei nc 'I consenta. Or odi brevemente 
Il modo che a ciò far già nc si porge. 

Tosto che T Sol dimane uscirà fuori, 

Uscire ancor l'innamorata Dido 

Col Troian Duce a caccia s'apparecchia, 

Ove opportunamente a la foresta. 

Mentre de’ cacciatori c de’cavalli 

Andran le schiere in vòlta, io loro un nembo 

Spargerò sopra tempestoso c nero , 

Con un turbo di grandine c di pioggia, 

F, di si fieri tuoni il ciclo empiendo, 

Ch'indi percossi i lor seguaci tutti 
Andran dispersi c d'atra nube involti, 

Solo con sola Dido Enea ridotto 
In un antro medesimo accorrassi. 

Io vi sarò; saravvi anco Imeneo; 

E se del tuo voler tu m'assecuri, 

10 farò si, ch'ivi ambiduc saranno 
Di nodo indissolubile congiunti. 

Venere in ciò non disdicendo, insieme 
Chinò la testa: e de la dolce froda 
Dolcemente sorrise. 

Uscio dal mare 

L'Aurora intanto; cd ecco fuori armati 
Di spjedi e di zagaglie a suon di comi 
Venirne i cacciatori, altri con reti, 

Altri con cani, ila questi un gran molosso, 
Quegli un veltro a guinzaglio, c lunghe Ulc 
Van di segugi incatenali avanti. 

Scorrono intorno i cavalier Massilij; 

E i maggior Peni, e i più chiari Fenici 
Stanno in sella aspcltando, anzi al palagio , 
Mentre ad uscir fa la regina indugio; 

È presto intanto d’ostro c d'oro adorno 

11 suo ginnetto, c vagamente fiero 
Ringhia, e sporge la terra, e morde il freno. 



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7t 



DELL’ ENEIDE 



Qualis, ubi liibcrnam Lyciani Xanlliiquc (lucilia 
Dcscrit, ac Odimi malcrnam invisit Apollo, 
Inslauratquc clioros, rnivlique altana circum 
Crctcsque Dryopcsque frcnuuil picliquc Agallarsi : 
Ipsc iugis Cynlhi gradilur, molliquc lluentem 
Fronde premil crioem fingcns, alque implicai auro, 
Tela sonanl humeris: baud ilio segnior ibat 
Acneas; lanlum egregio dccus enilcl ore. 

Postquam allos ventum in inonlcs alque invia lualra, 
Ecce (crac, savi deieclac vcrlice, caprae 
Decurrere iugis; alia de parie palenles 
Transmillunt cursu campos alque agniina cervi 
Pulvcrulcnla fuga giomeranl, monlcsquc rclinquunl. 
Al pucr Ascanius mediis in vallibus acri 
Gaudct equo; iamque hos cursu, iam praelcril illos, 
Spumanlemquc dari pecora inler inerba votis 
Optai apruui, aul fuitum descendcre monte Icouem. 



Inlerca magno misccri murmurc coclum 
Incipit; insequitur eomnti.vla grandine nimbus; 

El Tyrii comilcs passim, et Troiana iuventus, 
Dardauiusquc nepos Veneris, diversa per agros 
Tecla mctu peliere; ruunl de monlibus amnes. 
Spcluncam Dido dui el Troianus candcm 
Dcvcniunl. Prima el lellus et pronuba limo 
Dani sigmim: fuiscre ignes, el conscius acther 
Connubiis; summoque ulularunt vcrlice Nymphac. 
lllc dics primus teli primusque malorum 
Caussa fuil. Nequc cnim specie famarc movelur, 
Nec iam furlivum Dido mcdilatur amorem; 
Coniugium vocal; lioc praclciil nomine culpam. 



Esce a la line accompagnala intorno 
Da regio stuolo, c con un regio arnese, 

Ha leggiadro c ristretto. É la sua veste 
Di Tirio drappo, e d'Arabo lavoro 
Hiccamcntc fregiala: è la sua chioma 
Con nastri d'oro in treccia al capo avvolta, 
Tutta di gemme come stelle aspersa; 

E d'oro son le Ubbie, onde sospeso 
Le sta d'intorno della gonna il lembo. 

Do gli omeri le pende una faretra; 

Dal fianco un arco. I Frigi, e'I bello luto 
Le cavalcano aranti ; c via più bello, 

Ma di belli feroce e graziosa 

Le giva Enea con la sua schiera a lato. 

Qual se ne va da Licia e da le rive 
Di Xanto, ove soggiorna il freddo inverno, 

A la materna Dclo il biondo Apollo, 

Allor che festeggiando accolli e misti 
Infra gli altari i Driopi, i Cretesi, 

E i dipinti Agatirsi in varie tresche 
Gli s’aggirano intorno; o quando spazia 
Per le piagge di Cinto, a l’aura sparsi 
I bei crin d'oro, e de ramalo fronde 
Le tempie avvolto, c di faretra armato; 

Tal fra la gente si mostrava, c tale 
Era nc'gesti c nel sembiante Enea, 

Sovra d'ogni altro valoroso e vago. 

Poscia che furo a'monli, c nel più folto 
l’enelràr de le selve, ecco dai balzi 
De Palle rupi uscir capri c camozze, 

E cervi altronde, clic d'armenti in guisa, 
Quasi in un gruppo spaventali a torme 
Fuggono al piano, c fan nubi di polve. 

Di ciò gioioso il giovinetto Iulo 
Sul feroce destrier per la campagna 
Gridando c traversando or questo arriva. 

Or quel trapassa; e nel suo core agogna 
Tra le timide belve o d'un cignale 
Aver rincontro, o che dal monte scenda 
Un velluto leone. 

In questa il cielo 

Mormorando turbossi, e pioggia e grandine 
Diluviando, d'ogni parte in fuga 
Ascanio, i Teucri, iTirii a i più propinqui 
Tetti si riliraro; e fiumi in tanto 
Sceser da’monli, ed allagare i piani. 

Solo con sola Dido Enea ridotto 
In un antro medesimo s’accolse. 

Diè di quel, che segui, la terra segno 
K la pronuba Gmno. 1 lampi, i tuoni 
Fur de le nozze lor le faci e i canti: 
Testimoni assistenti c consapevoli 
Sol ne fur l’aria c l'antro; e sopra 'I monte 
N’ulularon le Ninfe. Il primo giorno 
Fu questo, e questa fu la prima origine 



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unno QtAnTo 



13 



Evlcmplo l.ibyac magnas il Fama per urbes, 

Fama, malum qua non alimi velocius ullum. 

Mobilitale vigcl, viresque acquirit eundo; 

Parva mclu primo, moz scsc a tlollil in auras, 
Ingrrdiliirquc solo, cl caput intcr nubila condii. 

Illam Terra parens, ira irritata dcorum, 

Evlrcmam, ut perhibent, Coeo Enceladoquc sorortm 
Progenuil, pedibus cclercm et pernicibus alis; 
Monstrum horreuduin , ingcns, cui, quot sunt corporc 

pltimac, j 

Tot tigiles oculi subter, mirabile dictu, 

Tot linguac, totidem ora sonant, tot subrigìt aures. 
Nocte volai codi medio terracque per umbram 
Stridcns, nec dolci declinai lumina sonino: 

Luce sedei cuslos ani summi culmine ledi, 

Turribus aut altis, et magnas territat urbes, 

Tarn Odi pravique lena*, quam nuntia veri. 

Maec toni mulliplici populos sermone replebal 
Gaudens, cl perder lacta alque inrecla canebai : 

Venisse Aeneam, Troiano a sanguine cretum, 

Cui se puledra viro digncltir iungerc Dido ; 

Nunc bicmem inler se luiu, ipiam longa, fovere 
Regnorum immemores, lurpiquc ctipidine raplos. 

Dace passim dea foeda virùm diffundil in ora. 

Protcnus ad regem cursus detorquet larban, 
Inccnditque animimi dictis, atquc aggcral iras. 

Ilic llamuioue salus, rapla Garamanlidc Nympha, 
Tempia lovi renlum lalis immania regnis, 

Cenimi! aras posuil ; «igllcmquc sacraveral ignem, 
Kvcubias divAm aetcrnas, pccudumquc cruore 
Pingue solum, et variis florentia limina serlis. 

Isque amens animi, et rumore accensus amaro, 

Dicilur ante aras, media inter nuinina divini, 

Nulla lovcm manibus supplcv orasse supinis : 
lupiler omnipotens, cui nunc Haurusia pictis 
Gens cpulala toris Lcnacum libai honorem, 

Adspicis bare ? an le, genilor, quum fulmina lorques, 
Ncquidqiiam horremus, caeciquc in nubibus ignea 
Terrificali! animos, et inania murmura misccnl ? 
Vernina, qunc noslris errans in flnibus urbem 
Eviguam prclio posuil, cui lituo annidimi, 

Cuiquc loci leges dedimus, connubio nostra 
Itcputìl, ac dominum Aencan in regna recepii. I 

El nunc illc Paris, cum semiviro comilalu, 

Maconia mcntum mitra crincmquc madenlem 
Subnizus, raplo polilnr : nos munera templis 
Quippc luis fcrimus, fomomque fovemus inanem. 



Di tulli 1 mali, c de la morie al line 
Do la regina; a cui poscia non calsc 
Nè de l'indegnità, nè de l'onore, 

Nè de la sccrelczza. Ella si fece 
Moglie chiamar d'Enea: con questo nome 
Ricoverse il suo fallo. 

Di ciò tosto 

Per le (erre di Libia andò la fama, 
ft questa fama un inai, di cui null’altro 
E piò veloce; e coni’ più va, piò cresce, 

E maggior forra acquista. É da principio 
Picciola c debit cosa, e non s'arrischia 
Di palesarsi; poi di mano in mano 
Si discopre c s'avanza; e sopra terra 
Scn va movendo e sormontando a l’aura, 
Tanto clic ’l capo infra le nubi asconde. 
Dicon che già la nostra madre antica, 

Per la mina de' Giganti irata 
Contra i celesti, al mondo la produsse, 
D'Encclado o di Cco minor sorella; 

Mostro orribile c grande, c d'ali presta 
E veloce dc'pìè: che quante ha piume. 

Tanti ha sotto occhi vigilanti, e tante 
(Meraviglia a ridirlo) ha lingue c bocche 
Per favellare, c per udire orecchi. 

Vola di none per l'oscure tenebre 
De la terra c del cicl senza riposo. 

Stridendo sempre, e non chiude occhi mai, 

Il giorno sopra letti, c per le torri 
Scn va de le città, spiando tulio 
Che si vede c che s’ode; c seminando, 

Non mcn clio’l bene e'1 vero, il male e'I falso, 
Di rumor empie e di spavento i popoli. 
Questa gioiosa, bisbigliando in prima, 
Poscia crescendo, del seguito caso 
Molte cose dicca vere c non vere. 

Dicea, rh'un, di Troiana stirpe uscito, 
Venuto era in Carlago, a cui degnata 
S'cra la bella Dido esser congiunta, 

Chi con nodo dicea di maritaggio, 

Chi di lascivo amore; c ch'ambcduo, 

Posti i regni in non cale, a l'ozio, al lusso, 

A la lascivia bruttamente addilli. 
Consumavan del verno i giorni lutti. 

Queste, c cose altre assai, la sozza dea 
Per le bocche de gli uomini spargendo, 
Tosto in Getulia al gran larba pervenne: 

E con parole e con punture acerbe 
S) dell'olTcso re l'animo accese, 

Ch'arse d'ira c di sdegno. Ero d'Ammone, 

E de la Garamanlidc Napca, 

Già rapita da lui, questo re nato, 

Onde a Giove suo padre entro a'suoi regni 
Cento gran tempii c cento pingui altari 
Avca sacroli, e di continui fochi 



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Vi 



DELL' ENEIDE 



Talibus oranlem diclis, arasque tcncnlom, 

Audiil omnipolcns, oculosquc ad mociiio lorsit 
Regia, et oblilo* lamac mcliorìs smanica. 

Tum sic llcrcurium alloquitur, ac talia mandai : 
Vade ago, naie, voca Zcphyros, el labere pennis : 
Dardaniumquc ducem, Tyria Carlhagine qui nunc 
Evspcclat, Catisquc dalas non respicit urbes, 
Alloqucrc, el celercs defer mea dieta por aura*. 

Non illum nobis gcnclrix pulclierrima lalcm 
Promisil, Graiùmquc ideo bis vindicat armis : 

Sed Core, qui gravidam impcriis belloque Cremcnlcm 
llaliam rcgerei, gcnus allo a sanguine Teucri 
Prodercl, ac tolum sub leges minerei orbom. 

Si nulla accendil tanlarum gloria rerum, 

Ncc super ipsc sua molilur laude laborcm : 
Ascanione pater Romanas invidet arces ? 

Quid slruil? aut qua spc inimica in genie moratur, 
Ncc prolcm Ausoniam el Lavinia respicit arra ? 
Navigel : baco stimma esl ; Ilio nostri nunlius cslo. 



Divorai. Ilio palris magni parere parabai 
Imperio : et primurn pedibus lalaria neclil 
Aurea, quae sublimem alis, sivc acquora supra, 
Scu lerram, rapido pariler cum flamine porlanl ; 



Mantenendo a gli dei vigilie eterne, 

Di vittime, di bori c di ghirlande 
Gli letica sempre riveriti c colli. 

Ei si com'era afllillo c conturbato 
Da l'amara novella, anzi a gli altari, 

E Tra gli dei, le mani al ciclo aliando, 

Colali, umile insieme e disdegnoso, 

Porse pricglii c querele: Onnipotente 
Padre, a cui tanti opimi c sontuosi 
Conviti, e di Lenéo si larghi onori 
Oflrisce oggi de’Mauri il gran paese, 

Vedi tu queste cose? o pure invano 
Tonando c folgorando ci spaventi 7 
Dna femmina errante, una che dianzi 
Ebbe a prezzo da me nel mio paese, 

Per rondar la sua terra, un piccol sito; 

Dna che arena ha per arare, ha vitto, 

Loco c leggi da me, me per marito 
Rifiuta; e di si donno e del suo regno 
Ila Catto Enea. Questo or novello Pari 
Con quei suoi delicati c molli eunuchi, 
Mitralo il mento, e profumato il crine, 

Va del mio scorno e del suo Curio altero: 

Ed io qui me ne sto vittime e doni 
A le porgendo: e son tuo Uglio indarno. 

Cosi Iarba dicea; nò da l'altare 
S’cra ancor tolto, quando il padre udillo; 

E gli occhi in vèr Cartagine torcendo 
Vide gli amanti clic, a gioire intesi, 

Avean posto in oblio la fama e i regni. 

Onde vólto a Mercurio: Va', figliuolo, 

Gli disse, chiama i Venti, e ratto scendi 
Lì ’vc si neghittoso il Troian duco 
Bada in Cartago, e T destinato impero 
Non gradisce e non cura; c ciò gli annunzia 
Da parte mia: che Venere sua madre 
Non per tal lo mi diede, c che a tal fine 
Non è sialo per lei da l'armi Greche 
Già due volle scampato. Ella promise 
Ch’ei sarebbe alto a sostener gl'imperi, 

E le guerre d'Italia, a trar qua suso 
La progenie di Teucro, a porre il freno, 

A dar le leggi al mondo. A ciò Be'l pregio 
Di si gran cose c de la gloria slessa 
Non muove lui, perchè non guarda al Aglio? 
Perchè di tanta sua grandezza il froda, 

Di quanto fian Lavinio ed Alba c Roma 
Nc’secoli a venire? E con che speme, 

Con che disegno in Libia fa dimora? 

E co'ncmici suoi? Navighi in somma. 

Questo digli in mio nome. 

Ddito ch’ebbe 

Mercurio, ad eseguir tosto s'accinse 
I precetti del padre; c prima a’piedi 
I talari adaltossi. Ali son queste 



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LIBRO QUARTO 



77 



Tum virgam capii ; hac animai illc evocai Orco 
rallenti^, alias sub Tartara (ristia mitlit. 

Dal somnos adimilquc, et lumina morte resignal; 
Dia frclus agii ventos, et turbida tranat 
Nubile, lamque Tolans apicem et lalera ardua cernii 
Atlanlis duri, coelum qui vertice fulcil, 

Allanlìs, cinclum assidue cui nubibus alris 
Piniferum caput et vento pulsatur et imbri ; 

Nu humeros infusa tegit : tum Rumina mento 
Praccipilanl scnis, et gtacie riget horrìda barba. 

Hic primum paribus nitcns Cyllenius alis 
Conslitil : bine loto praeceps se corpore ad undas 
Misil, avi similis, quae circum liloro, circum 
Piscosos scopulos, humilis volai aequora iuita. 
[Haud aliler lerras inter coelumque volabat, 

Litui arenosum ad Libyae, ventosque sccabat, 
Materno venicns ab avo, Cyllenia proles.] 

Ut primum aialis tetigit magalia planlis, 

Aeneam fundanlcm arces ac teda novanlem 
Conspicit : atque illi stellalus iaspide fulva 
Ensis erat, Tyrioque ardebat murice laena, 

Demissa ex humeris; dives quae muncra Dido 
Feccral, et tenui lelas discreverat auro. 

Continuo invadi! : Tu nunc Carthaginis altae 
Fundamcnla locai, pulcliramque uxorius urbcm 
Evstruis, ben regni rerumque oblile tuarum ? 

Ipse deùm libi me darò demittit Olympo 
liegnator, coelum et terras qui numine lorqucl ; 
Ipse haec ferro iubet celcrcs mandata per auras : 
Quid slruis ? aut qua ape Libycis teris olia terris 7 
Si le nulla moicl lantanio) gloria rerum, 

Ncc super ipse tua moliris laude laborem, 

Ascanium surgentem, et spes heredis luti 
Itespice, cui regnum Italiae Romanaque tellus 
Debentur. Tali Cyllenius ore locutus 
Mortales visus medio sermone reliquie 
Et procul in lemiem ei oculis cvanuil auram. 



Al vero Aeneas adspectu obmuluit amens, 
Arreclaeque liorrore comae, et vox faucibus haesil. 
Ardet abirc fuga, dulccsque relinqucre lerras, 
Attonilus tanto monitu impcrioquc deorum. 

Heu quid agat 7 Quo nunc reginam ambire furenlem 

Vischio vol. eneo. 



Con penne d'oro, ond - ci l'aria trattando, 
Sostenuto da’ Venti, ovunque il corso 
Volga, o sopra la terra, o sopra *1 mare. 

Va per Io ciel rapidamente a volo. 

Indi prende la verga, ond' ha possania 
Fin ne l'inferno, onde richiama in vita 
L'anime spente, ondo le vive adduce 
Nc l'imo abisso, e dà sonno e vigilia, 

E vita e morte: aduna e sparge i Venti, 

E trapassa le nubi. Era volando 
Ciunlo là 've d'Atlante il capo e T Ranco 
Scorgca, de le cui spalle il cielo 6 soma: 

D' Atlante, la cui lesta irta di pini, 

Di nubi involta, a piogge, a venti, a nembi 
È sempre esposta; il cui mento, il cui dorso, 
E per nevi e per gel canuto c gobbo, 

F. da Dumi rigato. In questo monte, 

Clic fu padre di Maia, avo di lui. 
Primamente fcrmossi. Indi calando 
Si gittò sovra Fonde, c lungo il lilo 
Di Libia se n'andò l'auro secando 
In quella guisa che marino augello 
D’ un’ alta ripa, a nuova pesca inteso, 

Terra terra scn va tra rive e scogli 
Umilmente volando. Appena giunto 
Era in Carlago, che d'avanti Enea 
Si vide, intento a dar siti e disegni 
A i superbi cdiRcii. Avca dal manco 
Lato una storta, di diaspro c d'oro 
(ìuarnila, e di stellate gemme adorna. 

Dal tergo gli pendea di Tiria ardente 
Porpora un ricco manto, arnesi c doni 
De la sua Dido, che ella stessa intesta 
Avca la tela, c ricamali i fregi. 

Nè 7 vide pria, che gii fu sopra, c disse: 

Tu te ne stai si neghittosamente. 

Enea, servo d'amor. ligio di donna, 

A fondar l'altrui regno, c il tuo non curi? 

A te mi manda ii rcgnalor celeste, 

Che io li dica in sua vece: Or che pensiero. 
Che studio è il tuo? Con die spcrania indugi 
In queste parli? Se 'I tuo proprio onore. 

Se la propria grandexza non ti spinge: 

Chè non miri a'tuoi posteri, al destino, 

A la speranta del tuo figlio luto, 

A cui si deve ii glorioso impero 
De l'Italia e di Roma? E più non disse, 

Nè più risposta attese; anzi dicendo, 

Uscio d'umana forma, c dileguossi. 

Stupì, si raggricciò, tremante e fioco 
Divenne il Troian duce, il gran precetto 
E chi ’l portava, e chi ’l mandava udendo; 

Già pensa di ritrarsi. Ma che modo 
Terrà con Dido ad impetrar commiato? 

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18 



DELL' ENEIDE 



Audeal a (Tatù ? quae prima exordia sumat ? 

Alquc animum nunc Ime cclerem, nunc dividii illuc. 
In parlesque rapii vorias, perque omnia versoi, 
llacc allernanti polior senlcntia viso est : 

Mneslhea Scrgcslumque vocal rorlemque Cloanllium : 
Classem aplcnl tacili, sociosquc ad lilora cogant, 
Arma parcnt, el quae sii rebus caussa novandis, 
Dissimulenl : sese inlerea, quando oplima Dido 
Nesciat, et lantos rumpi non spcrel amores, 
Tentalurum adilus, el quae mollissima fandi 
Tempora, quis rebus dexter modus. Ocius omnes 
Imperio laeli pareti!, ac iussa faccssunt. 



Al regina dolos ( quis fallerò possit amantem ? ) 
Praesensit, molusque excepit prima fuluros. 

Omnia luta timens. Eadem impia Fama furcnli 
Dctulil, armari classem, cursumquc parati. 

Saevil inops animi, totamque incensa per urbem 
Banchaliir : qualis commotis excila sacris 
Thyias, ubi andito slimulanl triclerica Barello 
Orgia, nocturnusque vocal clamore Cithacron. 
Tandem bis Aencan compcllat vocibus ullro : 



( 



Dissimulare cliam sperasti, perfide, tantum 
Posse n$fas, lacilusquc mea decedere terra ? 

Ncc le nosler amor, nec le data devierà quondam, 

Ncc moritura tenel crudeli funere Dido ? 

Quin ctiam Inberno moliris siderc classem, 

Et mediis properas Àquilonibus ire per altum, 

Crudelis ? Quid ? si non arva aliena domosque 
Ignotas pcleres, el Troia antiqua maneret, 

Troia per undosum petcrclur classibus aequor? 

Mene fugis? Per ego has lacrimas dextramque tuam te, 
Quando aliud milii iam miserae nihil ipsa reliqui, 

Per connubia nostra, per Inceptos Hymenacos, 

Si bene quid de le tuerui, fuil aul (ibi quidquam 
Dulce meum : miserere domus labentis, et islam, 

Oro, si quis adhuc precibus focus, cxue mcntem. 

Te propter Libycac genics Nomadumque lyranni 
Odere; infensi Tyrii; te propter eundem 



Con quai parole assalirà, con quali 
Disporrà mai la furiosa amante? 

Pensa, volge, rivolge; in un momento, 

Or questo , or quel parlilo , or tulli insieme 
Va discorrendo; ed ora ad un s’appiglia, 

Ed ora all'altro. Si risolve al line: 

E fatto a sè venir Mnestco, Sergesto, 

E Tardilo Cloanto: Andate, disse, 

Itaunalc i compagni. Itene al porto; 

E con bel modo chetamente l'arme 
Apprestate e Tarmala, c non mostrale 
Segno di novità, nè di partenza. 

Intanto io troverò loco opportuno, 

E tempo accomodalo, c destro modo 
D’ottener da quesl'otlima regina, 

Che da lei con dolcezza mi diparta, 

Nulla sapendo ancor di mia partita, 

Nè sperando tal Unc a tanto amore. 

A l'ordine d'Enea lieti i compagni 
Obbedir (ulti; e prestamente in punto 
Fu ciò che impose. 

Ma Didon del trailo 
Tosto s’avvide : e clic non vede amore ? 

Ella pria se n'accorse ; ch’ogni cosa 
Tcmea, benché sccura. E già la stessa 
Fama importunamente le rapporta 
Armarsi i legni, esser i Teucri accinti 
A navigare. Onde d’amore e d'ira 
Accesa, infuriala, e fuori uscita 
Di sè medesma, imperversando scorre 
Per lulla la città. Quale ai nollumi 
('•ridi di Cilcron Tiiade, allora 
Che il Iricnnal di Bacco si rinnova, 

Nel suo moto maggior si scaglia e freme, 

E scapigliala e fiera attraversando, 

E mugolando al monte si conduce ; 

Tal era Dido, e da (al furia spinta 
Enea da sè con tai parole assalse : 

Ah perfido 1 Celar dunque sperasti 
Una tal (radigione, e di nascosto 
Partir da la mia terra ? E del mio amore, 

De la tua data fè, di quella morte 
Che ne farà la sfortunata Dido, 

Punto non li sovviene, c non li cale ? 

Forse che non li arrischi in mezzo al verno 
Tra' piò fieri Aquiloni a Tonde esporti ? 
Crudele ! Or clic faresti, se straniere 
Non li fosser le terre, ignoti i lochi 
Che tu procuri ? E che faresti, quando 
Fosse ancor Troia in piede ? A Troia andresti 
Di questi tempi ? E me lasci, c me fuggi? 
Deh ! per queste mie lagrime, per quello 
Che lu de la luo fè pegno mi desti, 

(Poiché a Dido infelice altro non resta 
Che a sè tolto non aggia ) per lo nostro 



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LIBRO QUARTO 



Exslinclus pudor, cl, qua sola sidera adibam. 

Fama prior. Cui mo moribundam descris, hospes? 
Hocsolum nomen quoniam de coniuge restai. 

Quid moror? au, mea Pygmalion dum muenia fraler 
Destruat, aul captam duca! Gaciulus lorbas? 

Sallcin si qua milii de le suscepta fuisscl 
Àule fugam suboles, si quis mìlii parvulus aula 
Luderel Acneas, qui le lamen ore refernt, 

Non equidem oninino capta ac deserta vidercr. 



Diicral. Ille \o\is monitis immota tenebat 
Lumina, et obnixus curam sub corde premebat. 
Tandem pauca refert : Ego le, quae plurima laudo 
Enumerare vale», nunquam, regina, negabo 
Promcritam; nec me meminisse pigebil Elissae, 

Dum memor ipsc mei, dum spirilus hos regit arlus. 
Pro re pauca ioquar. Neque ego hanc abscondere furto 
Speravi, ne finge, fugam, nec coniugis unquam 
Practcndi taedas, aul hacc in foedera veni. 

Me si fata meis paterenlur ducere vitam 
Auspiciis, et sponte mea compoucre curas, 

Urbem Troianam primum dulccsquc meorum 
Relliquias colercm; Priami teda alta manerent, 

Et recidiva manu posuissem Pcrgama viclis. 

Sed nunc Italiani magnani Gryneus Apollo, 

Italiani Lyciae iusserc capessero sorte?. 

Hic amor, haec patria est. Si le Carlhaginis arces, 
Pbocnissam, Libycaequc adspectus delinei urbis, 

Quae tandem, Ausonia Teucros considere terra, 

Invidia est? Et nos fas estera quaerere regna. 

Me palris Anchisae, quoties humentibus umbris 
Noi opcril tcrras, quoties astra ignea surgunt, 

Admonet in somnis et lurbida terrei imago; 

Me puer Ascanius, capilisquc iniuria cari, 

Qucm regno llesperiae fraudo et fatalibus arvis. 

Nunc ctiam interpres divùm, love missus ab ipso, 
(Tcslor ulrumquc caput) celercs mandata per auras 
Detuli t. Ipse deùm manifesto in lumine vidi 
Intrantcm rouros, voccmquc bis auribus hausi. 



Maritai nodo, per l'imprese nozze, 

Per quanto li fei mai, se mai li fei 
Comodo, o grazia alcuna, o s’alcun dolce 
Avesti unqua da me, ti priego ch'abbi 
Pietà del dolor mio, de la rùina 
Che di ciò m'avverrebbe ; c ( se più luogo 
Ilun le preci con te ) che tu del tutto 
Lasci questo pensiero. Io per te sono 
In odio a Libia tutta, a' suoi tiranni, 

A' miei Tirii, a me stessa. Ho già macchialo 
La pudicizia ; e ( quel che più mi duole ) 

Ilo perduta la fama, ond' io pur dianzi 
Sorvolava le stelle. Or come in preda 
Sola a morte mi lasci, ospite mio ? 

Clf ospite sol mi resta di chiamarli, 

Di marito che m'eri. E perchè deggio, 

Lassa vivere io più ? Per veder forse 
Clic '1 mio fratei Pigmalìon distrugga 
Queste mie mura, o 'I tuo rivale Iarba 
In servitù m'adduca ? Almeno avanti 
La tua parlila avess'io fallo acquisto 
D'un pargoletto Enea che per le sale 
Mi scherzasse d'intorno, e solo il volto, 

E non altro, di te sembianza avesse ; 
Ch’esscr non mi parrebbe abbandonata, 

Nè delusa del tutto. 

A lai parole 

Enea di Giove al gran precetto affisso 
Tcnca il pensiero c gli occhi immoti e saldi, 
E brevemente le rispose al fine : 

Regina, e* non fia mai ch'io non mi tenga 
Doverti quanto forse unqua potessi 
Rimproverarmi. E non fia mai clic Elissa 
Non mi ricordi infin che ricordanza 
Avrò di me medesmo, c che il mio spirto 
Reggerà queste membra. Ora in discarco 
Di me dirò sol questo, che sperato 
Nè pensato ho pur mai d'allontanarmi 
Da le ( come tu dj’ ) furtivamente ; 

Nè d’esscrli marito anco pretendo , 

Clf unqua di maritaggio, o di soggiorno 
Tcco non palleggiai. Se il mio destino 
Fosse che la mia vita, e i mici pensieri 
A mia voglia reggessi, a Troia in prima 
Farei ritorno : raccorrei le dolci 
Sue disperse reliquie ; a la mia patria 
Di novo renderci la vita c i figli, 

E la reggia e le torri e me con loro. 

Ma ne l'Italia il mio Fato mi chiama. 

Italia Apollo in Deio, in Licia, ovunque 
Vado o mando a spiarne, mi promette. 
Qucsl'è l’amor, qucsl'è la patria mia. 

Se tu, che di Fenicia sei venuta, 

Siedi in Cartago, c li diletti c godi 
Del tuo Libico regno, qual divido, 



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80 



DELL’ ENEIDE 



Desine mc<iue luis incendere Icquc querclis; 
Italiani non sponic sequor. 



Tulia diccnlcm iamdudum aversa tuetur, 

Iluc illue votvens oculos, tolumque pcrerrot 
Luminibus lacilis; el sic accensa profatnr: 

Nec libi dira parens, generis nec Dardanus auclor, 
Perfide; sed duris genuil le caulibus horrcns 
Caucasus, llyrcanaeque admorunl ubera ligrcs. 

Nam quid dissimulo? aut quae me ad maiora reservo? 
Num flctu ingommi nostro? num liniina flciil? 

Num lacrimas virtù» dedil, aul miscralus amanlem est? 
Quac quibus anlcferam? Luti iam ncc maiima luno, 
Nec Saturnius haec oculis paler ad'picil acquis. 
Nusquam luta fldes. Eicclum litore, egeniem 
Excepi, el regni demens in parte locavi; 

Amissam classem, socios a morte reduxi; 

(lleu furiis incensa Perori) nunc augur Apollo, 

Nunc Lyciao sorles, nunc el love missus ab ipso 
Intcrpres divùm ferì (torrida iussa per auras. 

Scilicet i i supcris labor est, ea cura quietos 
Solliciiat. Nequc te (eneo, neque dieta refello. 

I, sequerc Italiani venlis, peto regna per undas. 

Spero cqnidcm mediis, si quid pia numina possunl, 
Supplici» hausurum scopulis, et nomine Dido 
Saepe vocalurum. Sequar alris ignibus abscns. 

Et, quum frigida mors anima seduxerit orlus, 

Omnibus umbra locis adoro. Dabis, improbe, poenas; 
Audiam, et liaec Mane* veniet niilii fama sub imos. 

His medium dictis scrmonem abrumpit, et auras 
Aegra fugil, seque ex oculis averli! et aufert, 

Linquens multa melu cunclanlem et multa paraotem 
Diccrc. Suscipiunt famulae, collapsaque membra 
Marmoreo rcferunl limiamo, stralisquc reponunt. 



Qual invidia è la tua, die i mici Troiani 
Prendano Ausonia ? Non lece anco a noi 
Cercar de’ regni esterni ? E non copre ombra 
La terra mai, non mai sorgon le stelle 
Che del mio padre una turbata imago 
Non reggia in sogno, c clic di ciò ricordo 
Non mi porga e spavento. A tulle l'oro 
Del mio figlio sovviemmi, c de l'ingiuria 
Che riceve da me si caro pegno, 

Se del regno d'Italia io lo defraudo, 

Che gli son padre, quando il Fato e Giove 
Ne ’l privilegia. E pur diami mi venne 
Dal ciel mandalo il inessaggier celeste 
A portarmi di ciò nuova imbasciata 
Del gran re degli dei. Donna, io ti giuro 
Per la lor deità, per la salute 
D ambedue noi, che con quesl'occhi il vidi 
Qui dentro in chiaro lume ; c la sua voce 
Con qucsl’orccchi udii. Rimanti adunque 
Di piò dolerti ; e con le tue querele 
Nè le, nè me più conturbare. Italia 
Non a mia voglia io seguo. E più non disse. 

Ella, mentre dicea, crucciata e torva 
Lo rimirava, e volgca gli occhi intorno 
Sema far motto. Al fin, da sdegno vinta, 

Cosi proruppe : Tu, perfido, tu 
Sei di Venere nato ? Tu del sangue 
Di Dardano ? non già ; clic l'aspro rupi 
Ti produsser di Caucaso, e l'Ircane 
Tigri ti fur nutrici. A clic tacere ? 

Il simular che giova ? E clic di meglio 
Ne ritrarrci ? Forse eh’ a’ miei lamenti 
Ila mai questo crudel tratto un sospiro, 

0 gittata una lagrima, o pur mostro 
Alto o segno d’amore, o di pleiade ? 

Di che prima mi dolgo ? di che poi ? 

Ah 1 che nè Giu no ornai, nè Giove stesso 
Cura di noi ; nè con giust’occhi mira 
Più l’oprc nostre. OC è quaggiù più fede ? 

E chi più la mantiene ? Era costui 
Diami nel lilo mio naufrago, errante, 
Mendico. Io Tho raccolto, io gli ho ridotti 

1 suoi compagni, i suoi navigli insieme, 
Ch’eran morti e dispersi ; ed io l’ho messo 
( Folle 1 ) a parte con me del regno mio, 

E di me stessa. Ahi da furor, da foco 
Rapir mi sento f Ora it profeta Apollo, 

Or le sorti di Licia, ora un araldo, 

Che dal ciel gli si manda, a gran faccende 
Quinci lo chiama. Un gran pensiero han certo 
Di ciò gli dei. D'un gran travaglio è questo 
A lor quiete. Or va* , che per Innanzi 
Più non li tengo, e più non ti contrasto. 

Va pur, segui l'Italia, acquista i regni 
Che ti dan Tonde e i venti. Ma se i numi 



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LlIiliO QUARTO 



81 



Al pius Aencas, quamquam lenire dolcntcm 
Solando cupi!, cl diclis avertere curas, 

Multa gemens, maguoque animum labefaclus amore, 
lussa tamen dlvfim ezscquilur, classemque revisit. 

Tura vero Teucri incumbunl, et lilore cclsas 
lleducunt loto naves. Natat uncta carina; 
Frondentesque ferunt remos et robora silvia 
Inebricela, fogne studio. 

Migrantcs cerna», totaque ca urbe ruentes, 

Ac veluli ingentem formicae farris accrvum 
Quum populant , hiemis memorcs, leeloque reponunt: 
It nigrum compia agmen, praedamque per lierbas 
Conveclant calle angusto; pars grandia trudunt 
Obnìzae frumenta liumeris; pars agmina cogunt, 
Castiganlque moras; opere omnis semila fervei. 

Quis libi nunc, Dido, cernenti lalia sensusl 
Quosve dabas gemitus, quum lilora fervere late 
Prospiceres arce cv summa, lolumquo videres 
Misceri ante ocuios lanlis ciamoribus acquorl 
Improbe amor, quid non mortalia pectora cogisl 
Ire iterum in lacrimas, iterum tentare precando 
Cogilur, et supplex animus submiltcrc amori. 

Ne quid inexpertum frustra moritura relinquat. 



Anna, vides loto propcrari lilore; circum 
Undiquc convellere; vocal iam carbasus aura», 



Son pietosi, c se ponno, io spero ancoro 
Che da' venti c da l'onde e da gli scogli 
N'avrai degno castigo ; e che più volte 
Chiamerai Dido, che lontana ancora 
Co’ neri fuochi suoi ti Ha presente : 

E tosto che di morte il freddo gelo 
t.'anima dal mio corpo airi disgiunta, 

Passo non moverai, che l’ombra mia 
Non ti sia intorno. Avrai, crudele, avrai 
Ricompensa a' tuoi merli, e ne l'inferno 
Tosto me ne verri lieta novella. 

Qui T suo dire interruppe ; e lui per tema 
Confuso e molto a replicarle inteso 
Lasciando, con disdegno e con angoscia 
Gli si tolse davanti. Incontanente 
Le fur l’ancelle intorno ; e sìcrom’era 
Egra e dolente, entro al suo ricco albergo 
Le dicr sovra le piume agio e riposo. 

Enea, quantunque pio, quantunque afflitto, 
E d’amore infiammalo, e di desire 
Di consolar la dolorosa amante, 

Nel suo core ostinossi. E fermo e saldo 
D’obbedire a gli dei fatto pensiero. 

Colossi al mare, e 1 suoi legni rivide. 

Allor furo in un tempo unti e rispinti 
E posti in acqua ; e per la fretta remi 
Diventarono i rami che dal bosco 
Si portavano allor frondosi e roui. 

Era a veder da la ciltade al porto 
De’ Teucri, de le ciurme, e de le robe 
Ch'ai mar si conducean, pieno il sentiero, 
Qual è, quando le provvide formiche 
De le lor vernarecce vettovaglie 
Pensose e procaccevoli si dènno 
A depredar di biade un grande acervo, 

Che va dal monte ai ripostigli loro 
La negra torma, e per angusta e lunga 
Semita le campagne attraversando, 

Altre al carreggio Intese o lo s'addossano, 

0 traendo, o spingendo lo conducono ; 

Altre tengon le schiere unite, ed altre 
Casligan l'infingardo ; e tutte insieme 
Pan clic tutta la via brulica e ferve. 

Che cor, misera Dido, che lamenti 
Erano allora i tuoi, quando da l'alto 
Un tal moto scorgevi, e tanti gridi 
Ne sentivi dal mare ? Iniquo Amore, 

Che non puoi tu ne' petti de' mortali ? 

Elia di nuovo al pianto, a le preghiere, 

A sottoporsi a l'amoroso giogo 

Da la tua fona è suo mal grado astretta. 

Ma per fare ogni schermo, anzi che muoia, 

La sorella chiamando : 

Anna, le disse, 

Tu vedi che s'affrettano e sen vanno. 



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DELL* ENEIDE 



Puppibus et laeli nautne impostore coronas. 

Uunc ego si potili tantum sperare dolorem, 

Et perferrc, soror, poterò. Misera e Ime lanieri unum 
Exsequerc, Anna, milii (solam nam pcrlidus ilio 
Te colere, arcanos cliam libi credere sonsus; 

Sola viri molles aditus et tempora noras ); 

I, soror, alque hosicm supplex affare superbum : 
Non ego cum Danais Troianam cxscinderc gcnlcm 
Aulide itimi, classcmvc ad Pcrgama misi; 

Ncc patris Anchisae cimrcra Mancsve rovelli. 

Cur mea dieta negai duras dcmdtcre in aure*? 

Quo ruil? Extremum hoc miserae del munus amanti 
Exspcclel facilcmquc lugani, vcnlosque ferente*. 
Non iam coniugium anliquum, quod prodidii, oro, 
Ncc pulchro ut Lalio corcai, regnumque relinquat: 
Tcmpus inane pelo, requiem spaliumque furori, 
Dum mea me viclam doceat fortuna dolere. 
Eitrcmam liane oro veniam; misererò sororis; 

Quam milii quum dederis, cumulata sorte remitlam. 



Talibus orabat; lalesque miseri ima (Ictus 
Ferlque refcrlquc soror. Sed nullis ilio inou lur 
Fletibus, aut voccs alias traclabilis audii; 

Futa obslant, placidasquc viri deus obslruil aurcs. 
Ac vcluli annoso validam quum roborc quercum 
Alpini Borcac mine bine nunc flatibus illinc 
Eruere inicr se certant; il slridor, et alle 
Conslcrnunt tcrram concusso stipile frondes : 

Ipsa haeret scopulis, et, quaulum vertice ad auras 
Aethcrias, tanlum radice in Tartara tendil: 

Ilaud secus assidui* bine alque bine vocibus heros 
Tuudilur, et magno persenlit pectore curas: 

Mens immola manet: lacrimac volvuntur inanes. 



Vedi già loro in su la spiaggia accolli, 

Le vele in allo, c le corone in poppa. 

Sorella mia, s'avessi un tal dolore 
Antiveder potuto, io potrei forse 
Anco soffrirlo. Or questo solo affanno 
Prendi per la tua misera Crocchia. 

Poiché te sola quel crudele ascolta, 

E sol di te si Oda, e i lochi c i tempi 
Sai d’esser seco, c di trattar con lui ; 

Trova questo superbo mio nimico, 

E supplichevolmente gli favella. 

Digli che Dido io sono, e clic non fui 
In Aulide co* Greci a far congiura 
Contro a' Troiani, c clic di Troia a' danni 
Nè i miei legni mandai, nè le mie genti. 
Digli clic nè le ceneri, nè 1* ombre 
Nè del suo padre mai, nè d' altri suoi 
Non violai. Qual dunque, o mio demerlo, 

0 sua durezza, fa eh* ei non ascolti 
Il mio dire, e me fugga, c sè precipiti ? 
Chiedigli per mercè de T amor mio, 

Per salvezza di lui, per la mia vita, 

Che indugi il suo partir tanto che ’l mare 
Sia più sicuro, e più propizii i venti. 

Nè più del maritaggio io lo richieggio, 

Ch* ha già tradito, nè vo' più che manchi 
Del suo bel Lazio, o i suoi regni non curi. 
Un picciol tempo, d'ogni obbligo sciolto 
lo gli dimando, c tanto o di quiete, 

0 d'intervallo al mio cieco furore, 

Clic in parte il duol disacerbando, impari 
A men dolermi. Questo è 'I dono estremo 
Che da lui per tuo mezzo agogna e brama 
Questa tua miserabile sorella ; 

E se tu lo m' impetri, altro che morte 
Forza non avrà mai eli* io me n’ obli). 

Queste c tali altre cose ella piangendo 
Dicca con Anna, ed Anna al Frigio duce 
Disse, ridisse, e riportò più volte 
Or da l' una, or da V altro, e tutte invano ; 
Chè nè pianti, nè preci, nè querele 
Punto lo muovon più. Gli ostano i Fati, 

E solo in ciò gli ha Dio chiuse l' orecchie 
Benché dolce e trattabile e benigno 
Fusse nel resto. Come annosa e valida 
Quercia che sia ne I* Alpi esposta a Borea, 

S’ or da Y uno, or da V altro de' suoi turbini 
È combattuta, si scontorce e tituba, 

Stridono i rami e ’l suol di frondi spargesi, 

E ’l tronco al monte infìsso immolo e solido 
Se ne sla sempre; c quanto sorge a r aura 
Con la sua cima, tanto in giù stendendosi 
Se ne va con le barbe inflno a gl’ inferi ; 

Cosi da preci, e da querele assidue 
Battuto duolsi il gran Troiano ed angesi, 



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LIBRO QUARTO 



83 



Tuoi vero mieli x falis exlcrrila Dillo 
Morteli) orai; lacdcl codi convola luorì. 

Quo magia inceptum poragal, luoemque relinqual, 
Vidil, turicromis quum dona imponercl aria, 

( Horrcndum diclu ) lalices nigrescere sacros, 
Fusaquc in obsccnum se vertere vina cruorem. 

Hoc visum nulli, non ipsi oliala sorori. 

Praelerea fuit in leclis de marmore templum 
Coniugi* anliqui, miro quod honoro colebai, 
Velloribus niveis el fesla fronde rcvinclum. 

Hinc exaudiri voces et verba vocantis 
Visa viri, noi quum lerras obsoura tenerci; 

Solaque culminibus ferali Carmine bubo 
Saepc queri, et longas in flclum ducere voces. 
Mullaqoe praelerea vatum praedicla piorura 
Terribili monitu horrificant. Agii ipse furenlem 
In somnis ferus Aeneas; semperque relinqui 
Sola sibi, semper longam incomilata yidclur 
Ire viam, et Tyrios deserta quaererc terra: 
Eumcnidum veluti demens videi agmina Penthi'iis, 

Et solem geminum, et duplices se ostendere Tltebas; 
Aut Agamemnonius scenis agilalus Oresles, 

Armatam facibus malrem el serpenlibtts atri* 

Quum fugit, ullriccsquc sedcnl in limine Dirac. 



Ergo ubi concepii furias, evicla dolore, 
Decrcvitque mori, tempns sccum ipsa medumque 
Eiigit, et, moestam diclis aggressa sororem, 
Consilium vullu tegit, ac spem fronte serenai: 
Inveiti, germana, viam, gratarc sorori, 

Quae milti reddat euro, vcl eo me solval amanlem. 
Oceani finent iuxla solemque cadenlem 
Ullimus Aclhiopum locus est, ubi maiimtts Alias 
Avem humero lorquet, stelli* ardenlibus aplum. 
Hinc milti Massylae genti* monstrala sacerdos, 
Ilesperidum templi cuslos, epulasque draconi 
Quae dabal, et sacros servabal in arbore ramos, 
Spargens Immilla meda soporiferumque papaver. 
Ila oc se carminibus prnmitlit solverc mentes, 

Quas veli!, est aliis duras intmillere curas; 



E con la mente In sé raccolta e rigida 
Gilla indento per lei sospiri e lagrime. 

La sfortunata Dido, poiché tronca 
Si vide ogni speranza, spaventata 
Dal suo fato, e di sè schiva e del sole, 

Disiò di morire; e gran portenti 
Di ciò presagio, e fretta anco le fero. 

Ella, mentre a gli altari incensi c doni 
OHria devota ( orribil cosa a dire ! ), 

Vide davanti sè con gli occhi suoi 
Parsi lurido e negro ogni liquore, 

E 'I puro vin cangiarsi in tetro sangue : 

E T vide, e 'I tacque, e 'tifino a la sorella 
Lo tenne ascoso. Entro al suo regio albergo 
Avca di marmo un bel delubro cretto, 

E dedicato al suo marito antico. 

Questo con mollo studio, e moli' onore 
Fu mai sempre da lei di bianchi velli, 

E di festiva fronde ornato e cinto. 

Quinci notturne voci udir te parvo 
Del suo caro Siclico che la chiamasse; 

E nel suo letto un solitario gufo 
Molte fiate con lugubri accenti 
Fe' di pianto una lunga querimonia. 

Oltre a ciò, da P antiche profezie, 

Da pronostiei orrendi e spaventosi 
De la vicina morte era ammonita. 

Vcdcsi Enea tutte le notti avanti 
Con fera imago, che turbala c mesta 
La tenea sempre. Le parca da lutti 
Restare abbandonata, c per un lungo 
F. deserto cammino andar solinga 
De' suoi Tirii cercando. In colai guisa 
Le schiere de l’ Eumcnidi vedea 
Pénleo forsennato, e doppio il Solo 
E doppia Tebe. In colai guisa Oreste 
Per le scene imperversa, e furioso 
Vede, fuggendo, la sua madre armala 
Di serpenti e di Taci, e n su le porte 
Le Furie ullrici. 

Or poi che la meschina 
Fu da tanto furor, da tanto affanno 
Oppressa c vinta, e di morir disposta, 

Divisò fra sè stessa il tempo e 'I modo; 

Ed Anna, si com' era afflitta e mesta, 

A sè chiamando, il suo fiero consiglio 
Celò nel core, c nel sereno volto 
Spiegò gioia c speranza: Anna, dicendo, 
Rallègrati con me, che al On trovato 
Ho com' io debba o racquistar quell' empio, 
0 ritormi da lui. Nel lito estremo 
De P Oceén, là dove il Sol si corca, 

De l’ Etiopia a l'ultimo confino, 

E presso a dove Atlante il elei sostiene, 
Giace un paese, ond' ora è qui venuta 



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8 * 



DELL’ ENEIDE 



Sislcrc aquam fluviis, cl vertere sidera retro ; 
Noclumosquc cicl Mancs ; mugire videbis 
Sub pedibus terram, cl descendcre monlibus omos. 
Testar, cara, dcos, et te, germana, luumquo 
Dulcc caput, magicas invilam accingicr arles. 

Tu secreta pyram ledo interiore sub auras 
Erìge; et arma viri, limiamo quae Dia reliquit 
Impili», ciuviasque omnes, lectumquc iugalem, 

Quo perii, superimponas. Abolere nefandi 
Cuncla viri monumenta iubel monslralquc saccrdos. 
llaec elfata siici; pai lor simul occupai ora. 

Non lameu Anna novis precidere funera sacris 
Gcrmanam credit, nec tantos mente furorcs 
Concipil, aul graviora timel, quam morte Sycbaei. 
Ergo iussa parai. 



Al regina, pyra penetrali in sede sub auras 
Erecla ingenti laedis alque ilice seda, 

Intendilque locum serti», et fronde coronai 
Funerea; super exuvias, cnsemque relictum, 
Effigiemque loro locai, haud ignara futuri. 

Slanl arac circum, et crine» effusa saccrdos 
Ter centum tonat ore deos. Erobumque, Chaosqtie, 
Tergeminamque Ilecaten, Irta virginia ora Dianae. 
Sparscrat et latices simulalos fonti» Averni; 

Falcibus et messae ad lunam quacruntur aènis 
Pubenlcs herbae, nigri cum lacle veneni; 

Quaeritur et nascenlis equi de fronte revulsus 
Et mairi praereplus amor. 

Ipsa mola manibusque piis altana iurta , 

Unum cinta pedem vinclis, in veste recincla, 
Testalur moritura deos, et conscia tali 
Sidera; tum, si quod non aequo foedere amante» 
Curae numen habet iuslumque memorque, precalur. 



Una sacerdotessa incantatrice 
Che, Messila di gente, è stata poi 
Del tempio de l' Esperidi ministra, 

E del drago nudrice, c de le pianto 
Del pomo d' oro guardiana un tempo. 
Questa, d' umido mele e d' obbliosi 
Papaveri composto un suo miscuglio, 
Promette con parole e con mallo 
Altri scior da l’ amore, aliti legare, 

Com' a lei piace, distornare I fiumi, 

Ritrar le stelle, e convocar per fona 
Le notturne fanlasme. Udrai la terra 
Mugghiar sotto a" tuoi piè. Vedrai da’ monti 
Calar gli orni c le querce. Io per gli dei, 
Per te, per la tua vita a me si rara, 

Ti giuro, suora mìa, clic, mal mio grado, 

M' adduco a questi magici incantesimi 
Ma gran fona mi spinge. Or va’ , sorella; 
Scegli per entro a le mie stame un luogo 
Il più remoto c solo, a l' aura esposto. 

Ivi ergi uno gran pira, e vi conduci 
L’ armi che a la mia camera sospese 
Lasciò quel disleale, e quelle spoglie 
Tulle e quel letto, ov’ io, lassa I perii; 

In somma ogni suo arnese; chè la maga 
Cosi m’ impone, e vuol eh’ ogni memoria, 
Ogni segno di lui si spenga e pera. 

Cosi dello, si tacque, e di pallore 
Tutla si tinse. Non però a" avvide 
Anna, die sotto a’ nuovi sacriflcii 
Si celasse di lei morto si fera; 

Chè si fero concetto non lo venne, 

E non temè che peggio le avvenisse 
Che in morte di Siclieo. Tosto fé’ dunque 
Quel di’ imposto le fu. 

Falla la pira, 

E d’ ilici e di tede aride c scisse 
Altamente composta, la regina 
D' atre ghirlande c di funeste frondi 
Ornar la fece intorno; indi le spoglie 
E la spada c 1* effigie de l’ amatile 
Sopra a giacer vi pose, ben secura 
Di ciò che n’ avverrebbe. Eran d’ intorno 
Gli altari eretti: era tra lor la maga 
Scapigliata e discinta; e con un tuono 
Di voce formidabile invocava 
Trecento deità, V Èrebo, il Cao, 

Beale con tre forme, e con Ire facce 
La vergine Diana. Area già sparse 
Le Onte acque d’ Averno, e i suffumigi 
Fatti de le nocive erbe novelle 
Clic per punti di luna, e con la falce 
D’ incantalo metallo eran segale. 

Si fe’ venir la maliosa carne 
Che de la fronte al tenero puledro 



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unno QUARTO 



8 .» 



Noi crat, el ptacidum carpebant Tessa soporem 
Corpora pct lerras, silvaeque et saeva quierant 
A equora, quum medio volvuntur sidera lapsu, 

Quum tace! omnis ager, pccudes, piclaeque volucres, 
Quaeque lacus late liquidos, quacque aspi ra dutnis 
Rara tcnenl, sonino posilac sub noclc silenti. 

[ Lenibanl curas, et corda oblila laborum. ] 

At non infelia animi Phocnissa, ncque unquam 
Solvilur in somnos, oculisic aut pectore noclem 
Accipit. Ingeminant curac, rursusque resurgens 
Saevil amor, magnoque irarum llucluat aestu. 

Sic adeo insisti!, secumque ila corde voluta!: 

En, quid ago? rursusne procos irrisa priores 
Eipcriar, Nomadumquc petam connubio supplex, 

Quos ego silfi lolics iam dedignala maritos? 

Iliacas igitur classes alquc ultima TcucrAm 
lussa sequar? quiane ausilio iuvat ante levatos, 

Aut bene apud memores veleria stai gratia facti ? 

Quis me aulem ( Tac velie ) sinel? ralibusve superbis 
Invisam accipicl? Ncscis, lieti perdila I needurn 
Laomcdonleae sentis penuria genlis? 

Quid tum ? sola Tuga naulas comilabor ovanles ? 

An Tvriis omnique manu stipala meorum 
Infcrar, el quos Sidonia rii urbe retclli, 

Rursus again pelago, et ventis dare vela iubebo ? 

Quin morcre, ut merita es, ferroque averle dolorcm. j 
Tu, lacritnls cvicla meis, tu prima furentem 
His, germana, malia onerar, alque obiicis bosli. 

Non liciti! Risiami eipcrlcm sinc crimine vilain 
Dcgerc, more fcrae, lales nec tangere curas I 
Non servata fides, ciucri promissa Sycbaco I 



ViaaiLio voi. etneo. 



Con l' amor de la madre si divelle. 

Essa stessa regina il farro c T sale 
Con le man pie sovr' a gli allori impone, 

E d' un piè scalca, e di tuli' altro sciolta. 
Solo actinia a morir, per testimoni 
Chiama li dei. Protestasi a le stelle 
Del suo falò consorti : e s' alcun nume 
Mira a gli afflitti c sfortunati amanti, 

Questo prega e scongiura clic ragione 
E ricordo ne tenga, c ne gli caglia. 

Era la notte; e già di mezzo il corso 
Cadcan le stelle; onde la terra c T mare, 

Le selve, i monti e le campagne (ulte, 

E tutti gli animali, i bruti, i pesci, 

E i volanti e i serpenti, e ciò clic vive 
Avea da ciò che la lor vita afTanna 
Tregua, silenzio, obblio, sonno e riposo. 
Ma non Dido infelice, a cui la notte 
Nè gli occhi grava, nè T pensiero alleggia; 
Anzi maggior col tramontar del sole 
In lei risorge l’amorosa cura : 

E non mcn che d’ amor, d’ ira avvampando 
Cosi fra sè farnetica e favella : 

E che farò cosi delusa poi ? 

Chi più mi seguirà de' primi amanti ? 
Proferirommi per consorte io slessa 
D’ un Zingaro, d’ un Moro, o d’ un Arabo, 
Quando n' Ito vilipesi e rifiutati 
Tanli e lai, tante volle ? Andrò co’ Teucri 
In su l’ armata ? Mi farò soggetta, 

Di regina eh' io sono, c serva a loro ? 

SI certo, che gran prò fin qui riporlo 
De le mie loro usate cortesie; 

E grado me n’ avranno, c grazia poi. 

Ma ciò dato ch'io voglia, chi permeile 
Ch' io l' eseguisca ? Chi cosi schernita 
Volenlicr mi raccoglie ? Alti sfortunata 
Dido 1 eh' ancor non vedi a che sci giunta, 

E le frode non sai di questa iniqua 
Schiatta di Laomedonle. E poi che fia 
Per questo ? Deggio sola in compagnia 
Di marinari andar femmina errante ? 

0 condur meco i mici Ecnicii ludi 
Con altra armala ? c trarli un’ altra volta 
D' un' altra pairia iu mare in preda a’ venti 
Senz* alcun prò, senza cagione alcuna; 
Quando anco appena di Sidòn gli trassi 
Per ritorti da man d’ empio tiranno ? 

Ah ! muor piò (osto, come degnamente 
Hai meritalo; c pon col ferro fine 
Al luo grave dolore. Ah, mia sorella I 
Tu sci prima cagion di tanto male: 

Tu, «iota dal mio pianto, in quest' angoscia 
M’ hai posta, e data ad un nemico in preda : 
Citò dovea vita solilaria c fera 

12 



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DELL* ENEIDE 



8ti 



Tanlo3 illa suo rumpebal pectore qucslus. 

Acneas celsa in puppi, iam cerlus cundi, 

Carpebat somnos, rebus iam rilc parali*. 

Huic se forma dei, vullu redeuntis eodem, 

Obtulit in somnis, rursusque ita visa moncre est. 
Omnia Mercurio similis, vocemque coloremquc 
Et crine* flavos, cl membra decora iuventae : 

Naie dea, polcs hoc sub casu ducere somnos ? 

Nec, quac te circum fileni deinde pcricula, cernis 
Demcns, nec Zcphyros audis spirare sccundos ? 

Illa dolos dirumque nefas in peclorc versar, 

Certa mori, varioque irarurn (lucluat acslu 
Non fugis lune praeceps, dum praecipilare potestà* ? 
Iam mare turbari trabibus, saevasque videbis 
Colluccre faces, iam fervere litora flammis, 

Si le bis ailigeril tcrris Aurora moranlcm. 

Eia age, rumpe moras. Vorium el mutabile semper 
Femina. Sic fatus noeti se immiscuil alrae. 



Tu ni vero Acneas, subitis exterrilus umbris, 
Compii e sonino corpus, sociosquc fatigai : 
Praecipitcs vigilale, viri, et considite transtris; 

Solvitc vela citi. Deus, aclherc missus ab alto, 
Festinare fugam, tortosque incidere funes, 

Ecce itcrum stimnlat. Sequimur te, sancle deorum, 
Quisquis cs, impcrioquc itcrum paremus ovantes 
Adsis o, placidusque iuves, cl sidera coelo 
Destra feras. Dixit; vnginnque eripit ensem 
Fulminrum, tlricloque ferii rcliuacula ferro. 

Idem omnes siinul ardor habet; rapiuntquc ruuntque, 
Litora descruere; laici sub classibus aequor; 

Armivi torquenl spumas, et caciula vernini. 



El iam prima novo spargebat lumine terras 
Titlioni croceum linquens Aurora cubile. 

Regina e speculis ut primum albescere lucem 
Vidi!, et acqualis rlassem procedere velis, 
Litoraquc et vacuos sensi! sine remige porius, 
Terque qunlcrque manu pectus percussa decorum, 
Flaventesque nh scissa comas: Proli Iupiter I ibil 
Hic, ait, et noslris illuseril advena regnis? 

Non arma expedieol, tolaque ex urbe sequentur, 
Diripienlque ratea alii navalibus? Ile, 

Ferie citi flnmmas; date vela, impellile remos. 



Menar più tosto, che commetter fallo 
Si dannoso c si grave, e romper fede 
Al cencr di Sìchco. 

Questi lamenti 

l'scian del petto a V affannata Dido, 

Quando già di partir fermo c parato 
Enea, per riposar pria che sciogliesse, 

S' era a dormir sopra la poppa agiato. 

Ed ecco un* altra volla in sogno avanti 
Del medesmo celeste messaggero 
Gli appar l’ imago, con quel volto stesso, 
Con quel color, coti quella chioma d’oro 
Con che lo vide pria giovane e bello; 

E da la slessa voce udir gli parve: 

Tu corri, Enea, si gran fortuna, e dormi ? 
Non senti qual li spira aura seconda ? 

Dido cose nefande ordisce ed osa, 

Certa già di morire, e d’ ira accesa 
A dire imprese è vòlta; e tu non fuggi 
Mentre fuggir li lece? A mano a mano 
Di legni travagliar vedrassi il mare , 

Di fochi il lito, e di furor le genti 
Incontra a te, se tu qui 'I giorno aspetti. 

Via di qua tosto : dà le vele a* venti. 
Femmina è cosa mobil per natura, 

E per disdegno impetuosa c fera. 

E qui tacendo entrò nel buio, e sparve. 

Enea, preso da subito spavento, 

Deslossi, e fé’ destar la gente tutta ; 

Via compagni, dicendo; a i banchi, a i remi, 
Ch’or d’altro uopo ne fa che di riposo. 

Fate vela, sciogliete, chè di nuovo 
Precetto ne si fa dal cielo, c fretla. 

Ecco, qual tu ti sia, messo celeste, 

Che il tuo detto seguiamo; e tu benigno 
N’aita, e ’l ciclo e ’l mar ne rendi amico. 

Ciò detto. Il ferro strinse, e fulminando 
Del suo legno la gomena recise. 

Cosi fér gli altri, e col medesmo ardore 
Tutti insieme sciogliendo, traversando, 

E spingendosi in alto, in un momento 
Lasciaro il lito, c 'I mar, da i legni ascoso, 

Si fé* per tanti remi, c tante vele 
Spumoso c bianco. 

Era vermiglio e rancio 
Fallo già de la notte il bruno ammanto, 
Lasciando di Tilón l’Aurora il letto, 

Quando d* un’ alla loggia la regina 
Tulio scoprendo, poi ch a piene vele, 

Vide le Frigie navi irne a dilungo, 

E vóti i liti, e senza ciurma il porlo; 

Contro sè fallo ingiuriosa e fera, 

Il delicato petto c l’aurec chiome 
Si percuolè, si lacerò più volle; 

E'ncontra al ciel rivolta: Ah, Giove, disse, 



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LI RUO QUARTO 



87 



Quid loquor? aul ubi suoi? quac menlem insania mutai? 
lnfeliz Dido I nunc te facta impia tangunt ? 

Tum decuit, quumsceptradabas. — Un dritrafldesque, 
Quem sccum patrios aiunl portare Penales, 

Qucm subiissc humeris conferì Li rn aelote parentem 1 
Non potui abreptum divellere corpus, et undis 
Spargere ? non socios, non ipsum absumerc ferro 
Ascanium, patriisque epulandum poncre monsis ? — 
Veruni auccps puguae fueral fortuna. — Fuisset : 
Quem melui moritura ? Faces in castra tulissem, 
Imptesscmquc foros flammis, natumque palremquc 
Cum genere euliniem, memet super ipsa dedisscm. 
Sol, qui lerrarum flammis opera omnia lustrai, 

Tuquc liarum interpres curarum et conscia lumi, 
Nocturnisque liticale triviis ululala per urbes. 

Et Uirae ullrices, et di morieulis Elissae, 

Accipite baec, merilumque malis advertile numen, 

Et noslras addile preces. Si tangere portus 
Infamimi) caput et terris adnare neccsse est, 

Et sic fata lovis poscunt, bic lerminus barre! : 

At bello audacia populi veiatus et armis, 

Finibus ciiorris, compietti avulsus tuli, 

Auiilium iniplorct, videatque indigna suorum 
Funera; nee, quum se sub leges pacis iniquac 
Tradiderit, regno aul optata luce fruatur, 

Sed cada! ante diem, mediaque inliumalus arena, 
tiare precor; banc vocem cxlremam cum sanguine 

fundo. 

Tum vos, o Tyrii, stirpem et genus omne fulurum 
E.xcrccte odiis, clncrique liaec minile nostro 
Munera. Nullus amor populis, ncc fortiera sunto. 
Esoriare aliquis nostris ex ossibus ullor, 

Qui face Uardanios Terroque sequsrc colonos, 

Nunc, olim. quocunquc dabunl se tempore vires. 
Lilora liloribus contraria, fluclibus undns 
Imprecor, arma armis; pugnent ipsique nepoles. 

Ilare ait, et parlcs enimum versabat in omnes, 

Invisam quaerens qua rii primum abrumperc luccm. 
Tum brevilcr Barcen nulricem affata Sjchaei; 

Namquc suam patria antiqua cinis alcr habebat: 
Annam cara milii nutrii bue siste sororem; 

Die, corpus properet fluviali sporgere Ijmpha, 

Et pccudcs sccum et monstrata piacula ducal; 

Sic venial; tuque ipsa pia lege tempora villa. 

Sacra lovi Slygio, quae lite incepta paravi, 

Perflcrrc est animus, flncmque imponere curis, 
Dardaniiquc roguni capilis pernotterò flammae. 

Sic ait. Illa gradum studio celebrabat anili. 

Al trepida et coeptis immanibui edera Dido, 
Sanguincam volvens aciem, maculisquc Ircmcntcs 
Intcrfusa genas, et pallida morte futura, 

Interiora domus irrumpii limino, et allos 
Couscciidi! furibundo rogos, cnsetnquc reclutili 
Itardanium, non hos quaesilum Humus in usus. 

Ilio, poslquam liiaeas vesles noliimquc cubile 



Dunque pur se n'andrà? Dunque son io 
Falla d'un foresticr ludibrio e scherno 
Nel regno mio? Nè Ha chi prenda Farmi? 

Nè chi lui segua, nè i suoi legni incenda? 

Via loslo a le lor navi, a Farmi, al foco, 

Alano a le vele, a' remi; olire nel mare. 

Clic parlo? 0 dove sono? E clic furore 
È il tuo, Dido infelice? Iniquo fato, 

Misera, li persegue. Allor fu d'uopo 
Ciò ebe tu di', quando di le signore, 

E del luo regno il fcsli. — Ecco la destra, 
Ecco la fede sua. Questi è quel pio 
Clic seco adduce i suoi pairii Penali , 

E 7 vecchio padre a gli omeri s'impose. 

Non polea farlo prendere e sbranarlo? 

E giltarlo nel mare? ancidcr lui 
Con tutti i suoi? dilaniare il figlio, 

E darlo in cibo al padre? — Oh! perigliosa 
Fura siala l'impreso. — E di periglio 
La si fosse, e di morte; in ogni guisa 
Morir dovendo, a clic temere indarno? 

Arsi avrei gli steccali, incesi i legni, 

Ucciso il padre, il Aglio, il seme tulio 
Di questa genie, e me spenta con loro. 

Sole, a cui de'mortali ogni opra è conia; 
Giuno, de le mie cure, e de'miei falli 
Pronuba consapevole c mezzana; 

Ecale, che ne' Invìi orribilmente 
Sei di nelle invocala; ultrici Furie, 

Spiriti inferni, c dii de F infelice 
Dido, cli'a morte è giunta, il mio non degno 
Caso rìconosccle, c insieme udite 
Queste dolenti mie parole estreme. 

Se forza, se destino, se decreto 
È di Giove c del ciclo, c Asso e saldo 
È pur che questo iniquo in porto arrivi, 

E terra acquisii; almcn da Aera genie 
Sia combattuto, e de'suoi Ani in bando, 

Da suo Aglio divelto implori aiuto, 

E perir veggìa i suoi di morte indegna. 

Nè leggi che riceva, o pace iniqua 
Che accedi, anco gli giovi; nè del regno, 

Nè della vita lungamente goda; 

Ma caggia anzi al suo giorno, e ne l'arena 
Giaccia insepolto. Questi pricglii estremi 
Col mio sangue consacro. E voi, miei Tiril , 
Co i discesi da voi tenete seco 
E co' posteri suoi guerra mai eempre. 

Questi doni al mio cenere mandate, 

Morta ch'io sia. Nè mai tra queste genti 
Amor nasca, nè pace; anzi alcun sorga 
De Fossa mie, clic di min morie prenda 
Alla vernicila, e la Dardania genie 
Con le Damme c col ferro assalga e spenga 
Ora, in futuro c sempre; csian le fune 



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88 



DELL’ ENEIDE 



Conspcxil, paullum lacrintis cl mente morata, 
InculiuiU|ue loro, dUitquc notissima verba; 

Dulccs ciuviac, dum fata deusque sinebant, 

Accipite liane animato, nteque bis et sottile curia. 
Vili, et, quem dedrrat cursum fortuna, peregi; 

Et nunc maglia mei sub lorras ibil mago. 

Urlicm praeclaram statili; mea moenia vidi; 

L'ila virum, pocnas inimico a fratre recepì; 

Feti*, heu niminm feliv, si ltlora tantum 
Nunquam Dardaniac letigisscnt nostra carinoci 
Diti!, et, os impressa loro: Morirmur multaci 
Scd nioriamur! ait. Sic, sic iuvat ire sub umbras. 
Ilaurial lume oculis ignem crudelis ab allo 
Dardanus, et noslrac secum fcrat omnia morlis. 
Divorai; alque Ulani media inter talia ferro 
Collapsam adspiciunl contile», cnscmquc cruore 
Spumantem, sparsasque manus. Il clamor ad alta 
Atrio; concussam baecliatur fama per urbcm; 
Lamenlis, gemiluque, et femineo ululali! 

Tecla fremunl; resonol magnis plangoribus aclher; 
Non aliler quam si immissis ruat lioslibus omnis 
Cartti3go, aul antiqua Tyros; flammacque furentes 
Culmina perque Itominum volvantur perque dcorum. 
Audiil evonimis, Ircpidoquc eilrrrila cursu, 
Dnguibus ora soror foedans cl peclora pugnis. 

Per medios ruit, ac mnrientem nomine clamai: 
lloc illud, germana, futi? me fraude petebas? 

Hoc rogtts iste inibì, hoc ignesaraque paralumi? 
Quid primum deserta querar? Comilcmne sororem 
Sprot isti moriens? Eadcm me ad fata vocasses: 

Idem ambas ferro dolor, alque eadcm bora lulissel. 
His etiam slru.tì omnibus, palriosquc vocavi 
Voce deos, sic te ul posila, crudelis, abessem? 
Evslinvti me Icque, soror, populumque, patresque 
Sidonios, urbemque tuam. Date, vulnera lymphis 
Abluam, et cilrcmus si quis super Italitus errai, 

Ore legato. Sic fata gradua evaserat altos, 
Semianimemquc sinu germanam amplexa fotebat 
Cttm gcmilu, alque alros siccabal veste cruores. 

Illa, gratcs oculos conala allollere, rursus 
Deficit; infiium stridii sub pectore vulnus. 

Terscsc altollcns cubiloque adnixa levavil; 

Ter revoluta loro est, oculisque erranlibus allo 
Quaesivil coelo luccio, ingcmuitquc reperla. 

Tura Inno omnipotens, longum miserala dolorcm 
DilUcilesquc obitus, Irim demisit Olympo, 

Quac luctantcni animarn neiosquo resulterei artus. 
Nani, quia nec fato, merita ncc morte pcribal, 

Sed misera ante diem, sttbiloque accensa furore, 
fiondimi Ali datolo Proscrpina vertice crinem 
Abstuleral, Slygioque caput damnaverat Orco. 

Ergo Iris croceis per cnelum roscida pennis, 

Mille trahens varios adverso sole colotes, 

Devolat, et sttpra caput adstilit: llunc ego Diti 
Sacrum iussa fero, teque isto corpore solvo. 



A quest'animo eguali: i liti a i liti 
Conlrarii eternamente, Ponile a l'onda, 

E l’armi incontro a l’armi , e i nostri a i loro 
In ogni tempo. E ciò detto, imprecando, 
Schiva di più veder l’elcrea luce, 

AITrcItò di morire. E, Uarcc in prima 
Vistasi intorno, una nutrice antica 
Del suo Sictico (citò la sua propria iu Tiro 
Era cenere già): Cara nutrice, 

Le disse, va’ , mi chiama Anna mia suora, 

E le di' clic solleciti, e che l'onda 
Del fiume e l'oslie e i suffumigi adduca, 

E ciò cb'è d'uopo (come pria le dissi) 

A prepararmi; chè finire intendo 
Il sacrificio clic a Plutone inferno 
Solennemente ho di già far impreso. 

Per (ine imporre a' mici gravi martiri, 

E dar foco a la pira, ov'è l’imago 
Di quell'empio Troiano. A lai precetto 
Mossa la vccchicrclla, a suo potere 
Lentamente affreltossi ad csegnirlo. 

Dido nel suo pensiero immane e fiero 
Fieramente ostinala, in alto prima 
Di paventosa, poi di sangue infetta 
Le torve luci, di pallore il volto, 

E tutta di color di morte aspersa, 

Se n'entrò furiosa ove secreto 

Era il suo rogo a Paura apparecchiato. 

Sovra vi salse; c la Dardania spada 
Ch'ebbe da lui non a tal uso in dono, 
Distrinsc; c rimirando i Frigi arnesi 
E 'I noto letto, poich’ in sè raccolta 
Lngrimando c pensando alquanto stette, 
Sovra vi a’ inchinò col ferro al petto, 

E mandò Tuor qiiest’ullime parole : 

Spoglie, mentre al ciel piacque, amate e care, 
A voi rcnd'io quest'anima dolente. 

Voi l'accogliete: c voi di questa angoscia 
Mi liberale. Ecco io son giunta al fine 
De la mia vita, c di mia sorte il corso 
Ho già rompilo. Or la mia grande imago 
N'andrà sotterra: c qui di me che lascio? 
Fondata ho pur questa mia nobil terra; 

Viste ho pur le mie mura; ho vendicato 
Il mio consorte: ho castigato il fiero 
Mio nimico fratello. Ah che felice, 

Felice assai morrei, so a questa spiaggia 
Giunte non fosscr mai vele Troiane! 

E qui su ’l letto abbandonossi, c'I volto 
Vi tenne impresso; indi soggiunse: Adunque 
Morrò sema vendetta? Ehi che si muoia, 
Comunque sia. Cosi, cosi mi giova 
Girne tra l 'ombre infeme; c poich' il crudo , 
Mentre meco era, il inio foco non vide, 
Vcggalo di lontano, e 'I tristo augurio 



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LIBRO QUARTO 



Sic gii, el delira crinem secai; omnis et una 
Dilapsus calor, alt; ite in venlos vita rccessil. 



De la mia morte almcn seco ne porli. 

Arca ciò dello, quando Io ministre 
La vidcr sopra al ferro il pedo infissa, 

, Col ferro e con le man di sangue intrise 
Spumante e caldo. In pianti, in ululati 
Di donne in un momento si converse 
La reggia tutta, e 'nsino al ciel n’ andaro 
Voci alle e fioche, e suon di man con elle, 
N'andò per la città grido c tumulto, 

Come se presa da’ nemici a forra 
Fosse Tiro; o Cartago arsa c distrutta. 
Anna, tosto eh 1 udillo, il volto e 'I petto 
Battessi e lacerassi ; e fra la gente 
Verso la moribonda sua sorella, 

Stridendo, e il nome suo gridando, corse ; 
E per questo, dicca, suora, son io 
Da te cosi tradita ? Io l' ho per questo 
La pira e l' are e 'I foco apparecchiato ? 
Deserta me ! Di che dorrommi in prima ? 
Perchè, morir dovendo, uua tua suora 
Per compagna rifiuti ? E perchè tcco 
( Lassa ! ) non m' invitasti ? Ch' un dolore , 
Un ferro, un'ora stessa ambe n' avrebbe 
Tolte d' affanno. Oimèl con le mie mani 
T ho posto il rogo. Oimè ! con la mia voce 
Ho gli dei de la patria a ciò chiamali. 
Tutto, folle I ho fati’ io, perchè tu muoia, 
Pcrch’ io nel tuo morir teco non sia. 

Con le, me, questo popol, questa terra 
E 'I Sldonio senato hai, suora, estinto. 

Or mi date che il corpo ornai componga, 

Che lavi la ferita, clic raccolga 

Con le mie labbra il suo spirito estremo, 

Se piò spirto le resta. E, ciò dicendo, 

Già de la pira era salila in cima. 

Ivi lei che spirava in seno accolta , 

La sanguinosa piaga, lagrimando. 

Con le sue vesti le rasciuga e terge. 

Ella talor le gravi luci alzando 
La mira appena, che di nuovo a fona 
Morte le chiude; c la ferita intanto 
Sangue e fiato spargendo anela c stride, 
Tre volte sopra il cubito risorse ; 

Tre volte cadde, ed a la terza giacque : 

E gli occhi vólti al ciel, quasi cercando 
Veder la luce, poiché vista I’ ebbe, 

Ne sospirò. De l' affannosa morte 
Fatta Giuno pietosa, Iri dal ciclo 
Mandò, che 'I groppo discioglicssc (osto 
Clio la lenca, malgrado anco di morte, 

Col suo mortai si strettamente avvinta ; 

Ch’ anzi tempo morendo, c non dal fato, 

Ma dal furore ancisa, non le avea 
Proscrpiua divello anco il fatale 
Suo dorato capello, nè dannata 



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90 



DELL* ENEIDE 



Era ancor la sua lesta a l’ Orco inferno. 
Ratto spiegò la rugiadosa dea 
Le sue penne dorate: e' incontra al Sole 
Di quei tariti suoi lucidi colori 
Lunga striscia traendo, indi sospesa 
Sopra al capo le stette, e d' oro un (ilo 
Ne svelse, e disse : lo qui dai cicl mandala 
Questo a Pioto consacro, e le disciolgo 
Da le tue membra. Ciò dicendo, sparve. 

Ed ella, in aura il suo spirto converso, 
Restò senta calore e senta vita. 




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LIBRO OLINTO 



Intere;! medium Aencas inm classe Icncbal 
Ccrtus iter, fluclusquc alros aquilone secabal, 

Moenia respicicns, quac iam infelicis Elissae 
Colluccnt flummis. Quac lanlnm accendcril ignem, 
Caussa laici; duri magno sed amore dolores 
Pollulo, nolumque, furcns quid l'emina possit, 

Triste per augurium Teucrorum peclora ducunt. 

Ut pelagus tenucre rales, nec iam amplins olla 
Occurril tellus, maria undique. et undique eoelum; 
Olii cacrulcus supra raput adslilil imber, 

Noctcm hicmemque ferens; et inhorruit unda Icnebris. 
lpse gubernalor puppi Palinurus ab alla : 
lieu I quianam tanti cimentiti aclhera nimbi ? 

Quidvc, paler Neplunc, paras ? Sic deinde loculus 
Colligere arma iubcl. talidisqtic incombere remis, 
Obliqualque sinus in venturo, ac (alia falur : 
Magnanime Aenca, non. si ntihi Iupiler auctnr 
Spondeal, boc sperem Italiani conlingcrc coelo. 

Mutati Iransvcrsa fremunt et vespcre ab atro 
Consurgunt centi, alque in nubcm engilur aèr. 

Nec nos obnili contra, nec tendere tantum 
SuDIcimus. Superai quoniam Fortuna, sequamur, 
Quoque cacai, vcrlamus iter. Nec lilora longe 
Fida reor fraterna Erycis, porlusquc Sicanos, 

Si modo rite ntemor servata remelior astra. 

Tum pius Aencas: equidem sic posccre venlos 
Iamdudum et frustra cerno le tendere contra. 

Flectc viam velia. An sii milii gralior ulta, 

Quocc magis fessas optem deraillere naves, 

Quam quac Dardanium tellus milti servai Aceslcn, 

Et patris Anchisac gremio complcctilur ossa? 

Ilacc ubi dieta, pelunl portus, et vela sccundi 
Intendimi Zephyri ; fcrlur cita gurgitc classis, 

Et tandem lacli nolac advertuntur arcnac. 



Intanto Enea, spinto dal vento in allo, 
Veleggiava a dilungo ; e pur con gli ocelli, 
Da la fona d' amor rivolto indietro, 

Rimirava a Carlago. Ardca la pira 
Già d' Elissa infelice : e le sue fiamma 
Raggiavan di lontan gran luce intorno. 

La cagion non sapea : ma la temenza 
Lo rimordea del violato amore. 

E 'I saper quel che puote e quel che ardisce 
Femmina furiosa ; e T tristo augurio 
Del loco, che lugubre era c funesto 
Lo lenea con lo stuol de' Teucri tulli 
Disanimato c mesto. Eran di vista 
Già de la terra usciti, e ciclo ed acqua 
Apparian solamente d’ ogn' intorno, 

Allor eli' un denso e procelloso nembo 
Si fé' lor sopra ; onde tempesta c nollc 
Sorse repente, e Paiinuro stesso 
Da l' alla poppa il cicl mirando : Oh I disse, 
Che lia con tante intorno accolte nubi ? 

E clic pensi e clic fai, padre Nettuno ? 

Indi comanda: Via compagni, armiamei. 
Opriamo i remi, accomodinm le vele, 
Tcgniamo al vento avverso obliquo il seno. 
E rivolto ad Enea : Con questo cielo, 

Signor, diss’ egli, ornai più non m' affido 
Prender Dalia, ancor che Giove stesso 
Mei promettesse, ed ei nocchier no fosse. 
Vedi il vento mutalo, vedi il maro 
Di vèr ponente, che s' annera e gonfia ; 

Vedi nel cicl qual ne s‘ accampa stuolo 
Di folle nubi. Traversia di cerio 
N" assalirà si che nè girle incontro, 

Nè durar la potremmo. Or poi di' a forza 
Cosi ne spinge, noi per nostro scampo 
Assecondiamo ; che già presso i porti 
Ne son de la Sicilia e T fido ospizio 
D' Ericc tuo fratello, se abbastanza 
De l' arie mi rammento e de le stelle. 



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Ai 



DELL’ ENEIDE 



Disposo Enea : Ben conoso.' io che duro 
E M contrasto de’ venti; e 'I nostro è vano. 
Volgi le vele. E qual più graia altrove, 

0 più comoda riva, o più sicura 
Aver mai ponno le mie stanche navi, 

Di quella che ne serba il caro Acosle, 

E P ossa accoglie del buon padre mio ? 
Cosi vAlti a levante, e preso in poppa 
11 vento c 'I flutto, a tutta vela il golfo 
Correndo, fur subitamente a proda 
De P amica riviera. 

At procul eicelso miratus vertice monlis Avea ili cima 

Adventum sociasquc rales, occurrit Accalca, Vista d’ un monte II cacciatore Accslc 

llorridus in iaculis et pelle Libyslidis ursae, Venir la Frigia armata. Onde in un tempo 

Troia Crimiso roncrplum (lumino maler Fu con essi a la riva ; e rìncontrolli 



Quem gciiuit. Vcterum non immemor ille paronimo, 
Gratatur reduccs, et gaia ladus agresti 
Excipil, ac fessos opibus solatur amicis. 

Posterà quum primo stellas Oriente fugarci 
Clara dies, socios in coetum lilore ab Omni 
Advocat Acneas, lumulique ci aggcrc fatur : 



Dardanidae magni, genus allo a sanguine divùm, 
Annuus ciactis complctur mensibus orbis, 

E* quo reliquias divinique ossa parenlis 
Condidimns terra, moestasque sacravimus aras. 
lamquc dies, ni fallor, adest, quem scinger neerbum, 
Scraper onoraluin, sic di voluistis, habebo. 

Dune ego Gaclulis ogerem si Sjrlibus cisul, 
Argolicovc mori deprensus, et urbe Mycenae, 

Annua iota lamcn solemncsque ordine pompas 
Eiscqucrer, slrueremquo suis allaria donis. 

Nunc nitro ad cincres ipsius et ossa parenlis, 

Haud e(|uidcm sino mente reor, sine numine divùm 
Adsumus, et porlus deisti intramus amicos. 

Ergo agite, et laclum cuncli celebremus honorem ; 
Poscamus venlos; alque hacc me sacra quolannis 
Urbe veli! posila lemplis sibi ferrc dicalis. 

Bina boum vobis Troia gcncralus Acesles 
Hat numero capila in nnves; adhibelc Pcnales 
Et palrios epulis et quos colil hospes Accstes. 
Praelcrea, si nona diem mortalibus almum 
Aurora exlulcril, radiisque relexerit orbem, 

Prima cilae Tcucris ponam cerlamina classis ; 

Quique pedum cursu vaici, et qui, viribus sudai, 

Aul iaculo incedi! melior levibusque sagitlis, 

Seu crudo Udii pugnam commiltcrc ceslu, 

Cuncti adsinl, mcrilacque cispcctcnt pracmia palmac. 
•Ire faveto omnes, et tempora cingile ramis. 



Allegramente, si com’ era incollo 
Di dardi armato c d' irta pelle cinto 
Di Libie' orso, umano insieme e rono, 

De la Troiana Egcsta e di Crimiso 
Fiume onorato Aglio. Ei de gli antichi 
Suoi parenti inombrando, con gioioso 
Volto, se ben con rustico apparecchio, 

Gl' invila, li riceve c li consola. 

Era de l'altro dì l' Aurora e T Solo 
Gii fuor de l' onde allor che 'I Frigio duce 
Convocati i suoi tutti, allo in un greppo 
Posto in meno di lor cosi lor disse : 

Generosi c magnanimi Troiani, 

Degna prole di Bardano e del ciclo, 

Questa è l'amica terra, ove oggi è l’anno 
Ch’ a le sante ossa del mio padre Ancliisc 
Demmo requie c sepolcro, c i mesti altari 
Gli consecrammo.Oggi 4(s'io non m'inganno) 
Quel sempre acerbo ed onoralo giorno, 

Citi onorato ed acerbo mi fla sempre 
(Poiché s) piacque a Dio) quantunque, ovun- 
Qucsto csiglio infelice mi trasporti ; fque 
Pongami ne l' arene c ne te secche 
De la Gelulia ; spingami agli scogli 
Del mar di Grecia ; ne la Grecia stessa 
Mi chiugga, e dentro al cerchio di Micene; 
Ch’ io l' arò sempre per solenne, c voti 
Farògli ogni anno e sacriflcii c ludi. 

Or poiché da' celesti, oltre ogni avviso 
Nostro, tra'nostri siamo in provo addotti 
Per onorar le sue ceneri sante, 

Onoriamle, adoriamle, e dal suo nume 
Imploriamo devoti amici i venti, 

E slabil seggio, ove gli s‘ erga un tempio 
In cui sian quest’ esequie c questi onori 
Binnovcllati eternamente ogni anno. 

Due pingui buoi per ciascun nostro legno 
Vi profferisce il buon Troiano Accslc. 

Voi d’ Acosle c di Troia i patrii numi 
Ne convitate ; ed io, quando I' Aurora 



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LIBRO QUINTO 



93 



Sic fatus, velai materna lempora myrto. 

Hoc Ilelymus farli, hoc aevi malurus Acestes, 

Hoc pucr A scani us, sequilur quos celerà pubes. 

Die c concilio multis cum minibus ibat 
Ad lumulom, magna medius comitantc catena. 

Ilic duo rito mero libans carclicsia Baccho 
Fundillmmi, duo lacte novo, duo sanguine sacro, 
Purpureosque iacil flore*, ac talia fallir : 

Salve, sancte parens, itcrum; salvelc recepii 
N'equidquam cineres, animaeque umbracque paternae 
Non licuit (Ines Ilalos falaliaquc arva, 

Ncc tecum Àusonium, quicunque est, quaerere Tybrim 
Divorai liaec, adytis quum lubricus anguis ab imis 
Seplom ingens gyros, septena volumina traxif, 
Amplexus placido lumulum, lupsusque per aras, 
Caeruleac cui terga noiae, maculosus et auro 
Squamam incendebal fulgor : ceti nubibus arcus 
Mille iacil varios, adterso sole, colores. 

Obstupuit visu Arneas : ille agmine longo 
Tandem inter palcras et levia pocula serpens, 
Libavitquc dopes, rursusque innozius imo 
Successit tumulo, et depastn ollaria liquit. 

Hoc magis inceplos genitori instaurai honores, 
Inccrtus, Geniumnc loci famulumne parontis 
Esse pulci : caedit biuas de more bidentes, 

Totque sucs, tolidemque nigrantes terga iuvcncos, 
Vinaquc fundebat paleris, animamque vocabat 
Anchisac magni Manesquc Acheronte remissos. 

Noe non et socii, quac cinque est copia, lacti 
Dona rerunt, oncrant aras, mactantque iuvcncos; 
Ordine aéna locant alii, fusique per herbain 
Subiiciunl veribus prunas, el viscera torrenl. 



VlBGIllO tot. emeo. 



Tranquillo c quoto il nono giorno adduca, 

A’ solenni spettacoli v'invito 
Di navi, di pedoni c di cavalli, 

Al corso, a la palestra, al cesio, a V arco. 
Ognun vi si prepari, ognun ne speri 
Degna del suo valor mercede e palma. 

E voi datevi assenso, c tutti insieme 
V* inghirlandale. 

E, ciò dicendo, il primo 
Del suo mirto materno il crin si cinse. 

Eliino lo segui, seguillo Accstc, 

Un di veni’ anni e V altro di maturi ; 

Poscia il fanciullo lido ; e dietro a loro 

IV ogni età gli altri tutti. Enea, disceso 

Dal parlamento, in mezzo a quante intorno 
Avca schiere di genti, umile e mesto 
Al sepolcro d' Anchise apprcscntossi : 

E con rito solenne in terra sparte 
Due gran coppe di vino c due di latte 
E due di sangue, di purpurei fiori 
Vi nevigò disopra un nembo, c disse : 

A voi sant’ ossa, a voi ceneri amale 
E famose c felici, anima ed ombra 
Del padre mio, torno di nuovo indarno 
Per onorarvi ; poiché Italia e ’l Tcbro 
( Se pur Tebro è per noi ) ne si conlende 
Or quel ch'io posso, con devoto alTcllo 

V adoro, c* nchino come cosa santa. 

Mentre così direa, di sotto al cavo 

De P allo avello un gran lubrico serpe 
Uscì placidamente ; e selle volte 
Con sette giri al tumulo s' avvolse, 

Indi, strisciando infra gli altari e i vasi, 

I.e vivande lambendo, in dolce guisa, 

Con le cerutee sue squamose terga 
Sen glo divincolando, e, quasi un’ Iri 
A Sole avverso, scintillò d’ inlorno 
Mille vari color di luce e d" oro. 

Stupissi Enea di colai vista ; c V angue 
Di lungo trailo infra le mense e P are, 

Ond' era uscito, al fin si ricondusse. 
Rinnoveliò gl' incominciati onori 
Il Frigio duce, del serpente incerto. 

Se del loco era il Genio, o pur del padre 
Sergente o messo. E com* era uso antico, 
Cinque pecore elette e cinque porci, 

Con cinque di morello il tergo aspersi 
Grassi giovenchi anzi a In tomba decise, 
Nuove tazze versando, c nuovamente 
Fin d’ Acheronte richiamando il nome 
E I* anima d' Anchise. Indi i compagni, 
Ciascun secondo la sua possa offrendo, 

Lieti rolmàr di doni i santi altari : 

Altri di lor le vittime immolare, 

« 



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DELL' ENEIDE 



91 



Exspedala dies adorai, nonnniquc serena 
Aurora m Pliacllionlis equi iam luce vchebanl; 
Famaque lìnilimos et clari nomcn Aceslae 
Escicrat. Laelo complrranl litora coelu, 

Visori Aeneadas, pars et cenare parali. 

Nuncra principio anic oculos circoquc locanlur 
In medio, sacri tripode», \irWcsquc enronae, 

Ei palrnae, prelì una vicloribus, armnquc, et ostro 
Pei fusai* veste» , argenti aurique talenta ; 

Et tuba commissos medio canit aggcrc ludos. 

Prima parcs incuoi graiibus certamina remis 
Quatluor ex omni delectae classe carinac. 

Vclocem Mneslheus ag ; t acri remigo Prislin, 

Mo\ Ilolus Mneslheus, genus a quo nomine Mcmml; 
Ingentemque Gya» ingenti mole Chimacram, 

Urbis opus, triplici pubes quam bardana versu 
Impellunl, terno consurguiil ordine remi ; 
Scrgeslusquc. domus lenel a quo Sergia nomcn, 
Centauro iuvchilur magna; Scyllaquc Cloanlhus 
Cacrulea, genus unde libi, Romane Cluenli. 



Est procul in pelago saium spumanlia contra 
Litora, quod tumidi» submersum lunditur olim 
Fluclibus, biberni condurli ubi sidera Cori ; 
Tranquillo siici, immolaque atlollitur unda 
Campus, et apricis slatio gratissima mergis. 

Ilio viridem Aencas frondenti ei ilice mclam 
Consliluit signum tiauiis paler, unde reverli 
Scirenl : cl longos ubi circumflcclerc cursus 
Tum loca sorte Icgunl : ipsique in puppibus auro 
Duclorcs longc cflulgcnt ostroque decori ; 

Celerà populea velalur fronde iuventus, 
Nudalosquc bumcros oleo perfusa nilcscil : 
Coiisidunt Iranstris, intentaque bracino remis : 
Intenti exspeclant signum, cxsultantiaque hauril 
Corda pavor pulsans, laudumque arreda cupido. 
Inde, ubi dara dedit sonitum tuba, fìnibus omnes, 
flaud mora, prosiluerc suis : fcrit aclhcra clamor 
Naulicus; ndduclis spumanl frela versa lacertis ; 
Inflndunl pai iter suicos, totumque dehiscìt 
Convulsum remis roslrisquc Iridcnlibus ncquor. 
Non (ani praecipitcs biiugo cerlaminc cnmpum 
Corripucre ruuntquc effusi carcere currus ; 



I Altri cibi uc fòro ; c lutti insieme 
Sul verde prato a convitar si diero. 

Era già *1 nono destinato giorno 
Sereno c lieto a P Oriente apparso, 

E già la vaga fama c *1 chiaro nome 
Avca d’ Accslc convocali intorno 

I virili tulli, c pieni erano i liti 

Di genie, cui (raca parte vaghezza 
Di vedere i Troiani, c parte ordire 
Di provarsi con loro. In prima esposti 
Con pompa riguardevole c solenne 
Furo in mezzo del circo armi indorate, 
Purpuree vesti, tripodi c corone, 

E piò guise d* arnesi c di monete 
D’ argento c d’ oro, e palme ed altri premii 
Di vincitori. Indi sonora tromba 
D* alto diè segno a i desiali ludi, 

E dal mar comi ridossi. Avcan di tulio 
La Teucra armato quattro legni scelli 
Più di remi c di remigi guarniti, 

E di tulli più destri. Un fu la Pistri, 

E Muesleo la reggea; Mnesleo clic poi 
L' Italo fu nomalo, e diede il nome 
A la stirpe de 1 Menimi. La Chimera 
Fu I* altro, a cui preposto era il gran Già, 

: Un gran vascello che a tre palchi avca 

Disposti i remi ; c » remiganti tulli 
Eran Troiani c giovani c robusti. 

Fu ’l gran Centauro il terzo ; e di qiicsl’ era 
Sergeslo il capo, clic a la Sergia prole 
i Diede principio. L’ ultimo la Scilla 
i Guidala da Cloanlo, onde i Cluenli 
Trasser nome e legnaggio. 

E lungo incontra 

A la spumosa riva un basso scoglio 
Clic, da’ Rulli percosso, è lalor tulio 
Inondato e sommerso. Il verno i venti 
Vi lendon sopra un nubiloso velo 
Clic ricopre le stelle, c quando è il tempo 
Tranquillo, ha ne l' asciutto una pianura 
1 Cir è di marini uccelli aprica stanza. 

Qui d' un eleo frondoso il segno pose 

II padre Enea, (in dove il corso avanti 
Stender pria si dovesse, e poi dar volta. 

Indi, sorlili i luoghi, al suo ciascuno 

Si pose in fila. I capitani in poppo, 
Addobbali di bisso c d' ostro c il* oro, 
Risplcndcan di lontano : e gli altri lutti, 

D* una livrea di pioppo incoronali, 

Stavano con le terga ignudi ed unti, 

SI che Ira Polio c 'I sol lumiere c specchi 
Parean da lungo. E giù ne* bandii assisi, 
Tese a* remi le braccia, al suoli Por cecilie, 
Aspe ttavano it legno. I cori Dilanio 
Palpitando movea disio d’onore, 



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LIBRO QUINTO 



95 



jS'cc sic immissis aurigac undonlia loia 
Concusscre fughi, proniquc in vcrbcra pendoni. 

Tum plausu fremiluque viròtn studiisqtic ravcnlum 
Consonai omnc nemus, vocemquc inclusa volulant 
l.ilora; pulsali collcs clamore rcsullaul. 

EITugil ante alios, primisquc elabitur undis 
Turbam inlcr frcmilumquc Gjas; queni deinde Cloonthus 
Consequilur, mclior rcrnis; sed pondero piuus 
Tarda tencl. Posi hos acque discrimine Prislis 
Cenlaurusquc locum lendunl superare priorem. 

Et nunc Prislis habel, mine victam pruderli ingcns 
f.cniaurus; none una ambae iunclisquc feruntur 
Fronlibus, et longa sulcant vada salsa carina. 

Iainque propinquubant scopulo, mclarnquc lenebant : 
Quum princeps medioque Gyas in gurgile vielor 
Rectorem navis coni pellai voce Menodcn : 

Quo tanlum milii dexler abis ? bue dirige gressum, 
Lilus ama, et laevas stringai, sine, palmula cautcs; 

Àllu m alii leticanti Dixit. Sed cacca Mcnocles 
Saxa limens, proram pclagi dclorquct ad uudas. 

Quo diversus abis ? itcrura: pclc saxa, Menoclc, 

Cum clamore Gyas rcvocabal, et ecce Cloanlhum 
ltespicil inslanlem (ergo, et propiora (eneniem. 

Illc inlcr navemque Gyae scopulosquc sonanlcs 
Radil iter laevum interior, subiloque priorem 
Praelcril, cl melis tencl aequora luta rcliclis. 

Tum vero cxarsil iuveni dolor ossibus ingcns; 

Nec lacrimis carucrc genac: segnemque Mcnocleti, 
Oblitus decorisquc sui sociòmquc saluti*. 

In mare praccipitem puppi deiurbal ab alla; 

Ipse gubernaclo rector subii, ipse magisler : 
llortaturque viros, clavumque ad litora lorquet. 

Al gravis, ut fundo vii tandem redditus imo est, 
lam senior, madidaque fluens in veste, Mcnocles 
Summa petit scopuli, siccaquc in rupe resedit. 
llluin et labcntcm Teucri et risero natanlcm ; 

Et salsos ridoni revomenlem pectore fluctus. 

Hic lacla extremis spcs est acccnsa duobus, 

Sergesto Mneslheique, Gyan superare moranlem. 
Sergestus capii ante locum, scopuloquc propinqua! : 
Nec tota (amen illc prior praeeunte carina ; 

Parie prior; partim rostro premit acmula Prislis. 

At media socios inccdens nave per ipsos 
Ilortatur Mncsteus : Nunc, nunc insurgile rcrnis, 
Heclorci soeii, Troiae quos sorte suprema 
Delcgi cnmiles; nunc illas promite vires, 

Nunc animos, quibus in Gaetulis syrtibus usi, 
lonioque mari, Malcacque sequaeibus undis. 

Non iam prima peto Mneslhcus, ncque vincere certo ; 
Quamquam o ! — sed supercnt, quibus hoc, Neptunc, 

dedisti ; 

Eilrcmos pudcl redi isso ; hoc vincile, cives, 

Et proliibcle nefas. Olii certaminc summo , 
Procumbunl : vasti* Iremit ictibus aerea puppis, 
Sublrahilurquc solurn. Tum creber anhelilus arlus 



E timor di vergogna. Avca la tromba 
Squillato appena, clic in un tempo i remi 
Si tuffòr tulli, c tulli i legni insieme 
Si spiccar da le mosse. I gridi al cielo 
N' andar de’ marinari. Il mar di schiuma 
S* asperse intorno : c *n quadro solchi eguali 
Fu con mollo stridor da’ rostri aperto 
E da’ remi stracciato. Impeto pari 
Non fòr nel circo mai bighe e quadrighe 
Da le carceri uscendo, allor eh’ a sciolte 
Kd ondeggianti redini gli aurighi 
A. volanti deslrier sferzali le terga. 

Le grida, il plauso, il fremilo c le voci. 

In favore or di questi ed or di quelli. 

Tra i curvi liti avvolte, e da le selve 
E da’ colli riprese c ripercosse, 

Facean l’ aria intronar lino a le stelle. 

Nel primo uscire, il primo avauli a tulli 
Si vide Già, mentre la gente freme; 

E dopo lui Cloonto, clic de’ remi 

.Migliore assai, per la gravezza indietro \ 

Riinanea del suo legno. Indi del pari, 

0 di poco infra loro avean contesa 

Il Centauro c la Prisli; c quando questa, 

Quando quella ero avanti, c quando entrambi 
Or le fronti avean giunte ed or le code. 

Eran del sasso già presso a In mela, 

% E Già buon tratto vincitore avanti 
N’andava allor ch’ei se ne vide in alto 
Da la ripa piò lungo; onde rivolto 
Al suo nocchiero: E dove, disse, andrai 
Mende ? Atlienti al lito c radi il sasso: 

Vadano gli altri in alto. Ei tuttavia 
D‘ urtar temendo, in pelago si mise. 

E Già di nuovo: In qua, Mende: al sasso, 

Al sasso: a la sinistra, a la sinistra, 

Dicco gridando; e vólto indietro vide 
di’ avca Cloanto addosso. Era Gloanto 
Già tra lo scoglio c la Chimera entrato; 

E via radendo la sinistra riva. 

Tenne giro si breve e sì propinquo. 

Che lui tosto e la meta anco varcando 
Si vide avanti il mare ampio c sicuro. 

Grand’ ira, gran dolore c gran vergogna 
Ne scnll ’l fiero giovane; e piangendo 
Di stizza, c non mirando il suo decoro, 

Nè che Mende del suo legno seco 
Fosse guida e salute, in mezzo il prese, 

E da la poppa in mar lungo avvcnlollo. 

Poscia, ei nocchiero e capitano insieme, 

Diè di piglio al timone, e rincorando 

1 suoi compagni, al sasso lo rivolse. 

Mencio, che di veste era gravato, 

E via più d’ anni, inGno a I* imo fondo 
Ricevè ’l tuffo; e risorgendo appena 



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96 



DELL' ENEIDE 



Aridaquc ora quali! ; sudor fluii undiquc rivis. I 

Attuili ipsc tiris optatimi casus honorem. 

Namquc furcns animi, dum proram ad saia suburgel 
Interior, spalioquc subii Scrgcstus iniquo, 

Infclix saiis in procurreutibus haesit. 

Concussac cautes : et acuto in murice remi 
Obliivi crepuerc, illisaque prora pcpendil. 

Consurgunt nautae, et magno clamore moranlur, 
Ferralasquc Irudcs el acuta cuspide cnulos 
Evpediunt, fraclosque legunl in gurgitc remos. 

At laclus Mnistheus, succcssuquc acriur ipso, 

Agminc remurum celeri, vcnli-que vocalis, 

Prona petit maria, et pelago decurrit aperto. 

Oualis spelonca subilo commola columba, 

Cui domus et dutres latebroso in pumicc nidi, 

Ferlur in aria volans, plousumque eiterrila pennis 
Dal ledo ingenlem, mos aere lapsa quieto 
Radii iter liquidum, cclcres ncque commovct nlas : 

Sic Mnesthcus, sic ipsa fuga secai ultima Prislis 
Acquerà, sic Uhm ferì impctus ipsc volanlcm. 

El primuni in scopulo luclaulcin dcseril allo 
Sergcslum brevibusque vadis, frustraque loranlem 
Ausilia, et frartis discenlem currere remis* 

Inde Gyan ipsamque ingenti mole Cliimaeram 
Consequilur; cedil, quoniam spollaia magislro est. ! 
Solus iamque ipso superesl in (Ine Cloanlhns, 

Quem petit, et summis adniius viribus urgel. 

Tum sero ingemmai clamor, cunelique sequeotem 
Insti ganl studiis, resona Iquc fragoribus acllicr. 

Ili, proprium decus el partum, indignantur, honorem ! 
Ni lencant; tilamqtie volunl prò laude pacisci. 

Ilos successila alil; possunt, quia posse videnlur. 

El furs acqualis cepisscnl proemia roslris : 

Ni, palmas pomo Icndcns ulrasque, Cloanlhns 
Vudissetquc prcccs, divosque in vola vocasset: 

Di, quibus Impcrium csl pclagi, quorum aequora curro, 
Vobis laclus ego hoc candcmem in lilore laurum 
Consliluam ante aras, voti reus, eilaqne salsos 
Porriciam in fluclus, el lina liquenlia fundam. 

Dilli, cumque imi sub fluclìbus audiitomnis 
Nerei'dum Pliorcique chorus; Panopeaquo virgo 
El palcr ipsc manu magne Portunus eunlem 
Impubi, tlla nolo cilius volucrique sagilla 
Ad lerram fugil et portu se condidit allo. 

Tum salus Anchisa, cunctis ci more vocalis, 

Viclorem magna praeconis voce Cloamhiim 
Dechrat, viridique advelal tempora lauro. 

Muncraque in nares ternos optare iuvencos, 

Vinaquc, el argenti magnimi dal forre lalenlum. 

Ipsis praecipuos dudoribiis addii honores : 

Viclori chhmydem auralam, quam plurima circum 
Purpura Maeandro duplici lleliboea cucurril 
intcslusquc pucr frondosa regius Ida 
Veloccs iaculo cervos cursuqiic fallgat 
Acer, anbclanli siroilis, quem praepcs ab Ida 



Itampicossi a lo scoglio, c si coni' era 
Molle e guazzoso, de la rupe in cima 
Qual bagnalo maslino al sol si scosse. 

Mise tulla la genie al suo cadere : 

Risc al notare: e più rise anco allora 
Che a’ fluiti vomitar gli vide il mare. 
Mncstoo intanto e Scrgeslo, clic del pari 
Erano addietro, parimente accesi 
Su l'indugio di Già preser baldanza. 
Sergesio invér lo scoglio uvea 'I vantaggio 
Del primo loco: ma non (ulto ancora 
Era il suo legno avanti, clic la Pristi 
Premea col rostro del Centauro il fianco. 

E Morsico confortando I suoi compagni 
E 'n su c 'il giù per la corsia gridando, 

Via fratelli, dicea, via degni alunni 
I)’ Etlorc invitto, via compagni eletti 
Al grand’ uopo di Troia. Ora ù mcsliero 
Ile* remi, de le forze c del coraggio. 

Che a le Sirli, a Cariddi, a la Malta 
Mostraste già. Non più vincer contendo, 
Che pur dovrei, se pur Mncsleo son io. 
Vinca cui ciò da le, Nelluno, 6 dato. 

Ma eh' ultimi arriviamo, ab no, fratelli, 
Qnesla vergogna; e ciò vincasi almeno 
Clic di lauto rossor tinti non siamo. 

A colai dir lutti insorgendo, a gara 
Stescr le braccia, ed inarcare i dorsi, 

E fér per avanzarsi estremo sforzo. 

Tremava a i colpi il ben ferralo legno : 
Foggia di sollo il mare: ansando i remi 
Aprian le asciutte boccile; e spesso i fianchi 
Ballendo, a gronde di sudor colavano. 

Diè lor fortuna il desialo onore; 

Chè, mentre furioso olire si spinge 
Scrgeslo, c con la prora arditamente 
Rade la ripa, ebbe il meschino intoppo, 
Urlando de lo scoglio in una roccia 
Che nel mar si sporgea. Scheggiassi il sasso, 
Fiaccirsi i remi, si scosceso il roslro; 

E d' un lato pendente e scossa tulla 
Tremò la nave, e scompigliossi e stette. 

I remiganti attoniti, con gridi, 

Con ferrale asic, con (ridenti c pali 
Slavan spingendo e pnnlellando il legno, 

E ripescando i remi. In tanto allegro, 

E del successo coraggioso e baldo 
Mncstco rado s avanza, c vince il sasso; 

E via vogando ed invocando i venti 
Fendo a la china ed a F aperto il mare. 

Qual d' una grolla, oV aggia i dolci figli 
E 'I caro nido, spavenlala in prima 
Da.subilo schiamazzo esce rombando, 

Ed arrostando una colomba a l' aura, 

Glie poi giunta nC campi a l’ acr queto 



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LIBRO QUINTO 



!»7 



Sublimem pedibus rapuil Iovij armìgcr uncis; 
Longacvi palmas nequidquam ad sidcra Icndunl 
Cuslodes; sacvilque canum latralus in auras. 

Al, qui deinde iocum Icnuil virtule sccundum, 
Lcvibus buie burnii couscrlam auroque triliccm 
Loricam, quani Demoleo detraxerat ipsc 
V'iclor apud rapidum Simoenla sub Ilio allo, 
Donai baberc Tiro, dccus et lutameli in armis. 

\ix illam famuli Phegeus Sagarisque ferebant 
Jlulliplicein, conniii buroeris; indulus al olim 
Dcmoleos cursu palanles Troas agebal. 

Tertia dona facil geminos cs aere Icbclas; 
Cynibiaquc argento perfccla, alque aspera signis. 
Iamquc adco donali omnes, opibusque superbi, 
Puniceis ibanl cvincli tempora lacniis: 

Quum saevo e scopulo multa vix arte revulsus, 
Amissis remis, alque ordine debilis uno, 

Irrisam sino bonore ralem Sergeslus agebat, 
Qualis sarp» viae deprcnsus in aggere serpens. 
Aerea quem obliquum rota transiil, aut gravis iclu 
Scminecem liquit saio lacerumque viator, 
Nequidquam longos fugiens dal corporc tortus; 
Parte fero.v, ardensque ocuiis, et sibila colla 
Arduus atlollens: pars vuincrc clauda rctenlat 
Nixantem nodis, seque in sua membra plicantcm: 
Tali remigio navis se larda movebat; 

Vela facil tamen, et velis subii ostia plenis. 
Sergestum Aeneas promisso munere donai, 
Servatam ob navoni laetus sociosquc reductos. 

Olii serva dalur, opcrum haud ignara Hinervac, 
Crossa genus, Plioloè, geminique sub ubere nati. 



Quetamenlc per via dritta c sicura 
Sen va con P ali immobili e veloci; 

Così la Pristi pria travolta e vaga 
Venia da seno; indi affilala e stretta 
Passò prima Scrgcsto che nel sasso, 

Come da vischio rattenuto augello 
E spennacchiato, i suoi spezzali remi 
Dibattendo, chicdea soccorso in vano. 
Poscia spingendo, la Chimera aggiunse 
E trapassolla, chè la sua gran mole 
E ’l perduto nocchier la fea più lorda. 

Sol restava Cloanto: e verso lui 
Affilandosi, al fin quasi del corso 
Con ogni sforzo il segue, e già P incalza. 
Lcvossi al ciclo un’ altra volta il grido 
Del favor che Iacea la gente tutta 
Perchè i secondi divenisser primi. 

Quelli caccia lo sdegno e la vergogna 
Di non tener il conseguito onore; 

Chè la gloria antepongono a la vita : 

Questi il successo inanima e la speme 
Di ciò poter; poich* altrui par che possano. 

I S’ eran già presso, e pareggiati I rostri 
Del pari i premii ovrian forse ottenuti; 

Se non eh’ ambe le mani al cielo alzando, 
Cotal fece a gli dei Cloanto un voto: 

Santi numi del pelago ch’io corro, 

Se T corso agevolate al legno mio, 

Nel medesimo lito un bianco toro 
Lieto consacrerovvi, c de l’ opime 
Sue viscere, c di viti limpido c puro 
L’ arena spargerovii e I" onde salse. 

Furon da P imo fondo i preghi uditi 
Del buon Cloanto da la schiera tutta 
De le Ninfe di Néreo e di Forco, 

E da la Panopéa vergine intana : 

E 7 gran padre Portunuo di sua mano 
Gli spinse il legno; onde qual vento, o strale 
Lanciossi a terra, e si scagliò nel porlo. 

Il padre Enea (com’è costume) avanti 
Convocati a sè tutti, a suon di tromba 
Dichiarò vincilor Cloanto il primo, 

E le tempie di lauro incoronògli. 

Poscia a ciascuna de le navi in douo 
Diè tre grossi giovenchi, e Ire grand’ urne 
Di prezioso vino, c di contanti 
Un gran talento. Ornò di maggior doni 
I primi condottieri. Al vincitore 
Presentò di broccato un ricco arnese 
Che d’ ostro a’ groppi sopra l’ oro avea 
Doppio un lavoro di ricamo e d’ ago. 

Nel mezzo entro al frondoso bosco Idèo 
Un rcal giovinetto era lcssulo, 

Che anelo e fiero con un dardo in mano 
Scguia per la foresta i cervi in caccia ; 



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DELL’ ENEIDE 



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i 









! 



I 



Hoc pius Acncas misso cerlaminc leiulil 
Gramincum in campuin, quem collibus undiqne cui vis 
Cingcbanl silvac; mediaquc in valle llicalri 
Circus crai, quo se multis cum millibus hcros 



E poco indi lontano un' altra volta 
Era il medesmo da l’ ucccl di Giove 
Rapilo in allo ; e i suoi vecchi custodì 
E lidi cani lo miravan sotto. 

Quegli indarno le mani al ciclo alzando 
E questi il muso, ed abbaiando a l'aura. 

A P alilo poi, che per valore il primo 
Fu per sorte secondo, in premio diede 
Per ornamento e per difesa in arme 
Una lorica che d’antica maglia, 

E di lucente e rinterrato acciaro, 

Di massiccio oro avea le fibbie e gli orli. 
Questa di Simoenla in su la riva 
Sotto V alto Ilio, e di sua propria mano 
Tolse al vinto Dcmólco. Era si grave, 

Che da Fegeo e da Sògari, due Torli 
E robusti sergenti, Ivi condotta 
Era stata a gran pena ; e pur in dosso 
L’ avea Demóleo il di che combattendo 
Mise in quella riviera i Teucri in volta. 

I terzi doni due gran nappi foro 

Di forbito metallo, e due gran coppe 
Di puro argento figurale intorno 
Con mirabile intaglio. E giù donali, 

E de’ lor doni alteri e festeggiami 
Se ne gian tutti di purpuree bende 
Le tempie avvinti, e di lentischio adorni ; 
Quando ceco da lo scoglio con grand' arte 
E con molla fatica appena svelto 
Sergesto, col suo legno infranto e monco, 

E tarpalo de’ remi in vèr la terra 
Se ne venia disonorato e mesto. 

Coin’ angue suol, eli* o sia da mola oppresso 
Tra la ripa e 'I sentiero, o sia di sasso 
Dal vtator percosso o di randello, 
Procacciando fuggir, con lunghe spire 
S’ arrosta indarno, e inalberalo e fiero 
Dal mezzo in suso arde ne gli occhi e fischia; 
E, d' altra parte, dilombato e lardo 
Dcbilmcnle guizzando, in sè medesmo 
Si ripiega, s’ attorce e si raggroppa : 

Così co’ remi la fiaccala nave 
Se ne già lenta, e con le vele a volo, 

Ch' a piene vele al fine in porlo aggiunse. 
Ed a Sergesto anco i suoi doni assegna 

II padre Enea, di ricovrar contento 

Il suo buon legno e i suoi fidi compagni. 

E furo i doni una Cretese ancella, 

Fóloc di nome, e di tclaro e d' ago 
Maestra esperta e da Minerva instrulta, 
Giovine e bella, e con due figli al petto. 

Questo primo spettacolo compilo. 

Enea per gli altri una pianura elegge 
Clic di Icalro in guisa d' ogn’ intorno 
Un selve e colli, ed un gran circo avanti. 



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Ut! ItO QUINTO 



IMI 



Conscssu medium lulit, czstrucloque rescdil. 
llic, qui ferie velini rapido conlcnderccursu, 

Imitai pretds animo*, el proemio ponil. 

Undique conveniunt Teucri mislique Siami; 

Nisus cl Euryalus primi, 

Eurjolns Torma insigni* viridique iutcnla, 

Nisus amore pio pueri; <pios deinde seculus 
llcgiu* egregia Priami de stirpe Lliores; 
llune Salius simili el Patron: quorum alter Acarttan, 
Alter ab Arcadio Tegcaeae songuinc genlis; 

Timi duo Trinacrii iuvenes, Holymus Panopesque, 
Assueli siivi*, comite* senioris Accstae; 

Multi praeterca, quos fama obscura recondit. 

Aeneas quibus in mediis sic deinde loculus: 

Accipilc bacc animi*, laelosque advorllle mente*. 
Nomo ej hoc numero milii non donalus abibil. 

Gnosin bina dabo levato lucida Terrò 
Spinila, raelatamque argento Terre bipennem. 
Omnibus lite erit unus honos. tres proemio primi 
Aceipienl. tlaiaque caput neelenlur oliva: 

Primus eqiium phalcris insignem victor Imbolo; 

Alter Amnioniam pharetrnm plenamque sagittis 
TlireVciia, lato quam circumplectilur auro 
Baltcus, el lereli subneclil fibula gemma: 

Teriius Argolica bac galea conlentus abito. 

Dace ubi dieta, locum capiunt, signoque repente 
Corripiunl spatia audito, limcnque rclinquunt, 

EITusi nimbo simile*, simul ullima signant. 

Primus abil, longeque ante omnia corpora Nisus 
Emical, cl venlis et Tulminis ocior ali*. 

Proiimus buie, longo sed prosimus intervallo, 
Insequitur Salius; spalio post deinde relieto 
Teriius Euryalus, 

Euryalumquc llelymus sequitur: quo deinde sub ipso 
Ecce volai calccmque tcril iam calce Diorcs, 
Inciimbcns bumcro; spalla cl si plura stipenditi, 
Transeat elapsus prior, ambiguumve relinqual. 
lamque fere spatio diremo, fessique, sub ipsam 
Finem adventabant; levi quum sanguine Nisus 
Labium infcliv; cacsis ut Torte iuvencis 
Fusus liuinum viridesque super inadcTeccrat berbas. 
llic iuvenis iam victor ovans vestigia presso 
llaud tenui! titubala solo; sed pronus in ipso 
Concidii immundoque limo sacroquc cruore. 

Non lamen Euryali, non ilio oblitus amorum; 

Nam sesc oppostili Solio per lubrica surgens; 

Ilio. aulem spissa iacuil rerolulus arena, 

Emical Euryalus, el munere victor amici 
Prima lenel, plausuquc Tolal Tremiluque secundo. 
Post llelymus subii, el Dune tenia palma Diorcs. 
llic totum caroae consessum ingenlis, et ora 
Prima patroni, magni* Sahus clamoribiis implct, 
Ereplumquc dolo reddi sibi pnscil honorem. 

Tulalur Tavor Euryalum, lacrimaeque decorar, 

Grotior el pulrliro tenirns in Torpore virtus. 



Ove in un palco alteramente esimilo 
Tra molli inila collocassi in mezzo. 

Qui prima al corso i corridori invita 
Con preziosi premii, c i prendi espone : 

E de’ Teucri e de’ Sicoli mostrarsi 

I più famosi. Apprescntossi in prima 
Eurialo con Niso. liti giovinetto 

Ili singoiar bellezza Eurialo era ; 

E Niso un di lui Odo c casto amante. 

Dopo questi Dioro. Era costui 
Del legnaggio di Priamo un rampollo. 
Giovine generoso ; c Salio c Palro 
Vennero appresso : d’ Atamani» I’ uno, 

D' Arcadio l' altro e del Tegéo paese : 

E due Siciliani Eliino c Pànope, 

Ambedue cacciatori, ambi seguaci 
Del vecchio Aceste ; c con questi altri assai 
D’ oscura nominanza. A cui nel mezzo 
Stando il gran padre Enea, cosi ragiona : 
Nissun da me di questa schiera eletta 
Andrà senza mici doni, c parimcnlc 
Una coppia di dardi avrà ciascuno 
Di rilucente acciaro, cd una d' oro 
E d'argento commesso a l'arabesca 
Non più risia bipenne. I principali 
Tre vincitori i primi pregi airanno, 

E San tulli d' oliva incoronali. 

E T primiero de’ Ire d' un buon destriero 
Sarà provvisto ben guarnito c bello. 

L' altro avrà d’ un' Amazzone un turcasso 
Picn di Trac e saette, un arco d' osso, 

Ed un bel cinto, a cui sono ambi appesi, 
Cli'han di gemme il fermaglio c d'ùr la Ubbia. 

II terzo d’ un'Argolica celala 

Se ne vada contento ; e sarà questa. 

Ciù dello ; c presi i luoghi, e ’l segno dato, 
S' avventàr da la sbarra : c quasi un nembo 
L' un da l' altro dispersi, insieme tulli 
Volàr, mirando al line. Il primo aranti 
Si traggo Niso, c di gran lunga avanti ; 

Ch£ va di vento c di saetta in guisa. 
Prossimo a lui, ma prossimo d' un trailo 
Molto lontano, è Salio. A Salio, Eurialo ; 
Eurialo ha di poco Elimo addietro ; 

Ad Elimo Dioro appresso tanto 
Che già sopra gli anela e già l' incalza ; 

E se T corso durava, anco l' crebbe 
0 prevenuto o pareggiato almeno. 

Eran presso a la mela, cd cran lassi. 

Quando ne l' erba, pria di sangue intrisa 
De gli uccisi giovenchi, il più fermando 
Sinistramente c sdrucciolando, a terra 
Cadde Niso infelice, e T volto impresse 
Nel sacro loto, sì clic gramo c sozzo 
Nc sursc poi. Ma del suo amore intanto 



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«00 

Adiuval, cl magna proclamai voce Diorcs, 

Qui subiil palmac, frustraquc ad proemia vcnil 
li Ili ma, si primi Salio rcddunlur honorcs. 

Tum paler Acncas, Vestra, inquii, numera vobis 
Certa mancnl, pucri, cl palmam mosci ordine nomo: 
Me liceat casus miserari iusontis amici. 

Sic fatus, tergiim Gaeluli immane leonis 

Dal Salio, villis onerosum atque unguibus aureis. 

die Nisus: Si tanta, inquii, sunt proemia viclis, 

Et le lapsorum ornerei: quae inunera Niso 
Digna dabis ? primam merui qui laude coronam, 

Ni me, quae et Salium, fortuna inimica tulisset. 

Et simul bis diclis facicm ostenlabal, cl udo 
Turpia membra limo. Risii paler oplimus olii, 

El rlipeum eflerri iussil, Didvmaonis arles, 

Nepluni sacro Danais de poste rcfìxum. 

Hoc iuvenem egregium pracslauti munerc donai. 



Posi, ubi confecti cursus, el dona pcrcgil: 

Nunc, si cui virtus animusque in pectore pracscns, 
Adsit, et evinclis aliollal bracbia palmis. 

Sic ail, et geminum pugnar proponit honorem: 
Viclori velalum auro villisque iuvcncum; 

Ensetn alque insignem galeam, solatia vieto. 

Ncc mora; continuo vastis cum viribus offerì 
Ora Darcs, magnoque viròm se murmurc lollit; 
Solus qui Paridem solilus contendere contra; 
Idcmquc ad lumulum, quo maximus occubat Ilcclor, 
Victorcm Bulen immani corporc, qui se 
Bcbrycia veniens Amyci de gente ferebal, 

Pcrculil, el fulva moribundum cxtendil arena. 



ENEIDE 

Non obblìossi ; chè sorgendo, intoppo 
Si fece a Salio ; onde con esso avvolto 
Stramazzò ne l'arena ; c mentre ei giacque, 
Eurialo del danno e del favore 
S'avanzò de l’amico, c de le grida, 

Con che gli dicr le genli animo c forza : 
Ond’ ei fu T primo, ed Elimo il secondo ; 
Rioro il (erto. E tal fin ebbe il corso. 

Ma di rumor se n’ empie e di tenzone 
Il circo lutto ; c Salio anzi al cospetto 
De’ giudici e de’ padri or si protesta, 

Or detesta, or esclama; c del tradito 
Suo valor si rammarca, e ragion chiede. 

In difesa d' Eurialo, a rincontro, 

È *1 favor della gente, c quel decoro 
Suo dolce lagrimarc, c quell' invitta 
Forza eh* ha la virtù con beltà mista. 

Grida Dioro aneli’ egli, e lui sovviene 
E sè stesso difende, poicli* il terzo 
Esser non può quando sia Salio il primo. 
Enea così decise: Aggiate voi, 

Generosi garzoni, i pregi vostri: 

E nulla in ciò de l'ordine si muti: 

Ch'io supplirò con degna ammenda al caso, 
Ond'ha fortuna indegnamente afllillo 
L’amico mio. Ciò detto, una gran pelle 
Presenta a Salio d’un leon Gelùlo, 

Ch'ha il tergo irlo di velli e l’unghic d’oro. 

E qui Niso: 0 signor, disse, di tanto 
Guiderdonate i perditori, c tale 
Di chi cade pietà vi pi eude; ed io 
Di pietà non son degno nè di pregio, 
lo che son di fortuna a Salio eguale, 

E di valore a tulli gli altri avanti? 

E ciò dicendo, sanguinoso il volto 
E livido moslrossi c lordo lutto. 

Risc il buon padre Enea; poscia un pregialo 
E degno scudo, ch'a le porte appeso 
Era già di Nettuno, ed ei riscosso 
L’avca da’Grcci, con mirabil arte 
Dal saggio Didimàone construtto, 

Venir tosto si fece, c Niso armonne. 

Finiti i corsi e dispensati i doni, 

Or, disse Enea, qual sia che vaglia cd osi 
Di forza e d'ardimento, al cèsto invito. 
Chiunque accetta, col suo braccio in alto 
Si mostri accinto. E, ciò dicendo , in mezzo 
Propon due pregi: al vincitore un toro 
Di bende il tergo adorno e d’ór le corna: 

Un elmo cd un cimiero ed una spada 
Per conforto del vinto. Incontanente 
Uscio Darete poderoso in campo, 

E con gran plauso si mostrò del volgo. 

Era Darete un clic di forze estreme 
Fu solo ardilo a star con Pari a fronte, 



DELL* 



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•unito 

Talis prima Parca caput allum in prodi» tollit, 
Oslcndilque humcros latos, altcrnaque iaclat 
Brachi» prolcmlens, et (erborai iclibus aura». 
Quacritur buie alius; ncc quisquam ei agininc taniu 
Audet adire virum, man'busque induccre ceslus. 

Ergo alacri*, cunctosque putans eccedere palma, 
Aeneae stetit ante pedes, ncc plura moralus; 

Tum lacca taurum cornu iene!, atque ita falur: 

Nate dea, si nemo audet se credere pugnar, 

Quae finis standi ? quo me decet usque teneri ? 

Ducere dona iube. Cuncti simili ore fremebant 
Dardanidae, reddique tiro promissa iubebant. 

■tic gravi* Enlcllum dictis castigai Acestes, 

Proximus ut (iridante (oro consederat licrbae: 

Entello, lieroum quondam Tortissime frustra, 

Tantalio latn patiens nullo cerlaminc (olii 
Dona sines ? Ubi nunc nobis deus illc magister 
Nequidquam memoratus Eryx ? ubi fama per omnem 
Trinacriam, et spolia illa tuia pendentia tcclis ? 

Illc sub baco: Non laudis amor, ncc gloria cessi! 

Pulsa melu: sed onim gelido* tardante senecla 
Sanguis hebet, Trigentque elTclae in corporc vires. 

Si mihi, quae quondam fucrat, quaque improbus iste 
Exsullat fidens, si nunc Torel illa iuventas: 
llaud equidem prelio inductus pulchroquc imeneo 
Venisscm; ncc dona moror. Sic deinde locutus 
In medium gemino* immani pondero ccstus 
Proiecit, quibus accr E rei in proelia suetns 
Ferro manum, duroque intendere brachi» tergo. 
Obslupuerc animi: tantorum ingenlia septem 
Terga boum pluinbo insulo fcrroque rigebant. 

Ante omnes slupel ipse Dares, longequc recusal; 
Magnanimusque Anchisiadcs et pondus et ipsa 
lluc illue tinclorum immensa columina versai. 

Tum senior tales reTerebat pectore voces: 

Quid, si quis ceslus ipsius et llerculis arma 
Vidisset, tristemque hoc ipso in lilorc pugnam? 
llacc germanus Eryx quondam luus arma gcrcbal. 
Sanguine ccrnis adirne Tractoque infecla ccrebro. 

His magnum Alcidcn conira stetit; bis ego suelus, 
Dum mclior vires sanguis dabat, acmula needum 
Temporibus geminis cancbat sparsa sencctus. 

Sed, si nostra Dares hacc Trolus arma recusal, 

Idque pio sedei Aeneae, proba! auctor Acestes, 
Aequemus pugnas. Erycis libi terga remino; 

Solve melus; et tu Troianos cxue ceslus. 

Haec fatus, dupliccm ex liumeris reiecil amictum. 

Et magnos membrorum arlus, magna ossa laccrlosquc 
Exuit, atque ingcns media consislit arena. 

Tum salii* Anchisa ceslus pater exlulit acquos, 

Et paribus palma* amborum innexuit armis. 

Constiti! in digilos exlemplo arrcctus uterque, 
Bracbiaque ad superas inlerrìtns cxlnlit aura*. 
Abduxerc retro longc capila ardua ab irlu; 
Immiscenlque manus manibus, puguamque laecssunt, 
Virgilio rat. muco. 



QUINTO IDI 

E che a la tomba del ramoso Ellorrc 
In su l'arena il gran Butc distese: 

E Tu Buie un atleta, ami un colosso 
Di corpo immane, che in Bebrizia nato , 
D'Amico si cantava esser disceso. 

Per tal da tutti avuto e tal comparso 
In su la lizza, altero ed orgoglioso 
Squassò la testa: e i grondi omeri ignudo 
Le muscolose braccia c T corpo tutto 
Brandi più volle, e menò colpi a l'aura. 
Ccrcossi un pari a lui, nò Tu tra tanti 
Chi rispondesse, o che di cèsto armalo 
S'apprcsentasse. Ond'ci lieto e sicuro, 

Come d'ogni temoli libero fosse, 

Al loro avvicitiossi, c il destro corno 
Con la sinistra sua gli prese, e disse: 

Signor, poiché non è chi meco ardisca 
Di star a prova, a ette più bado? e quanto 
Badar più deggio? Or di' che T pregio è mio 
Perch'io meco l'adduca. A ciò fremendo 
Assentirono i Teucri; e giù co'gridi 
De l'onor lo faccan degno e del dono; 
Quando verso d'Entcllo il vecchio Accste, 

Si com'egli era in un cespuglio a canto. 

Si volse, e rampognando: Ah, disse. Entello, 
Tu serpur fra gli eroi dc’nostri (empi, 

Il più nolo e il più forte; c come soffri 
Ch'un si gradilo pregio or ti si tolga 
Senza contesa? Aduuquc i stalo in vono 
Fin qui da noi rammemoralo e colto 
Erice, in ciò nostro maestro edio? 

Oc' è lo fama tua clic ancor si spande 
Per la Trinacria tutta? Ove son tante 
Appese a i palchi tue famose spoglie? 

Dispose Entello: Ni desio d'onore, 

N'è vaghezza di gloria unqua, signore, 

Mi lasciàr mai, nò mai viltà mi prese; 

Ma l'incarco de gli anni, il freddo sangue, 

E la scemata mia destrezza c forza 
Mi ritraggono addietro. Io quando avessi 
0 men quei giorni, o non mcn quel vigore, 
Onde costui di sé tanto presume. 

Già per diletto mio seco alle mani 
Sarei venuto, c non dal premio indotto, 

Chò premio non ne chero. 0 pur qui sono, 
Disse, c sorgendo, due gran césti c gravi 
Gillò nel campo, e quelli stessi, ond’era 
Solilo a le sue pugne Erice armarsi. 

Stupir lutti a quell'armi; che di sette 
Dorsi di sette buoi, di grave piombo 
E di rigido Terrò eran conserte. 

Stupì Darete in prima, e ricusollc 
A viso aperto, onde d'Anchisc il figlio 
Le prese avanti, c i lor volumi c 'I pondo 
Slava mirando, quando il vecchio Entello 
U 



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102 



DELL* ENEIDE 



lite pedum melior molu, fretusque iurenta, 

Hic membris et mole vnlens: sed larda Iremenli 
Gcnua labanl: vaslos qualil aeger anhelilus artus. 
Multa viri nequidquam inter se vulnera iaclanl, 
Mulla cavo lateri ingeminant, et pectore vastos 
Dani sonilus: erralque aurea et tempora circum 
Crebra manus, duro crepitio! sub vulnere malae. 

* Stai gravis Enlellus, nisuque immotus codem 
Corpore tela modo atquc oculis vigilantìbus exit. 
Ilio, velul celsam oppugnai qui molibus urbem 
Aut montana sedei circum castella sub armis, 

None hos, nunc illos aditus, omnemque pererrat 
Arte locum, et vari» adsultibus irritus urget. 
Ostendit dexlram insurgens Enlcltus, et alte 
Extulit: ille ictum venientem a vertice veloi 
Praevidil, celerique elapsus corpore cessiti 
Entellus vires in ventum effluii!; et ultro, 

Ipse gravis grnvilerque, ad terram pondere vasto 
Conoidi: ut quondam cava concidii aut Erymantho, 
Aut Ida in magna, radicibus eruta pinus. 

Consurgunt sludiis Teucri et Trinacria pubes; 

Il clamor coelo, primusque accurril Acestes, 
Aequacvumque ab humo miscrans alloliil amieum 
Al, non tardalus casu ncque lerritus, heros 
Acrior ad pugnam redi!, oc vim suscitai ira; 

Tum pudor inccndit vires et conscia virtus; 
Praeciplemque Parco ardens agii acquore loto, 

Nunc dexlra ingeminans ictus, nunc ille sinistra. 

Nec mora, nec rcquics. Quam mulla grandine nimbi 
Culminibus crepitanti sic densis iclibus heros 
Crcber ulraque manu pulsai versatque Parola. 

Tum pater Acneas procedere longius iros, 

Et saevire animis Eulellum haud passus accrbis; 

Sed flnem imposuil pugnae, fessumque Darela 
Eripuit, mulcens diclis, ac lalia futuri 
Infelix, quao tanta animum demenlia ccpit ? 

Non vires alias conversaquc numina 6enlis ? 

Cede deol Dixitquc, et proelia voce diremit. 

Ast illuni fidi aequales, gcnua aegra trahentem, 
lactantemque utroque caput, crassumque cruorcm 
Ore ciectanlcm, mixtosquc in sanguine denles, 
Ducunl ad naves; galeamque ensemque vocali 
Accipiunt: palmam Entello taurumque rclinquunl. 
Hic viclor, superans animis, tauroque superbus: 

Nate dea, vosque liacc, inquii, cognosoite, Teucri, 

Et milii quac fuerint iuvenali in corpore vires, 

Et qua servetis revocalum a morte Darela. 

Dixit, et adversi contra stctil ora iuvenci, 

Qui donum adstabat pugnae; durosque reducla 
Libravi! dcxlra media inter cornua cestus 
Arduus. cflìaotoque illisi! in os a cerebro. 

Slernilur, exanimisque tremens procumbit fiumi bos. 
Ille super lalcs eflundit pectore voces: 

Mane libi, Eryx, meliurcm animam prò morte Parclis 
Persolvo; hic viclor ceslus artemque repono. 



Cosi soggiunse: Or che dirla costui 
Se visto avesse i césti e Tarmi stesse 
D’Èrcole invitto; e l'infelice pugna, 

Onde in su questo lito Ericc cadde? 
P’Erice tuo fratello eran questuarmi. 

Vedi che sono ancor di sangue infette 
E d’umane cervella. Il grande Alcide 
Con queste Ericc assalsc: c con quest'io 
M'esercitai, mentre le forze e gli anni 
Eran più verdi, e non canuti i crini. 

Ma poscia che Darete or le rifiuta, 

Se piace a te, se mol consente Accstc 
Per cui son qui, di ciò. Troiano ardilo, 
Non vo’chc ti sgomenti. Io mi rimetto, 

E cedo a queste, c tu cedi a le tue. 
Combattiam con allr’armi, c siam del pari. 
Così detto, spogliossi: e sì com’era 
De le braccia, de gli omeri c del collo 
E di lutto le membra c d'ossa immane, 
Quasi un pilastro in su l’arena stelle. 

Allor Enea fece due cèsti addurre 
D'ugual peso e grandezza; ed egualmente 
Ne furo armati. In prima in su le punte 
De’piè l’un contra l’altro si levaro: 

Brandir le braccia; riliràrsi in dietro 
Con le teste alte: in guardia si posaro 
Or questi or quelli; al fine ambi ristretti 
Mischiàr le man', cd a ferir si diero. 

Era giovine l’uno, agile c destro 
In su le gambe; era membruto c vasto 
L’altro, ma fiacco in su'ginocclii c lento, 

E per lentezza (il fiato ansio scolendo 
Le gravi membra e TaCTannala lena) 
Palpitando n’andava. In molle guise 
In vnn pria si tenlaro, e molle volle 
S'awìsér, s’accennaro c s'invesliro. 

A le piene percosse un suon s’udta 
Dc’cavi (lancili, un rintonar di petti, 
lln crosciar di mascelle orrendo e fiero. 
Cadean le pugna a nembi, c vèr le lempie 
Miravan la più parie; c s’eran vóte, 

Bombi facean per l’aria c fischi c vento. 
Slava Entello fondato, e quasi immolo 
Poco de la persona, assai de gli occhi 
Si valca per suo schermo. A cui Darete 
Girava intorno, qual chi ròcca oppugna, 
Quantunque indarno, che per ogni via 
Con ogni arte la stringe c la combatte. 
Alzò la destra Entello, ed in un colpo 
Tutto s’abbandonò contra Darete; 

Ed ei, che lo previde, accorto e presto 
Con un sotto schivollo; onde ne l’aura 
Percosse a vóto, e dal suo pondo stesso 
E da T impeto tratto a terra cadde. 

Tal un allo, ramoso, antico pino 



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LIBRO OLINTO 



103 



Prolenus Acncas celeri cenare sagilla 
Invitai, qui forte velini, et praemia poni!; 
Ingenlique manu malum de nave Scresli 
Erigii; cl volucrcm traicelo in fune columbam, 



Carco de' gravi suoi pomi si svelle 
I)' un cavo greppo, e con la sua riiina 
D' Ida una parte, o d’ Erimanto ingombra. 
Allor gridò, gioì, temè la gente, 

Siccom' cran de' Sicoli e de' Teucri 
Gli animi e i voli a i due compagni affetti 
Le grida al elei ne giro. Acesle il primo 
Corse per sollevare il vecchio amico ; 

Ma nò dal caso ritardalo Kutello, 

Nò da tema sorpreso, in un baleno 
Risurse c più spedito e più feroce ; 

Citò T ira, c la vergogna e la memoria 
Del passato valor forza gli accrebbe. 

Tornò sopra a Darete, e per lo campo 
Tulio a forza di colpi orrendi e spessi 
Lo mise in volta, or con la destra in alto, 

Or con la manca, senza posa mai 
Dargli, nò spazio di fuggirlo almeno. 

Non con si folla grandine percuote 
Oscuro nembo de' villaggi i tetti, 

Come con infiniti colpi e fieri 
Sopra Darete riversossi Entello. 

Allor il padre Enea, l' un ritogliendo 
Da maggior ita e f altro da stanchezza 
E da periglio, entrò nel mezzo ; e prima 
Fermato Entello, a consolar Darete 
Si rivolse dicendo : e che follia 
Ti spinge a ciò ? Non vedi a cui contrasti ? 
Non senti e le sue forze c i numi avversi f 
Cedi a Dio, cedi : e, cosi detto, impose 
Fine a T assalto. I suoi fidi compagni 
Cosi com' era afflitto, infranto e lasso, 

Col capo spenzolato, e con la bocca, 

Che sangue insieme vomitava e denti. 

Lo porlaro a le navi ; e fu lor dato 
L'elmo, il cimiero c la promessa spada. 
Rimase al vincitor la palma c 'I toro. 

Di che lieto c superbo : 0 de la dea, 

Disse, famoso figlio, e voi Troiani, 

Quinci vedete qual ne’ miei verd' anni 
Fu la mia possa, e da qual morte aggiale 
Liberalo Darete. E, ciò dicendo, 

Recossi anzi al giovenco, e 'I duro cèsto 
Gli vibrò fra le corna. Al fiero colpo 
S‘ aperse il teschio; si schiaeciaron l’ ossa, 
Schizzò 'I cervello; e T bue tremante e chino 
Si scosse, barcollò, morto cadò. 

Ed ci soggiunse : Erice, a le quest' alma 
Più degna di morire offrisco in vece 
Di quella di Darete ; e vincitore 
Qui 'I còsto appendo, e qui l’ arte ripongo. 

Immantinente Enea l'altra contesa 
Propon dell' arco, c i suoi prendi dichiara. 
Ma l' albero condur pria de la nave 
Fa di Scrgcslo, c ne l' arena il pianta : 



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104 



LELL’ ENEIDE 



Quo tendoni fcrrum, malo suspcndil ab allo. 
Contenere viri, dcicclomque aerea sortem 
Accepii galea; el primus clamore secondo 
Hyrtacidac aule omnes exit locus Hippocoonlls; 
Qucm modo novali Mnestheus certamine viclor 
Conscquitur, viridi Mnestheus evinclus oliva; 
Terlius Eurytion, luus, o clarissime, fralcr, 
Pandare, qui quondam, iussus contundere foedus, 
In medio* teloni lorsisli primus Achivos; 

Exlrcmus galeaque ima subsidit Accstes, 

Ausus cl ipse manu iuvenum lenlarc laborcm. 

Tum vulidis flcxos incurvanl viribus arcus 
Pro se quisque viri, et depromunt tela pharetris. 
Primaque per eoelum nervo striderne sagiita 
llyrladdae iuvenis volucres diverberat anras; 

Et venit, adversique inflgilur arbore mali. 
Intremuil malus, timuitquc ex ter ri la pennis 
Ale*, et ingenti sonuerunt omnia plauso. 

Post ocer Mnestheus adducto constilit arco, 

Alla pclcns, parilerquc oculos telumque telcndìl: 
Asl ipsam miserandus avem conlingerc ferro 
Non valuil; nodo» et vincola linea rupil, 

Quis inoexa pedoni malo pendebat ab allo: 

Ilio Nolos atquc alro volans in nubila fugil. 

Tum rapidus, iamdudum arcu contenta paralo 
Tela lenona, fralrcm Eurytion in vola vocavil, 

Ioni vacuo laelnm coelo speculatus; et alis 
Plaudentem nigra flgit sub nube columbam. 
Decidi! cxanimis, vitamque relinquil in aslris 
Aelhcriis, fìxamque refert delapsa sagillam. 

Amissa solus palma superabat Acesles: 

Qui tamen aérias teloni contendil in auras, 
Ostentali* arlemque pater arcumquc sonanlcm. 
llic oculis subilum obiicitur magnoque fulurum 
Augurio monslrum; docuil post exitus ingcns; 
Seraque Icrriflci cecinerunt omina vates. 

Namque volans liquidis in nubibus arsii arundo, 
Signa' ilqtic \iam flammis, lenuesquc recessi! 
Consumta in venlos: coclo ceu saepe rcGxa 
Transcurrunt crinemque volantia sidera ducunt* 
Allonilis haescrc animi*, Supcrosquc precali 
Trina crii Teucriquc viri. Noe maximus omcn 
A bruii! Aeneos; sed laclum amplcxus Accslcn 
Aluncribtis cumulai magnis, ac lalia fallir : 

Sumc pater; nam tc voluti rcx magnus OJympi 
Talibus auspiciis nxsorlem ducere honorem. 

Ipsius Ancliisac longacvi hoc munus habebis, 
Cralera impressum sigiti*: qucm Thracius olim 
Anrhisae genitori in magno munerc Cisscus 
Terre sui dederat monumenlum et pignus amori*. 
Sic falli* cingil v iridanti tempora lauro; 

Et primum ante omnes viclorem appellai Acestcn. 
Nee bonus Eurytion praelalo invidi! Iionori; 
Quamvis solus avem coclo deiecit ab alto. 
Proximus ingrcdilur doni*, qui vincula rupil; 



Suvvi una fune, c ne la fune appende 
Una viva colomba, e per bersaglio 
La poti de le saette c de gli arcieri. 

| Tèrsi i più chiari avanti, e i nomi loro 
I Del fondo si cavàr d’ un elmo a sorte. 

Uscio primiero Ippocoonle, il figlio 
D* Irlaco generoso, a cui con lieto 
Grido la gente appiause. A Ini secondo 
Fu Mneslco, che pur dianzi il pregio ottenne 
Del navsl corso : c Mneslco, si com’era 
Di verde olivo incoronalo, apparve. 

Apparve Eurizio il terzo ; ed era questi 
Minor, ma ben di tc degno fratello, 

Pandaro glorioso, che de’ Teucri 
Rompesti i patti, c saettasti in mezzo 
A T oste Greca il gran campione Argivo. 
Ultimo si restò de I' elmo in fondo 
Il vecchio Accstc, che sì vecchio anch’ egli 
Ardi di porsi a giovenil contrasto. 

Tesero gli archi, c trasser le quadretta 
Da le faretre. A tutti gli altri avanti 
D' Irlaco il figlio a saettare accinto 
Col suon del nervo c del pennuto strale 
1/ aura percosse, e si dritto fcndella 
Clic T albero investi. Trcmonne il legno, 
Spavenlossi l’augello; e d’ alte grida 
Risuonò il campo c la riviera Inda. 

Mneslco vien dopo, c pon la mira, e scocca: 
E ’l misero fra’ piè colpisce appunto 
In su la corda, e ne recide il nodo. 

Libera la colomba a volo alzossi, 

E per lo cicl veloce a fuggir diessi. 

Eurizio allor, eh* avea giù l’ arco teso 
E la cocca in sul nervo, al suo fratello 
Votassi, c trasse; c nc lo nubi stesse 
( SI come lieta se ne giva e sciolta ) 

La ferì si che con lo strale a terra 
Cadde trafitta, c lasciò l’alma in cielo. 

Sol vi reslava Acesle, a cui la palma 
Era giù tolta; ond* ci scoccò ne I’ allo 
Lo strale a vólo, e la destrezza c l’ arte 
| Mostrò nel gesto c nel sonar de P arco. 
Quinci subitamente un mostro apparve 
Di meraviglia c di portento orrendo, 

Come si vide, c come interpretato 
Fu poi da formidabili indovini. 

Chè la saetta in su le nubi accesa 
Quanto volò, tanto di fiamma un solco 
Si trasse dietro, infin eh’ ella nel foco 
E ’l foco in aura dileguossi c sparve. 

Tal sovente dal cicl divella cade 
Notturna stella, c trascorrendo lascia 
Dopo sè lungo c luminoso il crine. 

A questo augurio attoniti i Si cani 
E i Teucri tulli, umilementc a terra 



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LIBRO QUINTO 



«05 



Evlrcmus, volturi qui (hit arundinc malum. 



Al pater Acneas, nondum cerlaminc misso, 
Custode!» ad sesc comltemquc impubi; luti 
Epytiden voeal, cl fidam sic latur ad aurem: 

Vado, ago, et Aseanio, si iam puerde paralum 
Agmen (label situiti, cursusque inslruxil «quorum, 
Duca! avo turmas, cl sesc oslcndal in armis, 

Die, ail. Ipse omnem longo decedere cirro 
Infusum popuium, el campos iubet esse palenles. 
Incedimi pueri, parilerque ante ora parcnlum 
Frctialis lucenl in equis: quos omuis cuntes 
Trinacriae mirala fremii Troiaeque iuvenlus. 
Omnibus in morem lonsa coma pressa corona; 
Cornea bina ferunl praefixo hastilia ferro; 

Pars leves Numero pharclras; il pectore sumtno 
Flcxilis oblorli per collum circulus auri. 

Trcs equilum numero lurmac, Icrnique vaganlur 
Duclores; pueri bis seni quemque seculi 
Agminc parlilo fulgent, paribusque magislris. 

Una acies iuvenum, duiil quam parvus ovanlcm 
Nomcn avi referens Priamus, tua clara, Polito, 
Progeuies, auctura llalos: quem Tliracius albis 
Porla! cquus bicolor maculi;; vestigio primi 
Alba pedis, fronlcmquc oslcnlans arduus albam. 
Alter Atys, gonus unde Atii duzere Latini; 

Parvus Atys. pueroque pucr dileclus luto. 

Eilremus, formaque ante omnes pulcher, Iulus 
Sidonio est inveelus equo, quem candida Dido 
Esse sui dederat monumento!» el pignus amoris. 
Celerà Trinacriis pubes senioris Aceslac 
Fcrlur equis. 

Evcipiunl plauso pavidos, gaudcnlquc luenlcs 
Dardanidae; velerumquc agnoscunt ota parenlum. 
Poslquam omnem laeli consessuni oculosque suorum 
Luslravcrc in equis: signum clamore parali; 



| Gitlàrsi, ed a gli dii pace chiederò. 

. Solo Enea per sinistro e per infausto 
Non l' ebbe; e T vecchio Aceslc, che gioioso 
Era di ciò, gioiosamente accolse, 

E molli doni apprcsenlogli, e disse: 

Prendi, padre, da me questi che scevri 
Da gli altri onori a le destina il ciclo 
Con questi auspicii, e questa coppa in prima, 
Un de' più cari a me paterni arredi, 

E caro e prezioso al padre mio, 

E per l' intaglio c per la rimembranza 
Del buon re Cisso, che fra gli altri doni 
Questo in Tracia gli diè pegno e ricordo 
De l’ amor suo. Cosi dicendo, il fronte 
Gli ornò di verde alloro, e dichiarollo 
Vincitor primo. Nè di ciò sentissi 
Il buon Eurizio offeso, ancor eli’ ci solo 
Fosse de la colomba il feritore. 

Di lui fu poscia il guiderdon secondo. 

Chi recise la corda ottenne il terzo; 

E l’ ultim' ebbe chi conOssc il legno. 

Non era ancor questa contesa al One, 
Quando in disparte Epitidc chiamando 
Un che di luto era custode c guida, 

Va' , gli disse a l' orecchio, c fa' che Aseanio 
Si spinga avanti, se le schiere in punto 
Ha de' fanciulli, c ch'armeggiando onori 
La memoria de f avo. Impone intanto 
Che la gente s' apparti, c il circo tutto 
Quanto è largo si sgombri c quanl’ è lungo. 
Già si mettono in via; giù nel cospetto 
Vengo» de’ padri i pargoletti eroi 
Su frenati deslricr lucenti c vaghi. 

Solo a veder gli abbigliamenti c i gesti 
Ne sta di Troia e di Sicilia il volgo 
Maraviglioso, e ne gioisce c freme. 

Parie ha di loro una ghirlanda in lesta, 

E sotto accollo e raccorciato il crine; 

Parte ha l'arco e T turcasso, c d'oro un fregio 
Che da le spalle attraversando il petto 
Scn va di serpe attorcigliato in guisa. 

Eran tutti in tre schiere; avean tre duci, 

E ciascun duce conducea di loro 
Tre volle quattro, c 'n tre luoghi sparliti 
Faccan pomposa ed ordinata mostra. 

L' una do le tre schiere avea per capo 
Priamo novello, di Polite il figlio, 

E di cui nome avea nipote illustre: 
Grand'acquisto d' Italia. Il suo desinerò 
Era nato di Tracia, d' un mantello 
Vario, balzan d* un piè, stellalo in fronte. 

Ali fu l' altro, onde i Latini han dato 
Nome a l' Alia famiglia: un fanciul caro 
Al garzoncllo luto. luto il terzo, 

Sia di bellezza c di valore il primo, 



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106 



DELL' EMIDE 



F.pytides longc dcdil. insonuitque flagello. 

Olii discorrere pares, alque agniina terni 
Diductis solvcre choris, rursusque vocali 
Converlcre vias, iufestaque tela tnlere. 

Inde alios ineunt cursus aliosqoe rcciirsus 
Advcrsis spatiis, alternisquc orbibus orbes 
Impollinili, pugnaeque cicnt simulacra sub armisi 
Et nunc terga fuga nudali!, nunc spicula vernini 
Infensi, facla parilcr nunc pace fcrunlur. 
l'I quondam Creta ferlur Labyrinlhus in alla 
Paricllbus lexlum cacsis iter ancipitemquc 
Mille viis habuìssc dolum, qua signa sequendi 
Fallerei indeprcnsus et irremeabibs errori 
Haud alio Teucròm nati vestigia cursu 
Impediunt, lexuulque fugas et proelia ludo, 
Delphinum siniiles, qui per maria humida nando 
Carpathium.Libycumquc secanl, luduntquc per undas. 
Dune inorem, hos cursus, atquc bore certamina primus 
Ascanius, Longam muris quum cingerei Albam, 
Betulit, et priscos docuil celebrare Lalinos, 

Quo puer ipse_modo, secum quo Troia pubes. 

Albani docucre suos; bine maiima porro 
Accepil Homa, et potrium servavi! honorem, 

Troiaquc nunc, purri Troianum dicitur agmen. 

Ilac celebrata lenus sanclo certamina patri. 



Uic primum Fortuna fidem mutata novavit. 
bum variis tumulo rererunt solemnia ludis; 

Irim de coelo misi! Saturnia Iuno 
Iliacam ad classem, venlosquc adspiral eunti, 

Multa movens, needum antiquum saturata dulorem. 
Ilio, viam celerans per mille coloribus arcum, 

.Nulli risa, cito decurrit tramile virgo. 

Conspicit ingentem concursum, et I i torà lustrai, 
Dcsertosquc videi portus closscmque relietam. 

At procul in sola secretae Troadcs acta 
Amissum Ancbisen flebant, cunctacque profundum 
Pontum adspectabant flentes. Hcu I tot vada fessis, 
Et tantum supcrcsse maris I vox omnibus una. 
Urbcm oranl; taedel pclagi perferre laborcm. 



Cavalcava un corsiero, il qual Sidonio 
Era di rana, e da la bella Dido 
L' area per un ricordo e per un pegno 
De l' amor suo. Gli altri fanciulli lutti 
Eran d’ Aceste in su' cavalli essisi. 

Con gran letizia, e con gran plauso i Teucri 
Gli ricevèr, come che timidetti 
Fossero in prima; e le sembiante in toro 
Avviserò e 'I valor de' padri stessi. 

Poscia che passeggiando al circo iulorno 
Giràrsi in lenta c gratlosa mostra. 

Si disposero al corso; c mentre accolli 
Se ne stavano a ciò schierati in Ala 
Da l' un de' capi, Epilide dall' allro 
Diè lor col suon de la sua sferta il cenno. 
Corsero a tre per tre, pari e disgiunti 
I,’ una schiera da I’ altra, c rivolgendo 
Tornàr di dardi e di saette armati. 

Indi a cacciarsi, a rincontrarsi, a porsi 
In varie assise, ad uno ad uno, a molli, 

A tutti insieme, a far volle c rivolte, 

E giri e mischie in più modi si diero: 

Or fuggendo, or seguendo, or come infesti, 
Or come amici. In quante guise a tufTa 
Si viene in campo; in quante si discorre 
Per le molle intricate e cicche strade 
Del Labcrinto che si dice in Creta 
Esser costrutto; in tante s' eggiraro, 

Si confusero insieme, o si spartirò 
De’ Teucri i Agli; e tali anco i delfini 
Per l' Ionio scherzando, o per I' Egeo 
Fan giravolte e scorribande c tresche. 
Questi tornéamcnli e queste giostre 
Rinnovò poscia Ascanio, allor eh' eresse 
Alba la lunga: appresegli i Latini; 

Gli manlenncr gli Albani; e d' Alba a Roma 
Fur trasportati, e vi son oggi; e come 
È I’ uso e come i giuochi derivati 
Son da Troiani, hanno or di Troia il nome. 
Questi eran Ano a qui del santo vecchio 
Celebrati al sepolcro onori c ludi; 

Allor che la Fortuna a i Teucri iniida 
Un nuovo storpio a gl’ infelici ordlo: 

Chè mentre erano in ciò parte occupati, 

E tutti intesi, la Saturnia Giuno 
Da l’ antico odio spinta, e de’ lor danni 
Non ancor sazia, Iri coi venti in prima 
Venir si fece; e poiché iostrutla l' ebbe 
Di ciò eh' er’ uopo, a la Troiana armala 
Le commise che andasse. Ella veloce 
Infra i mille suoi lucidi colori 
Occulta ed invisibile calossi. 

Vide sul lilo una gran gente accolta 
Da l'un de'lali; il porto abbandonato 
Da l'altro, e vóti e senza guardia i legni. 



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UBRO QUINTO 



H'7 



Ergo inler medias sese haud ignara nocendi 
Coniicit, el faciemquc deac vcstomque rcponil; 

Fil Beroc, Tmarii coniux longocva Dorycli; 

Cui gcnus, el quondam nomcn, natiquc fuissent; 4 
Ac sic Dardanidum mediana se malribus inferi : 

0 miserae, quas non manus, inquii, Achaica bello 
Traxerit ad lelun patriac sub mocnibus l o gens 
Infelix, cui le exilio Fortuna resemi? 

Septima post Troiae excidium iam verlitur aestas, 

Quum frela, quum lerras omnes, tot inhospila sax a, 
Sideraquc emensae ferimur; dum per more magnum 
Italiani sequimur fugicntem, et volvimur undis. 

Ilic Erycis fìnes fraterni, alque hospcs Accsles. 

Quid prohibet muros iaccre, el dare civibus urbem ? 

0 pall ia, el rapii uequidquam ex hoste Penales; 
Nudane iam Troiae dicentur mocnia ? nusquam 
Ilectoreos amnes, Xanlhum et Simoénla, videbo? 

Quin agile, et mecum infauslas exurite puppes. 

Nam mihi Cassandrae per somnum valis imago 
Ardenles dare visa faces: Ilic quaerile Troiaio; 

Iiic doniti* est, inquii, vobis. Iam (empus agi rcs; 

Nec lantis mora prodigiis. En qualuor arac 
Nepluno. Deus ipsc faces animumque ministrai. 

Haec memorans, prima infensum vi compii ignem, 
Sublalaquc procul delira connixa coruscal, 

El iacit. Arrcclae mente*, stupefactaque corda 
Iliadum. Ilic una c multis, quae maxima natu, 

Pyrgo, lol Prismi nalorum regia nulrix: 

Non Beroc vobis, non haec RhoeleTa, malres, 

Est Dorycli coniux: divini signa dccoris, 

Ardenlesquc notale oculos; qui spiritus illi, 

Qui vullus, vocisve sonus, voi gressus etmli. 

Ipsa egomcl dudum Beroén digrossa reliqui 
Acgram, indignantem, tali quod sola carerei 
Muncrc, nec merilos Ancbisae inTcrret honorcs. 

Haec HTala. 

Al malres primo ancipilcs, oculisque malignis, 
Ambiguac, spedare rales, miserum inler amorem 
Praescnlis lerrac, fatisque vocanlia regna: 

Quum dea se paribus per coelum sustulit alis, 
Ingcnlemque fuga sccuit sub nubibus arcum. 

Tum vero allonitae monslris aclaeque furore 
Conclamant, rapiunlque focis pcnctralibus ignem; 

Pars spoliant aras, frondem ac virgulta facesquc 
Coniiciunt. Furit immissis Vulcanus habenis 
Transira per et remos, et pietas abicle puppes. 

Nunlius Anchisae ad tumulum cuneosque theatri 
Incensas perfori naves Eumelus, et ipsi 
Respiciunt alram in nimbo volitare faìillam. 

Primus et Ascanius, cursus ut laetus equestres 
Ducebat, sic acer equo turbata petivit 
Castra; nec exanimes possunt relinere magistri. 

Quis furor iste novus ? quo nunc, quo lenditis, inquii, 
Heu miserae cives ? Non hostem inimicaquc castra 
Argivùm, veslras spes urilis. En, ego vester 



Vide poi che da gli uomini in disparte 
Slaian le donne d’ilio, il morto Anchise 
Piangendo anch’esse; e ne'lor pianti il mare 
Mirando: Oli, diccan tulle, ancor di tanto, 

E con tanti perigli e tanti affanni 
Ne resta a navigarlo, e siam già viole 
Da la stanchezza! in ciò desìo mostrando 
Di ricelto e di posa, e lema e tedio 
Di rimbarcarsi. Ella, clic a nuocer luogo 
E tempo vide accomodato e atto, 

Deposto de la dea l’abito e ’l volto, 

Tra lor si mise, e Beroc si fece: 

Una vecchia d'aspetto c d’anni grave, 

Clic del Tmario Dotìclo era già moglie, 

Di famiglia, di nome e di figliuoli 
Matrona illustre, e tal sembrando disse: 

0 mcschinclle, a cui per man de’Greci 
Non fu sotto Ilio di morir concesso, 

Gente infelice, a che strazio , a che scempio 
La Fortuna yì serba I Ecco già volge 
Il sellini' anno da che Troia cadde, 

Che ’l mar, la terra, il del, gli uomini, i sassi 
Avete incontro, e pur Lazio seguile 
Clic vi fugge d’avanti? Or che vi toglie 
Di qui fermarvi? Nonfur questi liti 
D’un già frale d’Enea? Non son d’Aceste 
Ospite nostro? E perchè qui non s’erge 

1 a città che dal cicl ne si destina? 

0 patria I o da’ nem ci invan ritolti 
Santi numi Penati I Invano adunque 
Aspetterem de la novella Troia 

Le desiate mura? c non da mai 
Che più Xanlo leggiamo o Simoénla? 

Su, llglie, mano al foco; e queste infauste 
Navi ardete con me; ch’io da Cassandra 
Di così far son ammonita in sogno. 

Ella con uu’ardenle face in mano 
Questa notte ni’apparvc, e m’era avviso 
D’csser com'or son vosco, e ch’ella, vòlta 
Vèr noi, prendete, ne dicesse, e Troia 
Cercale qui; chè qui posar v’è dato. 

Or questa è nostra patria, c questo è’1 tempo 
Di compir I opra che’! prodigio accenna. 

Più non s’indugi. Ecco Nettuno stesso 
Con questi quattro a lui sacrali altari 
Nc dà l’occasiou, l’animo e ’l foro. 

Ciò disse ; cd ella in prima un lizzo ordenle 
Rapì da Pare; c'I braccio allo vibrando 
Hi più l'accese, e vèr le navi trasse. 

Confuse ne restaro c stupefatte 
Le donne d’ilio; e Pirgo una di loro, 

Ch’era d'anni maggiore, e fu di molti 
Figli del gran re Priamo nutrice, 

Donne, disse, non è, non è cosici 
Nè Troiana, nè Beròe, nè moglie 



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108 



DELL' ENEIDE 



Ascanius. Calcarti arile pcdes proiecil Inancm, 

Qua ludo indulus belli simulacra cicbal. 

Accelerai simul Attica», siimi) agmina Tcucròm. 

Ast illac ditersa nielli per lilora passim 
DilTugiunl; silvasquc cl sicubi coucava rurtim 
Saia pelunt. Pigcl incepli lucisquc, suosque 
Mutarne agnoscuot, eicussaque pectore Iudo est. 
Scd non idcirco flammac atquc incendia vires 
Indomilas posuere: udo sub robore vitil 
Sluppa vomeri» lardum furnum, lenlusquc carinas 
Est vapor, et tolo dcsccndit corporo peslis; 

Nec vires lieroum inrusaque Rumina prosunl. 

Tum pius Aencas humeris abscindere vestem, 
Auiilioque vocare deos, el tendere palmas: 
lupiler oinnipotcns, si nondum eiosus ad unum 
Troianos, si quid pietas antiqua iabores 
Hespicit humanos; da flammam evadere classi 
Nunc. pater, cl tcnues Tcucròm res eripc leto; 

Vel tu, quod supcrcst, intesto fulmine morti, 

Si mercor, domine, tuaque hic obrue delira. 

Vii hacc edideral, quum effusis imbribus atra 
Tempesta» sine more furil, tonitruque trcmiscunl 
Ardua terrarum, et campi; ruit aclliere loto 
Turbidus imber aqua, densisque nigerrimus austris, 
Implcnturque super puppcs; semiusla madescunt 
Robora; rcstinctus doncc vapor omnis, et omnes, 
Quatuor omissis, servarne a peste carinac. 



Fu di Doriclo: i dea. Notale i segni: 
Com'arde ne la vista, c quali spira 
Ne l'andar, ne la voce c nel sembiante 
Celesti onori, lo pur testé mi parto 
Da Berne elle di corpo egra languendo 
Stassi, c sdegnando che a quest'alto sola 
Nosco non intervenga. E qui si tacque. 

Le madri paventose e dubbie in prima 
Con gli occhi biechi rimiràr le navi, 

Sospese le meschine infra l'amore 
Di godersi la terra, o la speranza 
Clicperdcan dc'rcami, a cui chiamate 
Eran dal Fato. Intanto alle in su l'ali 
La dea levossi, e tra le opache nubi 
Per entro al suo grand'arco ascese, e sparve. 
Allor dal mostro spaventate, e spinte 
Da cieca furia, s'avienlèr gridando; 

E di faci c di fronde c di virgulti 
Spogliaro altre gli altari, altre infocaro 
1 legni si che in un momento appresi 
I banchi, e i remi e l'impeciate poppe 
Mundàr fiamme c scintille c fumo al ciclo. 
Portò di questo incendio Euinclo avviso 
Là 've al sepolcro era la gente accolta, 

E do l'incendio stesso un atro nembo 
Ne dii fumando e scintillando imbeio. 
Ascanio il primo (siccom'cra avanti 
Duce del corso) al mar si spinse in guisa 
Che i suoi maestri impallidir per tema, 

E richiamando lo seguirò in vano. 

Giunto che fu; Che furor, disse, i questo? 
Dove, dove ne gite? e che tentate. 

Misere cittadine? Ahi che non questi 
De'Grcci i legni, o gli steccali sono. 

Voi di voi stesse le speranze ardete. 

Io sono il vostro Ascanio. E qui l’elmetto, 
Onde a la giostra era comparso armalo, 
Gillossi a piè. Corsevi intanto Enea: 

Vi corsero deTcucri e dc'Sicani 
Le schiere tutte. Allor per tema sparse 
Le donne per lo lito e per le selve 
Se ne fuggirò; ed appiattarsi ovunque 
Ebber di rupi o di spelonche incontro; 

Che pentite del fallo odiàr la luce, 

Cangiàr pensieri, e con l'amor dc'suoi 
fri del petto disgombrimi e Giuno. 

Ma non però l'indomito furore 
Cessò del foco; che la secca stoppa, 

E l'unta pece, c gli aridi fomenti 
L'avcan Un dentro a le giunture appreso: 
Onde nel molle, ancor vivo, esalava 
Un lento fumo, e penetrava i fondi 
SI ch’ogni forza, ogni argomento umano, 

E T mare stesso, che da tante genti 
Sopra gli si versava, erano in vano. 



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LIBRO QUINTO 



109 



At pater Acneas, cnsu concussus acerbo, 

Nunc bue ingentes none illue pectore curas 
Mulabat versans, Siculisne residenti arvis, 

Oblilus Fatorum, Itslasnc capesseret oras. 

Tum senior Nautes, unum Triionia Pallas 
Quem docuil, multaque insignem reddidil arte, 
llacc responsa dabat, vcl quae portenderel ira 
JUagna deùm, vel quae Fatorum posceret ordo. 

Isque bis Acneam solalus vocibus infit: 

Nate dea, quo Fata Irahunl retrahuulque, sequamur. 
Quidquid erìt, superando omnis Fortuna Ferendo est. 
Est libi Dardanius divinar stirpis Acesles : 

Ilunc cape consiliis socium et coniunge volentcm; 
lluic Iradc, omissis supcrant qui navibus, etquos 
Pertoesum magni incepti rcrumque tuarum est ; 
Longaevosque scnes, et Fessas aequore maires, 

Et quidquid lecum invalidum metuensquo perieli est 
Delige; et, bis habeanl terris, siue, moenia Fessi ; 
Urbem appcllabunl pcrmisso nomine Aceslam. 



Talibus inccnsus diclis senioris amici. 

Tum vero in curas animum diducilur omnes. 
Et Noi atra polum bigia subvccta lenebai ; 
Visa debine coclo Facies dclapsa parcntis 
Anchisac subito talea elTunderc voces : 

Nate, mibi vita quondam, dum vita manebat. 
Care magis; nate, lliacis esercite fatis; 

Vinci liu vol. calco. 



Squarciossi Enea da gli omeri la veste 
Ch’avca lugubre, e da’ celesti aita 
Chiedendo, al cicl volse le palme, e disse: 
Onnipotente Giove, se dcTeucri 
Ancor non t'è sema riservo in ira 
La gente tutta, se qual sei, pietoso 
Miri a gli umani affanni, a tanto incendio 
Ritogli, padre, i male addotti legni; 

Ritogli a morte queste poche afflitte 
Reliquie de’Troiani; o quel che resta 
Tu col tuo proprio tèlo, e di tua mano 
(Se tale è il merlo mio) Folgora e spegni. 
Ciò disse appena, che da torbidi austri, 

E da nera tempesta il cielo involto 
In disusala pioggia si converse. 

Tremerò I campi, si crollare i monti 
Al suon de' tuoni: a cataralle aperte 
Traboccar da le nubi i nembi e i Homi. 

Cosi sotto dal mar, sovra dal ciclo 
Le già quasi arse navi in meno accolte 
Furon da Tacque: onde le fiamme in prima, 
Poscia il vapor s'estinsc; e tutte spente, 

Se non se quattro, si saivaro al fine. 

Di si Fero accidente Enea turbato. 

Molti e gravi pensicr tra sè volgendo. 

Slava inFra due, se per suo novo seggio 
(Posto il Fato in non cale) ci s'eleggesse 
De la Sicilia i campi, o pur di lungo 
Cercasse Italia. In ciò Naule, un vecchione, 
Ch'era (mercè di Pallade c de gli anni) 

Di molla esperienza e di gran senno, 

0 Fosse ira di dio, che lo movesse, 

0 pur ch'era cosi nel cicl prescritto, 

In colai guisa a suo conTorto disse: 
Magnanimo signor, comunque il Fato 
Ne tragga, o ne ritragga, c che clic sia, 
Vincasi col sofliire ogni Fortuna. 

Accslc i qui, cb'è del Dardanio seme 
E di stirpe celeste un ramo anch'egli. 

Prendi lui per compagno al tuo consiglio, 

E con lui ti con Federa e t'aduna, 

Che in grado prendcrallo; c tu de’luoi 
Ciò che t'avanza per gli adusti legni, 

O Fastidilo è di si lungo esigilo, 

0 che langua o che tema, o che sia manco 
Per elale o per sesso, a lui si lasci, 

CITÒ pur Troiano; ed ci lor patria assegni, 
Che dal nome di lui si nomi Accsta. 

S'accese al dello del suo vecchio amico 
Il Troiai! duce; e trapassando d'uno 
In un altro pensiero, era già notte, 

Quando l'imago del suo padre Anchise 
Veder gli parve che, dal cicl discesa. 

In lai guisa dicesse: 0 figlio, amato 
Vie più de la mia vita infin ch'io vissi, 

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110 



DELL’ ENEIllE 



Imperio lovis bue renio, qui classìbus ignem 
Depulit, et coelo landem miscralus ab allo esl. 

Consiliis pare, quae nunc pulcherritna Naules 
Dal senior : leelos iuvenes, forlissima corda, 

Defer in Italiani. Gens dura alquc aspcra cullu 
Debellando libi Lalio est. Ditis tamen anta 
Infcrnas accede domos, et Averna per alla 
Congressus pelo, naie, meos. Non me impia namque. 
Tarlara habenl tristesve umbrac; sed amoena piorum i 
Concilia Elysinmquc colo. Iluc casla Sibylla 
Nigrarum multo pecudum le sanguine ducei. 

Tum gcnus omnc tuum, el, quae dentur moenia, disccs. 
lamque vale : torqucl medios Noi Numida cursus; 

El me saevus equis Oriens afTlrml anhclis. 

Diieral, el lenucs fugil. ceti fumus, in auras. 

Acneas, Quo deinde ruis ? quo proripis? inquit, 

Quem fugis? aul quis le noslris complexibus arcel ? 
llacc memorans cinerem et sopilos suscilal ignes ; 
Pergameumque Larcm et canae penelralia Veslae 
Farre pio el piena supplcs vencralur acerra. 



Exlcmplo socios primumque arcessil Aceslen, 

El lovis impcrium el cari praecepla parenlis 
Edoccl, et quae nunc animo senlenlia constet. 
Ilaud mora consiliis, nec lussa recusal Acesles. 
Transscribunl urbi malres, populumque volcntem 
Deponunt. animos nil magnae laudis cgenlcs. 

Ipsi transira nolani, flammisque ambesa reponnnl 
Ilo Im ra nniigiis; spiani remosque rudenlcsque, 
Evigui numero, sed bello vivida virlns. 

Inlerea Aeucas urbern designai aratro, 

Sorlilurque domos; hoc llium el haec loca Troiani 
Fisse iubet. Gaudcl regno Troianus Acestes, 
ludicilquc forum, et patribus dal iura vocatis. 
Tum vicina aslris Erycino in vertice sedes 
Fuodalur Veneri blaliae, tumuloque saccrdos 
Ac lucus late saccr addilur Ancbiseo. 
lamque dies epnlala nnvem gens omnis, et aria 
F'aclus lionos; placidi straverunl aequora venti, 
Crehcr et adspirans cursus vocal Auslcr in alluin. 
Eioritur procurva ingens per litora Oclus; 
Compievi iulcr se noelemque dicmquc morantur. 
Ipsac iam malres, ipsi, quibus aspcra quondam 
Visa maris facies, el non lolerabile nomen, 



Figlio, clic segno sei de le fortune, 

E del falò di Troia, io qui mandato 
Son dal gran Giove, che dal ciel pietoso 
Ti mirò diami, c i tuoi legni rimise 
Da l'orribile incendio. Adirmi al dello 
Del vecchio Natile, e ne malia adduci 
(SI come ci fedelmente li consiglia) 

De la tua gioventù soli i più scelti, 

I più sani, i più forti e i più famosi, 

Ch’ivi aspra genie c ruvida ? feroce 
Domar convieni!. Ma concienti in prima 
l’or via d'Avcrno ne l'inferno addurli, 

E meco ritrovarli, ov’ora io sono, 

F'iglio, non già del Tartaro, o fra l’ombre 
De le perdute gemi, ma felice 
Tra i felici c Ira’ pii per quegli ameni 
Elisii campi mi diporto e godo. 

A questi lochi, allor che molto sangue 
Arrai di negre pecorelle sparso, 

Ti condurrà la vergine Sibilla. 

Ivi conio saratti il tuo legnaggio, 

E 'I luo seggio fatale: e qui li lascio; 

Già clic varcalo è de la none il meno, 

E del nimico sol diclro anelando 
I veloci dcsiricr venir mi senio. 

E, ciò dicendo, allonlauossi, c sparve. 
Dove, padre, ne vai, dove l' ascondi? 
Dicendo Enea, ctiè fuggi? o chi ti toglie 
Da le mie braccia? al già sopito foco 
Si trasse, c lo raccese; e incenso c farro 
Oflrl devoto a i sacrosanti numi 
De l'alma Vesta, e dc'suoi pairii Lari. 

Indi i compagni, e pria di lutti Aceste; 
De l'imperio di (bove, c de’ricordi 
Del caro padre incnnlanenlc avvisa 
E T suo parer ne porge. In un momenlo 
Si propon, si consulla e s’escguisce. 

Aceste non recusa; e son descritti 

I nomi de le madri, de gl'infermi, 

E de le genti che mestiere, o cura 
Avcan più di riposo che di lode. 

Essi pochi, ma scelli, e gucrrier tulli 
llivolti a risarcir gli adusti legni 
Rinnovaron le sarte, i remi, i banchi. 

E ciò ch'il foco avea corroso cd arso. 

Enea de la cillà le mura tiriamo 
Insolca, c i lochi assegna ; e parie Troia, 

E parie Ilio ne chiama, e ne n' appella 

II buon Troiano Acesle. Ei lieto incarco 
Nc prende ; indice il fòro, elegge i padri, 
Ode, giudica e manda. Allor in cima 

De rEricinio giogo il gran delubro 
Surse a Venere Idalia : e i sacerdoti 
Gli s'addissero in prima. Allor s' aggiunse 
Al tumulo d' Anchisc il sacro bosco. 



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LlliltO QUINTO 



111 



Ire voluti!, omnemque fuga e perferre labore™. 
Quos bonus Aeneas dictis solatur amicis, 

El consanguineo lacrimans commendai Acestae. 
Tres Eryci vilulos, el Tempcslalìbus agnam 
Caederc deinde iubet, solvique c« ordine funetn. 
Ipse, caput lonsac follia cvinclus olivac, 

Slans procul in prora patera™ lencl, evlaque salsos 
Porricil in flucliis, ac vina liquenlia fundil. 
Prosequilur surgens a puppi vcnlus eunles. 

Celiali™ socii feriunt mare, el aequora vcrrunl. 



Al Venus inlerea Neptunu™ eiercila curia 
Atloqnilur, lalesque cITundil peclore queslus: 
lunonis gravis ira nec cvsaturabilc peclus 
Cogonl me, Neplunc, preccs descendere in oranes: 
Qua™ nec longa dies, pietas nec mitigai ulta; 

Nec lovis imperio falisvc Infranta quiescil. 

Non media de genie Plirygum evedisse nefandis 
Urbcm odiis salis est, nec poenam Irate per omnem: 
Kclliquias Troiac, cinerea atquc ossa peremlac 
Insequilur. Caussas tanti sciai iila fureria. 

Ipse inibì nupcr Libycis tu lestis in undis 
Quani molem subito cvcieril. Maria omnia coelo 
Miscuil, Acoliis nequidquam frela proccllis, 

In regnis hoc ausa tuia. 

Per seelus ecce ctiam Troianis matribus aclis 
Esussil foede puppcs; et classe subegil 
Amissa socios ignolae linquere terree. 

Quod superesl, oro, liceat dare luta per undas 
Vela libi: liceat Laurenlem attingere Tbybrim, 

Si concessa pelo, si dant ca moenia Parcac. 



Tum Saturnius liacc domitor maris edidit alti: 
|as orane est, Cylherea, meis le Dderc regnis, 
Inde genus ducis; racrui quoque. Sacpe furores 
Compressi et rabicm lantani coelique marisque. 



Area già nove di fatti solenni 
Sacrilicii e conviti ; e T mare e i venti 
Erari placidi e queti. Austro sovente 
Spirando, in alto i lor legni invitava. 
Quando un pianto dirotto per lo lilo 
Levossi, un condolersi, un abbracciarsi 
Cile lutto il di durò, tutta la notte. 

Le meschinellc donne, e quegli stessi, 

Cui dianzi spaventosa era la faccia, 

E T nome intollerabile del mare, 

Voglion di nuovo ogni marin disagio 
Soffrire, e de I’ csiglio ogni fatica; 

Ma li racqucta e li consola Enea 
Con dolci modi, e lagrimando al line 
Da lor si parte, ed al suo caro Acestc 
Quanto più caramente gli accomanda. 
Poscia, falla al grand' Erice in sul lito 
Di tre giovenchi offerta, e d' un' agnello 
A le Tempeste, si rimbarca e scioglie. 

Egli slesso altamente in su la proda, 

Cinto il capo d' olivo, una gran tazza 
In man si reca, e di lenco liquore, 

E di viscere sacre il mare asperge. 

Sorgea da poppa il vento, e le sals’ onde 
Ne gian solcando i remiganti a gara; 

Quando del figlio Citcrea gelosa 
Nettuno assalse, e seco querelossi 
In colai guisa : La grav’ ira o l' odio 
Di Giuno insaziabile m’ inchina 
Ad ogni priego ; poscia che nè 'I tempo 
Nè la pietà, nè Giove, nè T destino 
Acquetar non la ponno. E non le basta 
D' aver già Troia desolata ed arsa, 

Che le reliquie, il nome c l’ ossa e 'I cenere 
Ne perseguita ancora. Ella ne sappia, 

Ella ne dica la ragiono. Io chiamo 
Te per mio teslimon do l' improvvisa 
MicidTal tempesta clic pur dianzi 
Per mezzo de l'Eolide procelle 
Mosse lor conira ( tua mercede ) in vano. 
Or ba T iniqua per le mani stesse 
De le Teucre matrone i Teucri legni 
Dati si bruttamente al foco in preda, 

Perchè i meschini arse le navi loro, 

Sian di lasciare i lor compagni astretti 
Per le terre straniere. Or quel che resta, 

E ch'a te chieggio, è clic il tuo regno ornai 
Sia lor sicuro, e eh' una volta al line 
Tocchin del Tebro e di Laureola I campi, 
Se perù quel di' io chieggio è che dal cielo 
Al mio figlio si debba, c se quel seggio 
Ne dan le Parche c ’l Fato. 

A lei de l' onde 

Rispose II domatore : Ogni fidanza 
Prender puoi, Citerca, ne’ regni mici, 

Onde tu pria nascesti. E non son pochi 



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112 



UELL'ENEIUE 



Nec minor in lerris, Xanlhum Simocntaque leslor, 
Aencac milii cura lui. Quum Troia Achilles 
Esanimata sequens impingerct agmina muris, 

Mìllia mulla darei leto, gemercntquc repleli 
Amncs, ncc reperire viam atque evolvere posset 
In mare se Xanthus; Pclidac lune ego forli 
Congressum Aeneam, ncc dia ncc viribus aequis, 
Kubc cova rapui: cuperem quum vertere ab imo 
Slrucla mcis manibus periurae mocnia Troiac. 

Nunc quoque mena eadem pcrslal milii; pelle limorcu 
Tutua, quoa oplaa, porlua accedei Averni, 
linus crii tanlum, omiasum quem gurgilc quaercl; 
llnum prò umilia dabilur caput. 

His ubi lacta dcae permutai! pcclora diclìa: 
lungi! equoa auro gcnilor, spumanliaquc addi! 
Frena feris, manibusque omnes elTundit babenaa. 
Cacruleo per summa levi* vola! acquora curru. 
Subsidunl undae, tumidumque sub ave tonanti 
Slcrnilur aequor aquis; fugiunl vasto aellicrc nimbi. 
Tum variac comiluni facies; immania cete, 

Et senior dauci ctiorus, Inousquc Palaemon, 
Triloncsquc citi, Phorciquc cicrcitus omnia; 
l,acva tcnent Tlielis, et Melile, Panopcaquc virgo, 
Ncsace, Spioquc, Tlialiaquc Cymodocequc. 



Ilic patria Aeneac suspcnsam bianda vicissim 
Gaudia pertentant mcntem; iubel ocius omnes 
Attuili malos, intendi brachia velia. 

L'na omnes fecere pedem; pariterque sinistros, 
None detlros solvere sinus; una ardua lorqucnt 
Cnrnua dclorqucnlque; ferunl sua (lamina classem 
Princcps ante omnes densum Palinurus agebat 
Agmen: ad hunc alii cursum contendere iusai. 
Iamque fere mediani coeli noi hurnida metam 
Conligerat: placida laiaranl membra quiete 
Sub remis fusi per dura sedilia nautae: 

Quum levis aelheriis dclapsus Somuus ab astris 
Aèra dimovit tcnebrosum, et dispulil umbras. 

Te, Palinurc, petcns, libi somnia trislia portans 
lnsonti; puppique deus consedit in alta, 

Phorbanti similis, funditque has oro loquelas : 
Iaside Palinure, ferunt ipsa acquora classem ; 



Ancor teco i miei merli ; clic più volte 
Ho per Enea l’ ira e il furore estinto 
E del mare c del cielo. Ed anco in terra 
Non ebb’ io ( Xanto e Simoenta il sanno ) 

De la salute sua cura minore. 

Allor eh' Achille a le Troiane schiere 
SI parve amaro, che (in sotto al muro 
Le cacciò d' Ilio, e tal di lor fe' strage, 

Che ne gir gonfl e sanguinosi i fiumi ; 

E Xanto de' cadaveri impedito 
Sboccò ne’ campi, e deviò dal mare. 

Era quel giorno Enea d' Achille a fronte, 

Nò dii, nò forze avoa eh' a lui del pari 
Stessero incontro, lo fui che nella nube 
Allor l' accolsi : io che di man nel trassi 
Quando più d' atterrar avea desio 
Quelle mura odiose e disleali, 

('.he pur de le mie mani cran fattura. 

Or ti conforta che vòr lui son io 

Qual fui mai sempre, c, come agogni, il porlo 

Attingerò sicuramente; e ’l lago 

Gli s’aprirò. Sol un convien che péra 

Per condor gli altri suoi lieti e sicuri. 

Poiché di Citcrea la mente qucla 
Ebbe de l' onde il padre, i suoi cavalli 
Giunti insieme c frenati, a lente briglie 
Sovra de l’ alto suo ceruleo carro 
Abbandonossi, c lievemente scorse 
Per lo mar tutto. S'adeguaron 1' onde, 

Si dileguòr le nubi : ovunque apparve 
Tulio sgombrassi, del suo corso al suono, 
di' avea di lorbo il cicl, di gonfio il mare. 
Cingran Nettuno allor da la man destra 
Torme dì pistri c di balene immani. 

Ili Glauco il vecchio coro, e d‘ Ino il figlio, 

E; i veloci Triioni, e lutto insieme 
Lo stuol di Forco. Da sinistra intorno 
i Gli era Teli, Melile c Panopéa, 

Spio, Niséa, Cimodocc e Talla. 

Qui per l’ amara dipartenza afllitlo 
Il padre Enea rassercnossi in parte, 

E ciò che a navigar facea mestiero 
Gioiosamente a' suoi compagni impose. 

Tirar l’ antenne, inalberòr le vele. 

Sciolsero, ammainòr, cataro, alzaro, 

Fòr le marinercscbc lor bisogne 
Tutti in un tempo, ed in un tempo insieme 
Drizzàr le prore al mar, le poppe al vento. 
Innanzi a tutti con più legni in frotta 
Già Palinuro il provvido nocchiero, 

E gli altri dietro lui di mano in mano. 

Era l’ umida notte a mezzo il cerchio 
Del ciel salita, e giò languidi e stanchi 
Su i duri legni i naviganti agiati 
Prendean quiete; quando ecco da P alte 
Stelle placido c lieve il Sonno sceso 



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LIBRO QUINTO 



m 



Aoqiialae spiraul aurar; dalur Bora quieti. 

Pone caput, Tessosque oculos Turare labori. 

Ipse ego paullisper prò le tua menerà inibo. 

Cui vii allollcns Palinurus lumina Talur: 

Mene salir placidi vultuin fiuclusquc quiclos 
Ignorare iubes ? mene buie collidere monslro ? 
Aenean credam quid euim, Tallacibus auris 
Et coeli lolies deceptus fraude sereni ? 

Talia dieta dabal, clavumque afllvus et baercns 
Nusquam amitlebat, oculosque sub astra tenebat. 
Ecce deus ramum I.elhaco rore madentem, 

Vique soporatum Slygia, super utraque quassat 
Tempora; ennetantique nalanlia lumina solvit. 

Vii primos inopina quies laiaveral artus : 

Et super incumbcns, cum puppis parte revulsa, 
Cumquc gubernaclo, liquidas proiecit in undas 
Praecipitcm ac socios ncquidquam saepe vocantem. 
Ipse volans tenues se suslulil alcs ad auras. 

Curri! iter tulum non sccius aequore classis, 
Promissisquc palris Nepluni interrila fertur. 
lamque adeo scopulos Sirrnum adtccla subibat, 
OilUciles quondam, niultorumque ossibus albos, 
Tum rauca adsiduo longe sole saia sonabanl: 

Quum pater amisso fluiiantcm errare magistro 
Sensi!, et ipse rateai nocturnis reiit in undis', 

Multa gemens, casuque animimi concussus amici: 

0 nimium coclo et pelago conO.se sereno, 

Nudus in ignota, Palinure, iaccbis arena. 



Si fece quanto area d’ acre intorno 
> Sereno e quoto ; e te, buon Pallnuro, 

Senza tua culpa, insidioso assalsc 
Portando a gli ocelli tuoi tenebre eterne. 

Ei di Forbanle marinaro esperto 
Presa la Torma, come nolo, appresso 
In su la poppa gli si pose, e disse : 

Tu vedi, Palinuro ; il mar ne porla 

Con le stesse onde, e’1 vento ugual ne spira. 

Tcmp' ì che piìsi ornai : china la lesta, 

E Tura gli ocelli a la Tatica un poco 
Poscia di' io son qui teco, c per te veglio. 
Cui Palinuro, già gravato il ciglio, 

Cosi rispose : Ah tu non credi adunque 
Ch* io conosca del mar le perfìd* onde, 

E 'I Talso aspetto ? A tale infido mostro 
Ch’ io Odi il mio signore c i legni suoi ? 

Ch' al Tallacc sereno, ai venti instabili 
Presti Tede io, che da lur Tui deluso 
Già tante volte ? E, ciò dicendo, avea 
Le man Terme al timon, gli occhi a le stelle. 
Il Sonno allora di Lctéo liquore, 

E di Sligio veleno un ramo asperso 
Sovra gli scosse, e l' una tempia e T allra 
Gli spruzzò si che gli ocdii ancor rubelli 
Gli strinse, gli gravò, gli ehiusc al Pine. 
Appena avean le prime gocce inTusa 
l.a lor virtù, die T buon nocchier disteso 
Ne giacque : e 'I dio col suo mentito corpo 
Sopra gli si recò, pinse e sconfisse 
Un gheron de la poppa, e lui con esso 
E col temon precipitò nel mare. 

Nè gli valse a gridar cadendo aita, 

Chè l' un qual pesce, c l' altro qual augello, 
Questi ne 1' onda, e quei ne U aura sparve. 
Nè U armala ne gio però rnen ratta, 

Né mcn sicura ; che Nettuno stesso, 

Come promesso avea, la resse e spinse. 

Era delle Sirene ornai solcsodo 
Giunta agli scogli, perigliosi un tempo 
A' naviganti ; onde di loschi e d' ossa 
D' umana gente si vedeau da lunge 
Biancheggiar lutti. Or sol, di canti in vece, 
Se n' ode un roco suoli di sassi e d' onde. 
Era, dico, qui giunta, allor di' Elica 
Al vacillar del suo legno s'accorse, 

Cile di guida era scemo e di temone : 

Ond' egli slesso infin che T giorno apparve 
Se ne pose al governo, e T caso indegno 
Del caro amico in tal guisa ne pianse : 
Troppo al sereno, e troppo a la bonaccia 
Credesti, Palinuro. Or ne l' arena 
Dal mar gittato in qualche strano lito 
Ignudo e sconosciuto giacerai, 

Nè chi l' onori avrai, nè chi li copra. 



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LIBRO SESTO 



Sic fatur lacrimali* , clossique immilli liabcnas, 

Et tandem Euboicis Ciunaruni allabitur oris. 

Obvcrlunt pelago proras; tum dente tenaci 
Ancora fundabal naves, et litola curvai: 

Praetcìunl poppo:; iuvenom manus cmical ardens 
Lilus in llespcrium; quaerit pars semina llanunae 
Abstrusa in tcnis sitici*; pars densa ferarum 
Tecla rapii, silras, inventaque (lumina monstre!. 

Al pius Aeneas arces, quibus allus Apollo 
Praesidel, horrendaeque procul secreta Sibjllae, 
Aiilrum immane, petit, magnani cui metileni auimumque 
Oclius inspirai talee, apcrilqiie futura, 
ium subeunl Triviac lucos alque aurea teda. 



Daedatue, ut fama est, fugicns Mi noia regna, 
Pracpelibus pennis aitsus se credere coclo, 

Insuclum per iter gelidas enavit ad Arclos, 
Chalcidicaque levis tandem super adslilil arce. 
Rcddilus bis primuin terris, libi, Pbocbe, sacravi! 
Remigium alarum, posuitque immauia tempia. 

In foribus Ictum Androgci; tum pendere poenas 
Cccropidae iussi ( miserum I ) septena quolannis 
Corpora nalorum; stai ductis sorlibus urna; 

Centra data mari responde! Gnosia tellus. 

Ilic crudelis amor tauri, supposlaque furto 
Pasipbae, mislumquc gcnus prolesque biformis 
Alinotaurus inest, Vencris monumenta nefandae ; 

Ilic labor ilio domus, et inextrieabilis error; 
Daedalus, ipse dolos tedi ambagesque rcsolvil. 
Cacca regens filo vestigio. Tu quoque magnam 
Parlcm opere in tanto, sinerel dolor, Ieare, haberes. 
Ilis conalus crai casus efDngerc in auro, 

Ris palriae cccidere manus. Qnin protenus omnia 



Cosi piangendo disse; e navigando 
Di Cuma in vèr l'Euboica riviera 
Si spinse a lutto corso, onde ben tosto 
Vi furon sopra, e v’ approderò al line. 

Volscr le prue, pillar p ancore; e ì legni, 

SI come stero un dopo l' altro in Ola, 

Di lungo trailo ricovrir la riva. 

Lieta la gioventù nel lito Esperio 
Gillóssi; ed in un tempo al villo intesi, 

Chi qua, chi là si diero a picchiar selci, 

A tagliar boschi, a cercar fiumi c fonti. 

In Unto Etica verso la ròcca ascese, 

Ove in allo sorgea di Febo il tempio, 

E là dov' era la spelonca immane 
De T orrenda Sibilla, a cui fu dato 
Dal gran Delio profeta animo e mente, 

D' aprir P occulte c le futuro coso. 

Avea di Trivia già varcalo il bosco, 

Quando avanti di marmo ornalo c d' oro 
Il bel tempio si vide. 

È fama antica 

Clic Dedalo, di Creta allor fuggendo, 

Ch' ebbe ardimento di levarsi a volo 
Con più felici c con più destre penne 
Clic ’l suo figlio non mosso, il freddo polo 
Vide più presso; c per sentir non dato 
A 1' uinan seme, a questo monte al fine 
Del Calcidico seno il corso volse. 

Qui giunto o formo, a te, Febo, de l’ ali 
L'ordigno appese, c'I tuo gran (empio eresse 
No le cui porle era da I’ un de' lati 
I)' A mi rogito la morie, c quella pena 
Clic di Cccrope i figli a dar costrinse 
Sette lor corpi a I’ empio moslro ogni anno; 
Miscrabil tributo 1 c v’ era I' urna. 

Onde a sorte eran traili. Eravi Crcla 
Da l‘ altro lato, allo dal mar levala, 

Cb' avea del lauro istoriala intorno, 

E di Paslfe il bestiale amore, 



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LIBRO SESTO 



113 



Perlegercnl oculis, nijam praemissus Achales 
Afforet, alquc una Phocbi Triviaeque soccrdos, 
Dciphobc Glauci, fatur quae (alia regi; 

Non hoc isla sibi lempus spectacula poscil; 
Nunc grege de intacto seplcm maclare iuvencos 
Pracìiiterit, totidem lectus de more bidentes. 



Talibus alTula Aencan (nec sacra moranlur 
lussa viri) Teucros vocat alla in (empia sacerdos. 
Evcisum Euboicae latus ingcns rupis in antrum, 

Quo lati duroni aditus ccnlum, ostia centum; 

Unde ruunl lolidem voce?, responso Sibyllae. 

Venlum crai ad limen, quum virgo, Poscere fata 
Tempus, ail; deus, ecce, deus! Cui (alia Tanti 
Ante forcs subito non vultus, non color unus, 

Non corotae manscre cornac; sed peclus anhelum, 

Et rabic fera corda turacnt; maiorque vidcrj, 

Nec mortale sonans; afflala est numine quando 
Iam propiorc dei. Cessns in vola prccesquc, 

Tros, ail, Acnea? cessas? ncque enim ante dehiscenl 
Allonitac magna ora domus. Et (alia fata 
Conlicuil. Gclidus Teucri* per dura cucurrit 
Ossa tremor, fundilque preces rex pectore ab imo : 
Phoebe, graves Troiae semper miserate labores, 
Dardana qui Paridis diresti tela mantisquc. 

Corpus in Aeacidae; magnas obeuntia tcrras 
Tot maria intravi, duce tc. penilusque repostas 
Massylòm gentes, praelentaque Syrlibus arva; 

Iam tandem lloliac fugienlis pmidimus oras. 

Hac Troiana lenus fueril fortuna secuta. 

Vos quoque Pergamene iam fas est parccrc genti, 
Diquo deacque omnes, quibus obslilit Ilium et ingcns 
Gloria Dardaniac. Tuque, o sanclissima vote*, 
Praescia venturi, da (non indebita posco 
Regna mcis fatis) Litio considere Teucro 9 , 
Errantcsque deos agiiataque nuinina Troiae. 

Tum Phocbo et Triviac solido de marmore templum 
Insliluam, festosque dies de nomine Phoebi. 

Te quoque magna manent regnis penetra li a nostris; 
Hic ego namque duas sortes arcanaque fata, 

Dieta incae genti, ponam, leclosque sacrabo, 

Alma, viros. Foliis tantum ne carmina manda, 



E la bestia di lor nato biforme, 

Di sì nefando ardor memoria infame. 

Eravi 1* intricato labcrinlo ; 

Kravi il filo, onde gl’ intrighi suoi 
I E le sue cicche vie Dedalo stesso, 

Per pietà eh’ ebbe a la regina, aperse ; 

E tu, se '1 pianto del tuo padre e ’l duolo 
Noi contendea, saresti, Icaro, a parte 
Di sì nobil lavoro. Ma due volle 
Tentò rilrarli in oro; ed altrettante 
Sì 1’ abborrì, che V opera e lo stile 
Di man gli cadde. Era con gli altri Enea 
Tutto a mirar sospeso, quando Acatc 
Tornò, ch’era precorso, c seco addusse 
DeTfobe di Glauco, una ministra 
Di Diana e d’ Apollo. Ella rivolta 
Al Frigio duce : Non è tempo, disse, 

CIP a ciò si badi. Or è d’ offrir mesliero 
• Selle non domi ancor giovenchi, e sette 
Negre pecore delle. 

E ciò spedilo 

Tosto, come s’ impose, ella nel tempio 
Seco i Teucri condusse. È da F un canlo 
DeH'Euboica rupe un antro immenso 
Che nel monte penetra. Avvi d’ intorno 
Cento vie, cento porle ; c cento voci 
N* escono insieme nllor che la Sibilla 
Le sue risposte intuono. Era a la soglia 
Il padre Enea, quando: Ora è ’l tempo, disse 
La vergine, di’, di’, chiedi tue sorti ; 

Ecco lo dio eh* è già comparso c spira. 

Ciò dicendo de l’antro in su la bocca 
In più volti cangiossi e in più colori , 
Scompigliossi le chiome , aprissi il petto , 

Le ballò ’l fianco, c ’l cor di rabbia 1’ arse , 
Parve in vista maggior , maggiore il tuono 
Fu clic d’ umana voce ; e poiché ’l nume 
i Più le fu presso ; A che badi, soggiunse, 
Figlio d’Anchise? Se non di’, non s’apre 
Questa di Febo attonita cortina. 

E qui si tacque. Orror per I' ossa c gelo 
Corse allor de’ Troiani ; c’I Teucro duce 
lufln da l'imo petto orò dicendo : 

Febo, la cui pietà mai sempre a Troia 
Fu propizia c benigna ; onde di Pari 
Già reggesti la man, drizzasti il télo 
Contro al corpo d* Achille ; io, dal tuo lume 
Scorto fin qui, tarilo di more ho corso, 

Tante terre ho girate, a tanti rischi 
Mi son esposto ; insino a le remote 
Mossile genti, insili dentro a le Sirli 
Son penetrato ; ed or, per tua mercede, 

Di questa fuggitiva Italia il lilo 

Ecco ho già tocco, c ci son giunto al fine. 

Ah che questo sia il fine e qui rimanga 



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ufi 



DELL' ENEIDE 



Ne turbala volent rapidìs ludibrio \etilis: 
Ipsa canas oro. Finem iledit ore 1 ottienili. 



At, Phoebi nondum paticns, immanis in antro 
Bacchalur va Ics, magnimi si pudore possit 
Excussissc deum: tanto magia iltc faligal 
Os rabidum, fora corda domans , fìngilquc premendo 
Ostia iainquc dotnus patucre ingcntia cenlum 
Spontc sua, valisque ferunt responsa per auras: 

0 tandem magnis pelagi defuncta perieli*, 

(Sud terra graviora manenti) in regna LavinI 
Dardanidae vcnienl: mille hanc de pectore curam, 
Scd non et venisse volent. Bella, horrida bella. 

Et Tlivbrim multo spumanlem sanguine cerno. 

Non Simois libi, nec Xanlhus, nec Dorica castra 
Defuerinl. Alius Lalio iam parlus Achillea, 

Natus etipse dea. Nec Teucri* addila luno 
Lsquam aberit; qutim tu supplex in rebus egenis 
Quas giudea Italòm aul quas non oraveris urbes I 
Caussa mali tanti comuni iterimi hospita Tcucris, 
Evlerniquc iterimi Ihalami. 

Tu ne cede malia, scd coutra audcnlior ilo, 

Qua tua te Fortuna sinel. Via prima salutis, 

Quod minime reris, Graia pandetur ab urbe. 



Talibus ci adylo didis Cumaca Sibilla 
Horrendas cani! ambage*, antroque remugit, 
Obseuris vera involvcns; ea frena furenti 



L' infortunio di Troia I È tempo ornai, 

Dii tutti c dee, cui la Gardenia gente 
llnqua fece onta, clic perdono c pace 
| Le concediate. E tu, vergine santa 
Del futuro presaga, or ne dimostra 
Il seggio e ’l regno che ne dònno i Fati 
( Se pur ne 'I danno ) ove i Troiani afflitti. 
Ore di Troia i travagliati numi, 

E i dispersi Penati alberghi e posi ; 

Ch'allor di saldo marmo a Trivio, a Febo 
Ergerò tempii, e del suo nome I ludi 
Consacrerogli, c i di fòsli e solenni. 

Ed ancor tu net nostro regno avrai 
Sacri luoghi rcposti, ove serbati 
Per lumi c specchi a le future gemi 
Da venerandi a ciò patrizii clelli 
Saranno i dclli e i valicinii tuoi, 
i Quel clie prima ti chicggio è che i tuoi carmi 
Sodan per la tua lingua, c non che in foglie 
Sian da le scrìtti, onde ludibrio poi 
Sian di rapidi venti. E più non disse. 

Ella gii presa, ma non doma ancora 
Dal Febeo nume, per di sotto trarsi 
A st gran salma , quasi poltra c fiera 
Scapestrala giumenta, per la grotta 
Imperversando c mugolando andava. 

Ma come più si scotea, più dal gran dio 
Era affrettata, e le rabbiose labbia 
E P efferato core al suo misterio 
Più mansueto e più vinto rendea. 

Eran da lor già della grolla aperte 
Le cento porte, allor eh' ella gridando 
Cosi mandò la sua risposta a l' aura : 

Compili son del mar tulli i perìcoli ; 

Restai) quei de la terra, che terribili 
Saran veracemente e formidabili. 

Veiraono i Teucri al regno di Lavino : 

Di ciò P amilo. Ma ben tosto d' esservi 
Si pentiranno. Guerre, guerre orribili 
Sorger no veggio, c pien di sangue il Tevere. 
Saravvi un altro .Vanto, un altro Simoi, 

Altri Greci, altro Achille, che progenie 
Ancor egli è di dea. Giuno implacabile 
Allor più ti sarà, che supplichevole 
Andrai d’ Italia a qual non (erre, o popoli 
D' aila mendicando e di sussidii ? 

E flan di tanto mal di nuovo origine 
D' esterna moglie esterne sponsalilie. 

Ma 'I tao cor non paventi, ami con P animo 
Supera le fatiche c gl' infortunii ; 

Chè tua salute ancor da (erra Argolica 
( Quel che men credi ) avrà lume e principio. 

Questi intricati e spaventosi detti 
Dal piò reposlo loco alto mugghiando, 

La Cumea profetessa empiea lo speco 



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unno sesto 



117 



Conculii, cl slimulos sub peclore verlil Apollo. 

Ut primum cesali furor, et rabida ora quierunt, 

Incipit Acneas li eros: Non ulta laborum, 

0 virgo, nova mi facies inopinave surgil; 

Omnia pracccpi, alque animo mecurn ante peregi. 
l'num oro. Quando hic inferni ianua regis 
Oicilur, et tenebrosa pallia Acheronte refuso: 

Ire ad conspcctuin cari genitori» et oro 
Contingat; doceas iter, et sacra ostia pandas. 

Illum ego per flammas et mille sequentia tela 
Eripui his humcris, medioque ex hoslc recepì; 
lite, menni comitatus iter, maria omnia mecurn, 

Alque oinnes pclagique minas coelique ferebat, 
Invalidus, vires ultra sortemque sencctae. 

Quin, ut te supplcx petcrem, et tua limino adirem, 
Idem orans mandata dabat. Gnitiquc palrisque, 

Alma, prccor, misererò, ( poles namque omnia, nec le j 
Nequidquam lucis liceale pracfccil Avernis: ) 

Si potuil Manes arcesscre coniugi» Orpheus, 

ThreTcia frelus rii bara fìdibusque canoris; 

Si fratrem Pollo* alterna morte redemit, 

llquc redilquc viam lolle». Quid Thesea, inagnum 

Quid memorem Vlciden ? Et mi genus ab love summo. 



Talibus orabai dictls, arasque tcnebal; 

Quum sic orsa loqui vates: Sale sanguine divAm, 
Tros Anchisiada, fucili» desccnsus Averni; . 

Nocles alque dies palei atri ianua Dilis; 

Sed revocare gradum superasque evadere ad auras. 
Hoc opus, hic labor est. Pauci, quos aequus amavit 
lupiter, aut ardens evexit ad aelhera virtus, 

Dls geniti potuerc. Tenent media omnia silvae, 
Cocylusque sinu lubens circumvenit atro. 

Quod si lantus amor menti, si tanta cupido est 
Bis Stygios binare lacus, bis tiigra videro 
Tartara, et insano iuvat indulgere labori; 

Accipc, quac pcragenda prius. Latct arbore opaca 
Aureli» et foliis cl lento vimine ramus, 
lunonl infcrnac dictus saccr: lume legit ornili* 
Virgilio vol. esito. 



D’ orribil* tuoni : e come il suo furore 
Era da Febo raffrenato o spinto, 

0 dal suo raggio avea barbaglio o lume, 

Così miste le tenebre col vero 

Sciogliea la lingua, e disgombrava il petto. 
Poiché la furia c la rabbiosa bocca 
Quctossi, Enea ricominciando disse : 
Vergine, a me nulla si mostra ornai 
Faccia nè di fatiche nè d’ affanno, 

Che mi sia nuova, o non pensata in prima. 
Tutto ho previsto, lutto ho presentilo, 

Che da te m’ è predetto : c tutto io sono 
A soffrir preparato. Or sol ti chieggo 
( Poscia che qui si dice esser I* mirata 
De’ regni inferni, c d" Acheronte il lago ) 
Che per le quinci nel cospetto io venga 
Del mio diletto padre ; e tu la porla, 

Tu ’1 sentier me ne mostra, e tu mi guida. 

10 lui dal foco c da miti' armi infeste 
Trailo ho di mezzo a le nemiche schiere 
Su queste spalle ; ed ei scoi la c compagno 
Del mio viaggio c del mio esiglio, meco 

1 perigli, i disagi c le tempeste 

Del mar, del ciclo c de I* età soffrendo, 
Vèglio, debole c stanco ha me seguilo ; 

Ed egli stesso m’ ha nel sonno imposto 
Che a tc ne venga, e per tuo mezzo a lui 
Mi riconduca. Abbi pietà, ti priego, 

E del padre e del Gglio ; ed ambi insieme 
Come puoi (cliè puoi tutto), or nc congiungi; 
Gli' Ecate non indarno a queste selve 
T ha d’Averno preposta. 11 Tracio Orfeo 
( Sola mercè de la sonora cetra ) 

Scender polevvi, c richiamarne in vita 
L’amata donna. Nè potè Polluce 
Ritrarre il frale, cd a vicenda seco 
Vita e morte cangiando, irvi e redirvi 
Tante fiale. Andovvi Teseo; andovvi 

11 grande Alcide ; ed ancor io dal cielo 
Traggo principio, e son da Giove anch’io. 

Così pregando avea le braccia avvinte 
Al sacro altare, allor clic la Sibilla 
A dir riprese : Enea, germe del cielo, 

Lo scender nc I’ Avcrno è cosa agevole ; 
Chè notte c dì nc sta l’entrala aperta, 

Ma tornar poscia a riveder le stelle, 

Qui la fatica e qui V opra consiste. 

Questo a pochi è concesso, cd a quei pochi 
Gli* a Dio son cari, o per uman valore 
Se ne poggiano al ciclo: a questi è dato 
Come a celesti. Il loco tutto in mezzo 
È da selve intricato, e da negre acque 
De l’ internai Cocilo intorno è cinto. 

Ma se tanto disio, se tanto amore 
T’ invoglia di veder due volle Stigc 
16 



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DELL* ENEIDE 



118 

Lucus, et obscuris claudunt ronvallibus umbrae. 

Sed non ante datur telluri* operta subire, 

Auricomos quam quis decerp«erit arbore fetus. 

Hoc sibi pulchra suum ferri Proserpina mtinus 
Insliluil. Primo avulso non deficit aller 
Aureus; et simili frondescit virga metallo. 

Ergo alte vestiga oculis, et rite repertum 
Carpe manu; namque ipsc volens facilisquc sequelur, 
Si te fata vocaul: aliter non viribus ullis 
Vincere, nec duro potcris convellere ferro. 

Praeterea inerì exanimum tibi corpus amici, 

( Heu nescis 1 ) lotamque incestai funere classem, 

Dum consulta polis, nostroque in limine pende». 
Sedibus hunc refer ante suis. et coudc s*-pulcro. 

Due nigrns pecudes; ea prima piacula suolo. 

Sic demum Iucca Slygios, regna invia vivis, 

Adspicies. Diiil, presseque obmutuil ore. 



Acneas mocsto defixus lumina vultu 
Ingrcditur, linquens antrum; caccosque volutal 
Evenlus animo secum. Cui fidus Achates 
It comes, et pnribus curi» vesligia ligit. 

Multa inter sese vario sermone serebant, 

Qucm socium cxanimem vales, quoti corpus humandum 
Diceret. Alquc illi Misenum in litore sicco, 

Ut venere, vident indigna morte pcremlum; 

Misenum Acoliden, quo non praestantior alter 
Aere ciere vlros, Marlemque accendere cantu. 

Hecloris hic magni fucrat comes, llcclora circum 
Et lituo pugnns insignis obibat et basta. 

Postquam illuni vita victor spoliavit Achillcs, 

Dardanio Aeneac sesc fori issi mus heros 
Addiderat socium, non inferiora secutus. 

Scd tum, forte cava dum personat aequora concila, 
Demcns, et cantu vocal in certamina divos, 

Aemulus cxccplum Triton, si credere dignura est, 
Inter saxa virnm spumosa immerserat unda. 

Ergo omnes magno circum clamore fremebant; 
Praeciptie pius Aencas. Tum iussa Sibjllae, 

Ilaud mora, festinant flentcs, aramque sepulcri 
Congercre arboribus, cocloquc educere certant. 

Itur in antiquam silvani, stabula alla ferarum : 
Procumbunt piccae; sonai icta sccuribus ilei; 



E due volle l’ abisso, c soffrir osi 
Un cosi grave affanno, odi che prima 
Oprar ronfienti. È ne la selva opaca 
Tra valli oscure c dense ombre riposto 
E tic l' arbore slesso un lento ramo 
Con foglie d' oro, il cui tronco è sacrato 
A Giuno interna ; c chi seco divello 
Questo non porla, ne* secreti regni 
Penetrar di Plutone unqun non potè. 

Ciò la bella Proserpina comanda, 

Che per suo dono il chiede ; e svelto I* uno 
Tosto l’ altro risorge, e parimente 
Ha la sua verga c le sue chiome d’ oro. 
Entra nel bosco, c con le luci in allo 
Lo cerca, il trova, e di tua man lo sterpa ; 
Ch* agevolmente sterperassi, quando 
Lo ti consenta il Fato. In altra guisa 
Nè con man. nè con ferro, nè con altra 
Umana forza, mai Ila che si schianti, 

0 che si -tronchi. Oltre vii ciò nel lito 
( Mentre qui badi e la risposta attendi ) 
Giace, lasso I d' un tuo, che tu non sai, 
Disanimato e non sepolto un corpo, 

Che lutti rende i tuoi legni funesli. 

A questo procurar seggio e sepolcro 
Pria eonvcrrntli. Or per sua purga in prima 
Negre pecore adduci, e ’n colai guisa 
Vedrai gli Elisi! campi, c i Stigii regni, 

Cui vedere a' mortali anzi a la morte 
Non è concesso. E qui la bocca chiuse. 

Enea gli occhi abbassando, afflitto c mesto 
De U antro uscio, tra sè stesso volgendo 
1/ oscure profezie. Giva con lui 
Il fido Acato, c con lui parimente 
Traeo pensieri e passi. Erano entrambi 
j Ragionando in pensar di qual amico, 

Di qual corpo insepolto ella parlasse, 

Clie coprir si dovesse ; allor che giunti 
Nel secco filo in su l' arena steso 
Veder Miscno indegnamente estinto; 
j Miscno il figlio d’Kolo, clic araldo 
Era supremo, c col suo fiato solo 
Possente a suscitar Marte e Bellona. 

Era costui del grand'Ettor compagno, 

E de’più segnalati intorno a lui 
Combattendo, or la tromba ed or la lancia 
Adoperava: e poi clic'l fiero Achille 
Ettore ancisc, come ardilo c fido 
Seguì l'arme d'Enca: chè non fu punto 
Inferiore a lui. Slava sul mare 
Sonando il folle con Tritone a gara, 

Quando da lui, ch'astio sentitine e sdegno, 

( Se creder déssi ) insidiosamente 
Tratto giù da lo scoglio, ov’era assiso. 

Fu uè Tonde sommerso. Al corpo intorno 



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LI UUO SESTO 



III) 



♦ 

Fraxiucaequc trabis cuneis cl liscile robur 
Scindilur; ndvolvunt ingente* monlibus ornos. 

[Sue non Acncas opera inler talia piimus 
llorlatur socios paribusque accingiti» armi». 

Atque haec ipse suo tristi cum corde volntat, 
Adspcclans silvana immensam, et sic voce precatur: 
Si nunc se nobis ille aurcus arbore ramus 
Oslendal netnorc in tanto ! quando omnia vere 
llcu! nimium de te voles, Alisene, Incula est. 

Vii ca fatus crai, geminae quuin Torte colurobae 
lpsa sub ora viri coulo venere volanles, 

Et viridi sedere solo. Tura maximum hcros 
Maternas agnoscil aves, laetusque precatur: 

Esle duces, o, si qua via csl, cursumquc per auras 
Dirigile in lucos, ubi pinguem dives opaca l 
Ramus hurnutn. Tuque, o, dubiis ne delicc rebus, 
Diva parens. Sic eflalus vestigio pressil, 

Observans quae signa feranl, quo tendere pergaut 
Fascentes illae tantum prodire volando, 

Quantum acie possent oculi servare sequentum. 
Inde, ubi venere ad Tauces graveolenti» Averni, 
Tollunt se celcrcs; liquidumque per aera lapsae 
Sedibus optalis geminae super arbore sidunl. 
Discolor unde auri per rumos aura refubil. 

Quale sole! sii vis brumali frigore vi sai in 
Fronde virerò nova, quod non sua seminai arbos, 
Et croceo Telu terctes circuindare truncos: 

Talis eral specics auri frondentis opaca 
Ilice; sic leni crepitabat bractea vento. 

Compii Acneas exlcmplu, avidusque refriugil 
Cunclanlcm, et vatis portai sub teda Sibyllac. 



Ncc minus intereo Misciium in litorc Teucri 
Flcbant, cl cineri ingrato suprema fé re baili. 
Principio pinguem taedis et robore sedo 
Ingenlcm struxere pyraiu: cui frondibus atris 



| Convocali già tulli, amaro pianto 
Ed alle strida insieme ne gitlaro; 

E più de gli altri Enea. Poscia seguendo 
Quel ch’era lor da la Sibilla imposto, 

Gli apprestaron Lescquie. Entràr nel bosco , 
Di fere antico albergo; cd elei ed orni 
E fratini atterrando, alzar gli altari, 

Poser la tomba, fabbricar la pira, 

E la spinsero al cielo. Il Frigio duce 
Fra le sue schiere di bipeune armato 
A par de gli altri, e più di tulli ardente 
Di propria mano adoperando, a l'opra 
Esodava i compagni; e fra sé slesso 
Pensoso, inverso il bosco il guardo inleso, 
Cosi pregava: Oli se quel ramo d’oro 
Ne si scoprisse in questa selva intanto, 

Coinè n'ha la Sibilla, oimè, pur troppo 
Di te, Miseno, annunziato il vero! 

Ciò disse appena, ed ecco da traverso 
Due colombe venir dal cicl volando, 
Ch'avanti a lui sul verde si posero. 

Conobbe il magno eroe le messaggere 
Ile la sua madre, c lieto orando: Oh disse, 
Siatemi guide voi, materni augelli, 

S’a ciò senticr si trova; ile per l'aura 
Drizzando il nostro corso, ov’è de l'ombra 
Del prezioso arbusto il bosco opaco. 

E lo, madre benigna, in si dubbioso 
Passo, del lume tuo ne porgi aita. 

E, ciò dello, fcrmossi. Elle pascendo, 
Quanto l’occhio scorgea di mano in mano 
Giunser ove d'Averno era la bocca: 

E 'I tetro alilo suo schivando, in allo 
Ratte l’alt spiegaro, e dal ciel puro 
Al desiato loco in giù rivolle 
Si posàr sopra a la gemella piaula; 
ludi tra Trondi e frondi il color d’oro, 

Che diverso dal verde usc.ìa raggiando, 

Di tremulo splendor l’aura percosse. 

Come nc'boschi al brumai tempo suole 
Di vischio un cesio in altrui scorza nato 
Spiegar verdi le Trondi e gialli i pomi, 

E con le sue radici a i non suoi rami 
Abbarbicarsi intorno; cosi ’l bronco 
Era de l'oro avviticchiato a Felce, 

Ond'cra surlo, c così lievi al vento 
Crepitando movea l'aurato Toglie. 

Tosto che 'I vide Enea di piglio dielli, 

E disioso, ancor che duro e valido 
Gli sembrasse, a la fin lo svelse, c seco 
A l'indovina vergine lo trasse. 

.Non s'intermise di Miseno in tanto 
Cotidur ('esequie al suo cenere estremo. 

E primamente la gran pira estruda, 

Di pingui tede e di squarciali roveri 



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no 



DELL 1 ENEIDE 



Intesimi latera, et feralcs ante cupressos 
Constiluunl, decorantque super fulgenlibus armis. 
Pars cnlidos lalices et aèna mulantia flnrnmis 
Expediunt, corpusquc lavant frigcolis et unguunt. 
Fil gemitus. Tum membra loro defleln repentini, 
Purpureasquc super veste», vclamina noia, 
Coniiciunt. Pars ingenti subicrc feretro, 

(Triste ministcrium, ) et subiectam more parenlum 
Aversi lenuere facem. Congesta cremanlur 
Turca dona; dapes, fuso cratere» olivo. 

Postqnam collapsi cineres, et fiamma quicvit, 
Keliiquias vino et bibulam lavere favillam; 

Ossoque leda cado lexit Corynaeus aeno. 

Idem ter socios pura circumtulit unda, 

Spargeus rore levi et ramo felicis olivac, 
Luslravilque viro», dixilquc novissima verbo. 

At pius Aeneas ingenti mole scpulrrum 
Impouit, suaque arma viro, remumque tuhamque, 
Ulonte sub aerio: qui nunc Misenus ab ilio 
Dicitur, aelernumque tene! per saecula nomcn. 



llis odia properc cxsequitur praeccpta Sibyllae. 
Spelunca alta fuil, vastoque immanis hiatu, 
Scrupca, tuta lacu nigro nemorumque tenebrisi 
Guam super haud ullac poterant impune volantcs 
Tendere iter pennis: tali» sese lialitus alris 
Faucibus effundens supera ad convexa ferebal : 

[ Undc locum Graii dixerunt nomine Aornon. ] 
Quatuor hic primum nigrantes terga iuvencos 
Constituit, frontique invergit vina saccrdos; 

Et, summas carpens media intcr cornua sclas, 
Ignibus impouit sacris, libainina prima, 

Voce vocans ficcateli, coeloquc Ereboque potentem; 
Supponimi alii cultrus, tepidumque cruorem 
Suscipiunt pateris. Ipsc atri vcllcris agnam 
Aeneas mairi Kumcnidum magnaeque sorori 
Elise ferii, stcrilemque libi, Proserpina, vaccam; 
Tum Stygio regi nocturnas inrhoal aras, 

El solida imponil taurorum visccra flamini». 

Pingue oleum super infundens ardentibus cxlis. 
Ecce auleni, primi sub lumina solis et ortus, 

Sub pedibus mugire solum, et iuga coopta rnoveri 



V'alzùr cataste: di funeste frondi, 

D’atri cipressi ornar la fronte c i lati, 

E piantar nc la cima armi e trofei. 

Parte di loro al fuoco, c parte a Tacque, 

E parte intorno al freddo corpo intenti. 
Chi lo spogliò, chi lo lavò, chi l’unse. 
Poiché fu pianto, in una ricca bara 
Lo collocaro, e di purpuree vesti 
De'suoi piò noli o più graditi arnesi 
Gli fcron fregi e mostre e monti intorno. 
Altri ( pietoso e lri?to ministero) 

Il gran feretro a gli omeri addossàrsi; 
Altri, com’è de'più stretti congiunti 
Antica usanza, vólti i volli indietro 
Tenner le faci, e dicr-foco a la pfra; 

E gran copia d'incenso e di liquori, 

E di cibi c di vasi ancor con essi, 

SI come è l’uso antico, entro gillàrvi. 
Poiché cessar le fiamme, c ’n ce no rissi 
Il rogo e ’l corpo, le reliquie c Tossa 
Furon da Corinéo Ira le faville 
Ricerche c scelte, e di vin puro asperse; 
Poi di sua mano acconciamente in una 
Di dorato metallo urna riposte. 

Lo stesso Corinéo tre volte intorno 
Con un rampollo di felice olivo 
Spruzzando di chiar’onda i suoi compagni, 
Li purgò tulli, c*l vale ultimo disse. 

Oltre a ciò, fece Enea per suo sepolcro 
Ergere un’alta e sontuosa mole, 

E Tarmi e’I remo e la sonora tuba 
Al monlc appese, clic d’Aerio il nome 
Fino allor ebbe, cd or da lui nomato 
Miscno è detto, c si dirà mai sempre. 

Ciò finito, a finir quel che gT impose 
La profetessa, incontanente mosse. 

Era un'atra spelonca, la cui bocca 
Fin dal baratro aperta, ampia vorago 
Facea di rozza c di scheggiosa roccia. 

Da negro lago era difesa intorno, 

E da selve ricòlta annose e folle, 
liscia de la sua borea a l’aura un fialo, 
Anzi una peste, a cui volar di sopra 
Con la vita a gli uccelli era interdetto; 
Onde da ‘Greci poi si disse A verno. 

Qui pria quattro giovenchi Enea condotti 
Di negro tergo. In Sibilla in fronte 
Riversò (or di vin le lazze intere; 

E da ciascun di mezzo le due corna 
Di setole maggiori il ciulTo svelto, 

Diè per saggio primiero al santo foco, 
Ecale ad alla voce in ciò chiamando, 

De l’Èrebo c del ciel nume possente. 

Parte di lor con le coltella in mano 
Le vittime svenando, e parte in vasi 



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LIBRO SESTO 



121 



Silvarum, visaeque canes ululare per umbram, Stava il sangue accogliendo. Egli a la .Notte, 

Adventanlc dea. Procul o, procul csle, profani, Che delle Furie è madre, ed a la Terra, 

Conclamai vales, totoque absistitc luco; Ch’è sua sorella, con la propria spada 

Tuque invade viam, vagiuaque eripe ferrum; Di negro vello un'agna, ed una vacca 

Nunc animi» opus. Aenea, nunc pectore firmo. Sterile a te, Proscrpina, percosse. 



Tantum elTala, fureus antro se immisi! aperto, 
llle duccm haud timidis vadeutem passibus aequat. 



Ili, quibus impcriurn est animarum, Umbraequc 

silente», 

El Chaos, et Plilegcthon, loca noclc lacentia late, 

Sii inihi fas audila loqui; sit numine vostro 
Pandere res alla terra et caligine mersas. 

Ibant obscuri sola sub nocte per umbram, 

Perque domos Ditis vacuas, et mania regna: 

Quale per incerisi» lunam sub luce maligna 
Est iter in all vis, ubi coelum condidit umbra 
Iupilcr, et rebus nox abstulit atra colori-m. 
Vcslibulum ante ipsum primisque in faucibus Orci 
Lucius et ullrices posucrc cubili» Curac; 
Pallcnlesque liabilanl Morbi, trislisque Scncctus, 

El Melus, et malesuada Farocs, ac turpis Egcstas: 
Terribilcs visu forraae: Lelumque, I.abosquc; 

Tum consanguincus Leti Sopor, et mala mentis 
Gaudio, mortiferumque advcrjo in limine Bcllum, 
Fcrrciquc Eumcnitlum thalami, et Discordia demens, 
Vipcreum crincin vittis innexa crucntis. 



In medio rnmos annosaque brachia pandi! 
llmus opaca, ingens, quam sedera Somma vulgo 
Vana tenere ferunt, foliisque sub omnibus hacrcnt. 
lluitaquc praetcrca variamm monslra fcrarum, 
Centauri, in foribus stabulali!, Scyllaequc biformes, 
Et centumgcminus Briarcus, ac bcllua Lernae 
llorrcndum stridens, flammisque armala Chimacra; 
Gorgoncs, llarpyiaequc, et forma tricorporis umbrac. 



Poscia a limpcrador dc’regni inferni 
Notturni altari ergendo, i tauri interi 
Sopra le fiamme impose, c di pingue olio 
Le bollenti lor viscere cosperse. 

Ed ecco a l'apparir col primo sole 
Mugghiò la terra, si crollare i monti, 

Si sgominar le selve, urlàr le Furie 
Al venir de la dea. Via, via profani, 

Gridò la profetessa, itene lunga 
Dal bosco tutto; e tu meco te n'entra, 

E la tua spada impugna. Or d'uopo, Enea, 
Fa d’anirno c di cor costante e fermo. 

Ciò disse; c da furor spinta, con lui, 
Ch'adeguava i suoi passi arditamente, 

Si mise dentro a le terrete cose. 

0 dii, che sopra Palme imperio' avete, 

0 tacif Ombre, o Flegetonte, o Cao, 

0 ne la notte e nel silenzio eterno 
Luoghi sepolti c bui, con pace vostra 
Siami di rivelar lecito a'tivi 

Quel ch'ho de’ morti udito. Ivan per entro 
Le cieche grolle, per gli oscuri e vóti 
Regni di Dite; e sol d’errori e d’ombre 
Avean rincontri. Come dii per selve 
Fa notturno viaggio, allor clic scema 
La nuova luna è da le nubi involta, 

K la grand'ombra del terrestre globo 
Priva di luce c di color le cose. 

Nel primo entrar del doloroso regno 
Stanno il Pianto, l’Angoscia, c le voraci 
Cure, e i pallidi Morbi e *1 duro Affanno 
Con la debil Vecchiezza. Evvi la Tema, 

Evvi la Fame: una ch’è freno al bene, 

L’altra stimolo al male: orrendi tutti 
E spaventosi aspetti. Avvi il Disagio, 

La Povertà, la Morte, e de la morte 
Parente il Sonno. Avvi de’cor non sani 
Le non sincere Gioie. Avvi la Guerra, 

De le genti omicida, e de le, Furie 

1 ferrati covili, il Furor folle, 

L’empia Discordia che di serpi ha *1 crine, 

E di sangue mai sempre il volto intriso. 

Nel mezzo erge le broccia annose al cielo 
Un olmo opaco e grande, ove si dice 
Che s'annidano i Sogni, e ch'ogni fronda 
V’ha la sua vaga Immago e ’l suo fantasma. 
Molle, oltre a ciò, vi son di varie fere 
Mostruose apparenze. In sii le porte 
I biformi Centauri, e le biformi 
Due Sciite: Briaroo di cento doppii: 



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122 



DELL* ENEIDE 



Compii liic subila trepido* formuline ferrum 
Aeneos; striclamque aciem venientibu» obferl, 
Et, ni docla comcs tenue.* sine corpore % itas 
Admoneat volitare cava sub imaginc formae, 
Irruat, cl fruslra ferro divcrberel umbras. 



llinc via, Tartarei quoe ferì Achcronlis ad undas: 
Turbidus liic corno vastaque voragine gurg*s 
A estuai, atque omnem Cocylo cruciai arenam. 

Porlilor lias horremius aquas et ilumina servai 
Terribili squalorc Charmi: cui plurima mento 
Canilies incitila iaccl; slant lumina damma; 

Sordidus ex humcm nodo dependei amictus. 

Ipsc ratem conto subigii, velisque ministrai, 

El ferruginea subveelat corpora cymha 
lam senior; sed cruda deo viridisque seneelus. 
lluc omnis turba ad ripas effusa ruebat, 

Malrcs atque viri, dcfunctaque corpora vita 
Mugnanimùm licroum, pueri innuptaeque puellae, 
Imposilique rogis iuvenes ante ora parenlum; 

Quam multa in silvia auctumni frigore primo 
Lapsa cadimi folta, aul ad (erram gurgilc nb allo 
Quam mullac glomeranlur aves, ubi frigidus aunus 
Trans ponlum fugai, cl terris immiltil aprici*. 

Stabanl oraulcs primi Iransinitlere cursum, 
Tcndcbatilquc manus ripac ullcrioris amore; 

Navila sed Irislis nunc Itos nunc accipil illos: 

Asl alios longc submolos arcct arena. 

Àcncas, ( miralus cnim motusque tumulili ), 

Die, ait. o virgo, quid vull concursus ad amnem ? 
Quidve pclunl animae? vel quo discrimine ripas 
Hae tinquunl, illae remis vada livida verrunl ? 

Olii sic breviter fata est longaeva sacerdos: 

Anchina generate, dcùm certissima proics, 

Cocyli stagna alla vides, Slygiamquc poludem, 

DI cuius iurarc limoni el fallerò nuracn. 

llacr. omnis, quam ccrnis,ìnops inhumalaque turba est; 

Portitor ilio Charon; hi, quos veliti unda, sopitili. 

Ncc ripas dalur horrcndas cl rauca fluenla 
Transporla re prius, quam sedibus ossa quierunt. 
Cenlum errarli annos, volilanlque hacc lilora circum. 
Tum demum admissi stagna ex optali revisunt. 

Conslilit Anchisa salus, et vesligia pressi!, 

Multa putans, sorlcmquc animo miseralus iniquam. 
Cernii ibi moeslos et mortis honore carenles 
Leucaspim cl Lyciac ductorcm classi* Oronlem: 

Quos, simul a Troia ventosa per acquora veclos, 
Obrttil Auslcr, aqua involvcns navemque virosque. 



La Chimera di ire, che con tre bocche 
II fuoco avventa: il gran Serpe di Lorna 
Con sette tesle; con Ire corpi uriiaui 
Erilo e G e rione; e con Medusa 
Le Gorgoni sorelle; e Tempie Arpie, 

Che son vergini insieme, augelli e cagne. 
Qui preso Enea da subita paura 
Strinse la spada, c la sua punta volse 
Incontro a Tombre; e se non ch’ombre c vite 
Vóle de’corpi e nude forme c lievi 
Conoscer ne le fé* la saggia guida, 

Avrebbe impeto fallo, c vanamente 
In vane cose ardir mostro e valore. 

Quinci prcser la via là ’vc si varca 
Il Tartareo Acheronte. Un fiume è questo 
Fangoso c turbo, e fa gorgo c vorago, 

Che bolle c frange, e col suo negro loto 
Si devolve in Codio. È guardiano 
E passeggierò a questa riva imposto 
Carón demonio spaventoso c sono, 

A cui lunga dui mento, incolla ed irta 
Pende canuta barba Ha gli occhi accesi 
Come di bragia. Ila con un groppo al collo 
Appeso un lordo ammanto, c con un palo, 
Che gli fa remo, c con la vela regge 
I/alTumigalo legno, onde tragitta 
Su l'altra riva ognor la gente morta 
Vecchio è d'aspetto e d'anni; ma di forze, 
Come dio, vigoroso c verde sempre 
A questa riva d’ogn* intorno ognora 
D’ognì età, d’ogni sesso c d’ogni grado 
A schiere si traean ('anime spente, 

E de'figli anco innanzi a'padri estinti. 

Non tante foglie ne l'estremo autunno 
Per le selve cader, non tanti augelli 
Si veggon d'alto mar calarsi a terra, 

Quando il freddo gli caccia a i liti aprichi, 
Quanti eran questi. I primi avanti orando 
Chicdean passaggio, c con le sporte mani 
Mostravan il disio de Palla ripa. 

Ma il severo nocchiero, or questi or quelli 
Scegliendo o rifiutando, una gran parte 
Lunge lenea dal porto e da l’arena. 

Enea la moltitudine e 'I tumulto 
Maravigliando: Ond'è, vergine, disse, 

Questo concorso al fiume? c qual disio 
Mena quesl’alrae? c qual grazia, o divieto 
Fa che queste daa volta, e quelle approdano? 
A ciò la profetessa brevemente 
Così rispose: Enea, stirpe divina 
Veracemente ( chè di ciò n'accerta 
Il qui vederli ) , là Cocilo stagna; 

Quinci va Sligc, la palude e 'I nume 
Per cui di spergiurar fino a gli dei 
Del cielo è formidabile c tremendo. 



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LIBRO SESTO 



123 



Eccc gubernalor sese Palinurus agebal: 

Qui Libyco nupcr cursu, dum sidera servai, 
Exciderat puppi medi» eiTusus in undis. 

Hunc ubi vii mulla moestum cognovit in umbra, 

Sic prior alloquilur: Quis le, Palinure, deorum 
Erìpuil nobis, medioquc sub aequorc mersit ? 

Die age. Namque mihi, falla* tiaod ante reperii», 
Hoc uno responso auimum delusil Apollo, 

Qui foro te pomo incolumcm, flnesque cane bai 
Vcnlurum Ausonios. En haee promissa fldes est ? 
file autem: Ncque le Plioebi cortina fcfellil, 

Uux Anchisiada, nec me deus aequore mersit. 
Namque gubernaclum, multa vi forte revulsum, 

Cui datus haerebam custos, cursusque regebam, 
Praecipilans trmi.mecum. Maria aspera iurn, 

Non ullum prò me lantum cepisse limorem, 

Quam tua ne, spoliata armis, escussa magislro, 
Delkeret lantis nnvis surgentibus undis. 

Tres Notus hibernas immensa per acquora noclcs 
Vexil me violenti» aqua; vi* lumine quarto 
Prosperi Itoliam summa sublimi* ab unda. 

Paullatim adnabam lerrae: iam tuia lencbam, 

Ni gens crudeli* madida cum veste gravalum, 
Prensanlemquc uncis manibus capila aspcra monlis, 
Ferro invasissct, praedamque ignara pillasse!. 

Nunc me fluclus habet, vcrsanlquc in lilorc venti. 
Quod te per codi iucundum lumen et auras, 

Per gcniiorem oro, per spes surgenlis lidi: 

Eripe me bis, invicte, malia: aut tu mihi tcrram 
Iniice, namque potes, portusque require Velino»; 
Aut tu, si qua via est, si quam libi diva creatrix 
Ostendil ( ncque enim, credo, sine mimine divani 
Flumina tanta paras Slygiamque innarc puludem ), 
Da dcxlram misero, et tecum me lolle per undas: 
Sedibus ut saltelli placidis in morte quicscam. 

Talia fatus eral, coepit quum talia vates: 
linde liaec, o Palinure, libi tam dira cupido? 



I Questi è Caronte, il suo tristo nocchiero: 

| Quella turba che passa, è de’sepolli: 

Questa che torna è de’mcschini estinti 
Che nè tomba, nè lacrime, nè polve 
I Ebber morendo. A lor non è concesso 
i Traictlar queste ripe e questo fiume, 

; Se pria Tossa non han seggio c covcrchio. 
Erran cent'anni vagolando intorno 
A questi liti, e il desiato stagno 
Visitando sovente, infin ch’ai passo 
! Non sono ammessi. Enea di ciò pensando, 

; Mosso a pietà de la lor sorte iniqua, 

Fcrmossi; cd ecco incontro gli si fanno 
Mesti, d’esequie privi e di sepolcro 
Leucaspi, e ’l conduttor de’Licii Oronle, 
Ambi Troiani, ambi dal vento insieme 
Coi Liei! tutti, e con l’intera nave 
Nel mar sommersi. 

Appresso Palinuro, 

Il gran nocchier de la Troiana armata, 

Che dianzi nel tornar di Libia, il cielo 
E le stelle mirando, in mar fu tratto. 

A costui si rivolse; e poiché Tcbbo 
Per entro una grand’ombra appena scorto, 
(.osi prima gli disse: 0 Palinuro, 

E qual fu de gli dei di’ a noi li tolse. 

Ed a Tonde ti diede? Or lo mi conta: 

Chè deluso da Febo unqua non fui, 

Se non se in tc: Febo predisse pure 
Che tu nosco del mar sccuro e salvo 
Italia attingeresti. Ali dunque un dio, 

E dio del vero, in tal guisa ne froda? 
Rispose Palinuro: Indilo duce, 

Nè Toracol d’Apollo ha le deluso, 

Nè l'ira ha me di Dio nel mar sommerso; 
Chè ’l temone, ond’io mai non mi divclsi 
Per tua salute, ancor per man ritenni 
Allor ch'in mar io caddi, lo giuro, Enea, 
Per Tonde irale, che di me non lanlo. 
Quanto del luo periglio ebbi limorc. 

Clic non la nave tua, del mio gotemo 
i Spogliala e del suo freno, al mar già gonfio 
Restasse in preda. Austro tre notti intere 
Con la sua correntia per l’ampio mare 
Mi trasse a fona. Il quarto giorno appena 
Discoverta l'Italia, a poco a poco 
| M’accostava a la (erra; c giunto ornai 
Così com’era ancor di veste grave, 

E stanco e molle, con ('adunche mani 
M’aggrappata a la ripa, c salto fòro; 

Se non che ignara e fera genie incontro, 
Coin’a preda marina, mi si fece, 

E col ferro m’ancise. Or lungo a i fili 
Vassene il corpo mio ludibrio a’ venti, 

E scherzo ai fiditi. Ed io, signore invitto, 



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121 



mai.' ENEIDE 



Tu Slyglas inliumatus aqnas amncmque sevcrum 
Eumonidum adspicies, ripamvc inìtissus adibì» ? 
Desine fata definì flccli sperare prccando, 

Sed cape dieta mcmor, duri solatia casus. 

Nani tua finitimi longc lalcqnc per urbcs, 
l’rodigiis acti coclcslibus, ossa piabunt; 

Et staluent lumiilum, et liiniulo solcmnia mittcnl; 
Aclcrnumquc locus Palinuri nomcn liabebit. 

Ilis dictis curar omolac, pulsusquc parumpcr 
Corde dolor tristi: gaudct cognomine terra. 



Ergo iter inccplum peragunt, flurioque propinquant, 
Novità quos iam inde ut Stygia prosperi ab unita 
Per tacitimi ncmut ire, pcdcmquc adrertere ripae, 

Sic prior aggredilur dictis, alquc increpat ultro: 
Quisquis cs, a rinato* qui nostra ad flumina tcndis, 
Fare ago, quid venlas, iam istinc, et comprime gres- 

sum. 

Lmbrarum hic locus est, Somni Noctisquc soporcc; 
Corpora vira nefas Stygia vociare carina. 

Noe vero Alciden me sum lactalus ctmlem 
Accepissc lacu, ncc Thcsea Piritlioumque: 

Dls quamquam geniti alque invidi viribus essenl. 
Tartareum ille manu ruslodem in vincla pelivi!, 

Ipsius a solio regis, traxitquc trcmcnlcm: 

Ili dominam Ditis tlialamo deducerc adoni. 

Quac contro brcviter fata est Amphrysia vales: 

Nullae tiic insidine tales; absiste moveri; 

Nec vim tela lerunt. Lied ingens ianitor antro 
Adcmiim lalrans cxsangues terrea! umbrns; 

Casta licei patrui servai Proscrpina limen. 

Troius Acneas, pietatc insigni» et armis, 

Ad gcnilorcm imas Èrebi descendit ad umbras. 

Si le nulla romei tantac pietalis imago; 

At ramino lume ( aperii ramum, qui vesto lalcbat ) 



I Per la superna luce, per quell’aura, 

Onde si vive, per tuo padre Anchisc, 

Per le speranze del tuo figlio lulo, 
l' re goti a sovvenirmi; o clic di terra 
Mi copra ( come puoi ) cercando il corpo 
Per la spiaggia di Velia, o in al Ira guisa; 

| S' altra ne ti sovviene, o li si mostra 
Da la tua diva madre; chè non senza 
Nume divino un tal passaggio imprendi. 
Porgimi la Ina destra, e leco tramali 
Olire a quell' acque, perchè morto almeno 
Pace trovi e riposo. Arca ciò dello, 

Quando cosi la vergine risposo : 

Ah Palinuro, c qual dira follia 
A ciò t' invoglia ? Non sepolto adunque 
L’ acque di Slige, e la severa foce 
[ Traictlar de P Eumcnidi presumi ? 

Tu di qui trarli a l'altra riva intendi 
Senza commiato ? Indarno, indarno speri 
i Che per nostro pregar fato si cangi. 

Ma con questo f acqueta, e ti conforta 
De l' infortunio tuo; chè quelle terre 
Vicine al luogo, ove il tuo corpo giace 
Da pestilenza e da prodigii astrette 
Lo raccorranno, c con solenne rito 
Gli faran sacrificii, esequie e tomba; 

E da (c per innanzi avrà quel loco 
Di Palinuro eternamente il nome. 

Lieto d' un tanto onore, c consolato 
Da tale annunzio, il travaglialo spirto 
Restò contento ed appagato in parte. 

Indi cammin seguendo, a la riviera 
S' approssimaro; c il passeggicr da lungc. 
Poiché senza far motto entro a la selva 
Passar gli vide e '«dirizzarsi al vado : 

Olà, ferma costi, disse gridando, 

Qual che tu sii, eli' al nostro fiume armato 
Tcn vai si baldanzoso; e di costinci. 

Di' cbi sei, quel che cerchi, c perchè vieni; 
Cliè notte solamente c sonno ed ombre 
Ilan qui ricetto, e non le genti vive, 

Cui di varcare al mio legno non lece. 

E s' Ercole c Teséo e Piritoo 
Già v’ accellai, scorno e dolore io n' ebbi ; 
Chè 1’ un d'essi il Tartareo custode 
Incatenovvi, e, di sotto anco al seggio 
Del proprio re, tremante l' aura il trasse : 

E gli altri infin del maritate albergo 
Rapir di Dite la regina osaro. 

Nulla di queste insidie, gli rispose 
La profetessa, a macchinar si viene. 

Stanne sicuro; e quest’ arme a difesa 
Si portan solamente, c non ad onta. 
Spaventi il Can trifauce a suo diletto 
Le palli))’ ombre; eternamente latri 



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LIBRO SESTO 



125 



Agnoscas. Tumida ex ira tum corda residunt. 

Nec ptura liis. Ille admiraos venerabile donum 
F.ilalis virgae, lungo posi tempore visura, 

Caerulcam adterlil puppim, ripaeque propinquat. 
Inde alias animas, quac per iuga lunga sedebant, 
Dclurbal, laxalque foro*: simul accipil alveo 
Ingenlem Àenean. Gemuil sub pondere cymba 
Sulilis, ac multam accepil rimosa paludcm. 

Tandem trans fluvium incolumis valemque virumque 
Informi limo glaucaque exponit in ulva. 



Ccrberus baco ingens latratu regna trifauci 
Personat, adverso recubans immanis in antro. 

Cui vales, horrcrc videns iam colla colubris, 
Mellc soporatam et medicatis frugibus offam 
Obiicit. lite fame rabida trio gultura pandens 
Corripit obiectam, atque immania terga resolvit 
Fusus homi, totoque ingcns extenditur antro. 
Occupai Aencas aditum custode sepullo, 
Evaditque celer riponi irremeabili» undac. 
Continuo auditae voces, vagitus et ingens, 
Infantumque animac flentcs in limine primo : 
Quos dulcis vitac cxsortcs, et ab ubere roptos, 
Abstulil atra dies, et funere mersil acerbo, 
llos iuxta falso damnati crimine morti*. 

Nec vero hoc sine sorte dalae, sine iudice, sedes. 
Quaesitor Minos urnam movet; ille silentum 
Conciliumquc vocat, viUsque et crimina discit. 



Proxima deinde tcnent mocsli loca, qui sibi lclum 
Virgilio vol. i-sicn. 



Ne T antro suo : col suo marito e zio 
Si stia casta Proserpina mai sempre, 

Clic di nulla con cale. Enea Troiano 
È questi, di pietà famoso e d‘anni. 

Che per disio del padre infino al fondo 
l)c T Èrebo discende; c se V esempio 
Di tanta carità non ti commovc, 

Questo olmeti riconosci. E fuor del seno 
D’oro il tronco traendo, altro uon disse. 

E rimirando il vcncrabil dono 
De la verga fatai, già di gran tempo 
Non veduto da lui, 1* orgoglio c Tira 
Tosto depose, c la sua negra cimba 
A lor rivolse, c ne la ripa slette. 

Indi i banchi sgombrando e 'I legno tutto, 

L’ anime, che già dentro erano assise, 

Con subito scompiglio uscir ne fece, 

E T grande Enea v* accolse. Àllor ben d'altro 
Pare, clic d’ ombre carco ; e sì com* era 
Mal contesto e scommesso, cigolando 
Cliinossi al peso, più d’ una lissura 
A la palude aperse. Al fin pur salvi 
Ne l’ altra ripa, tra le canne c i giunchi 
Sul palustre suo limo ambi gli espose. 

Giunti che furo, il gran Cerbero udirò 
Abbaiar con tre gole, e T buio regno 
Intonar tutto; indi in un antro immenso 
Sci vidcr pria giacer disteso avanti, 

Poi sorger, digrignar, rabido Turai, 

Con tre colli arruffarsi, e mille serpi 
Squassarsi intorno. Allor la saggia maga, 
Tratta di mele e d’ incantate biade 
Una tal soporifera mistura. 

La gittò dentro le bramose canne. 

Egli ingordo, famelico c rabbioso 
Tre bocche aprendo, per tre gole al ventre 
Trangugiando maudolla, c con sei lumi 
Chiusi dal sonno, anzi col corpo tulio 
Giacque ne l'antro abbandonato c vinto. 
Cerbero addormentalo, occupa Enea 
D’ Èrebo il passo, c ratio s* allontana 
Dal fiume, cui citi varca unqua non riede. 
Sentono al primo entrar voci c vagiti 
Di pargoletti infanti, che dal latte 
E da le culle acerbamente svelti 
Vidcr ne* primi dì 1' ultima sera. 

Varcano appresso i condannali e morti 
Senza lor colpa, c non senza compenso 
Di giudizio e di sorti Ilan quelle genti 
Così disposti e divisati i lochi. 

Sta Minos ne V entrata, c 1' urna avanti 
Tien de' lor nomi, c le lor vite esamina, 

E le lor colpe ; e qual è questa o quella, 

Tal le dà sito, c le rauna e parte. 

Passnn di mano in mano a quei che feri 
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DELL’ ENEIDE 



12fi 



Insonles pcpcrcrc marni, luccmquo pcrosi 
Proiecerc animas. Quam vellcnt aclhere in allo 
Nunc el paupcricm et duros perferrc laborcs ! 
Fas obslat, trisliquc palus inamabilis linda 
Alligai, et novies Slyi inlcrfusa coèrcet. 



Nec procui bine partem fusi nionsiranlur in omnem 
Lugcntes campi; sic illos nomine dicunl. 

Hic, quos durus amor crudeli tabe peredit, 

Secreti celant calles, el mjrrtea circum 
Silva legit: curac non ipsa in morie relinquunl. 

Ilis Pbaedram Procrinque loda, moesiamque Eri- 

phylen, 

Crudeli* nati monslranlem vulnera, cernii, 
Evadnenque, el Pasipliaèn; bis Laodamia 
It comes, el iuvenis quondam, nunc femina, Cacnis, 
Hursus et in velcrem falò revoluto figuram. 

Inlcr quas Phoenissa recens a vulnero Dido 
Errabal silvo in magna: quam Troius hcros, 

Ut primum invia steli!, agnovitque per umbras 
Obscurarn, qualem primo qui surgcrc mense 
Aul videi, aut vidissc pula!, per nubila, lunam, 
Demisil lacrimas, dulcique affai us amore est: 

InTclix Dido, vcrus milii nunlius ergo 
Vcncrat, cxstinctam, fcrroque extrema secutam ? 
Funeris beu libi causa fui ? Per sidera iuro, 

Per superos, et, si qua Ildes tellure sub ima est, 
Invilus, regina, luo de litorc cessi. 

Scd me iussa deóm, quac nunc has ire per umbra<, 
Per loca senta silu cogunt, noctemque profundam, 
Imperite egere suis, nec credere quivi 
(lune lanlum libi me disccssu ferre dolorcm. 

Sislc gradimi, (eque adspeclu ncsublrahc nostro. 
Qucm fugis? Estremimi falò, quod le alloquor, hoc est. 
Talibus Aencas ardentem et torva luentem 
Lenibat diclis animum, lacrimasque ciebat. 
fila solo lixos oculos aversa tenebal; 

Nec magi* inccpto vullum sermone movetur, 

Quam si dura siici aut stet Marpcsia cautes. 

Tandem corripuil scse, olque inimica refugit 
In nemus umbriferum: comuni ubi pristinus illi 
Respondcl ctiris, aequatque Sychacus amorem. 

Nec minus Aencas, casu percussus iniquo, 

Proscquitur lacrimans longc, el miseratur cuntem. 



Incontro a sè, la luce in odio avendo 
E r alme a vile, anzi al prescrillo giorno 
Si son da loro indegnamente ancisi. 

Ma quanto ora vorrebbono i meschini 
Esser di sopra, c povertà vivendo 
Soffrire, e de la vita ogni disagio I 
Ma I Falò il niega, e nove volle intorno 
Stigc odiosa li ristringe c fascia. 

Quinci non lunge si distingue un'ampia 
Campagna, che del Pianto è nominata ; 

Per cui fra chiusi colli e fra solinglie 
Selve di mirti, occulte se ne vanno 
L'almo, ch'ho fcramenlc orse c consunte 
Fiamma d’amor, eh' ancor ne’ morii è vivo. 
Qui vider Fedra e Procri ed Erifile 
Infida moglie c sfortunata madre. 

Di cui fu parricida il proprio Aglio ; 

\idrr Laodamia, Pasife, Evadile ; 

E Ceneo con esse, che di donna 

In uomo, e d'uomo alAn cangiossi in donna. 

Era con queste la Fenicia Dido, 

Clic di piaga recente il petto aperta 
Per la gran selva spaziando andava. 

Tosto che le fu presso, Enea la scorse 
Per entro a f ombre, qual chi vede o crede 
Veder tal volta infra le nubi e 'I chiaro 
La nova luna, allor che i primi giorni 
Del giovinetto mese appena spunta ; 

E di dolcezza intenerito il corc 
Dolcemente mirolla, e pianse c disse : 
Dunque, Dido infelice, e fu pur vera 
Quell’ empia che di te novella udii, 

Clic col ferro finisti i giorni tuoi ? 

Ah ch'io cagion ne fui ! Ma per le stelle, 

Per gli superni dei, per quanta fede 
Un qua giù, se pur v 1 ha, donna, ti giuro 
Che mal mio grado dal tuo filo sciolsi. 

Fato, Fato celeste, imperio espresso 
Fu del gran Giove, c quella stessa forza, 

Che da T eterea luce a questi orrori 
De la profonda notte or mi conduce, 

Già da le mi divelse ; e mai creduto 
Ciò di me non avrei, che ’l partir mio 
Cagion li fosse ond'a morir ne gissi. 

Ma ferma il passo, c le mio luci appaga 
De la tua vista. Ah perchè fuggi ? c cui ? 
Quest' è l' ultima volta, oimè I che 'I Fato 
Mi dà di' io li favelli, e tcco io sia. 

Cosi dicendo e Iagrimando, intanto 
Placar tentava, o raddolcir quell’alma, 

Ch’ una sol volta disdegnosa c torva 
Lo rimirò ; poscia con gli occhi in terra, 

E con gli omeri vòlta, a i detti suoi 
Stette qual alpe a I* aura, o scoglio a Tonde, 
Al fin mentre dicco, come nimica 



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LIBRO SESTO 



lì! 



Inde datutn molitur iter. lamque aria tenebant 
Ellima, quac bello clari secreta frequentane 
Ilic illi occurrit Tydeus, bic inclytus armis 
Partlienopaeus et Adrasti paltenlis imago; 

Bic multum fleti ad superos belloquc caduci 
Dardanidae: quos ilic omnes longo ordine ccrncns 
Ingemmi , Glaucumquc , Medontaque , Thersilo- 

chumquc, 

Tres Antenoridas, Cercrique sacrum Polypboclen, 
Idacumque, eliam currus, elioni arma teneotem. 
Circumstant animae destra laevaque frequentes. 
Nec vidisse semel salis est: iuvat usque morarì, 

Et conferre gradum, et vcnicndi discere causas. 

At Danaùni proccrcs. Agamemnoniacquc phalangcs, 
llt fiderò virum, fulgcntiaquc arma per umbras, 
Ingenti trepidare metu: pars vertere terga, 

Ceu quondam petiere rates; pars (oliere vocem 
Etiguam: inccptus clamor truslratur hianlcs. 



Atque hic Priamiden lanialum corporc loto 
Dciphobum vidi!, lacerum crudeliter ora, 

Ora manusque ambas. populataque tempora raptis 
Auribus, et Iruncas Inboncsto vulnero narcs. 

Vii adeo agnovil pavitanlem et dira tegentem 
Supplicia; et nolis compcllat vocibus nitro: 
Deiphobe armipotens, genus alto a sanguine Teucri, 
Quia tam crudeles optavi! sumere pocnas ? 

Cui tantum de te llcuil ? Mihi fama suprema 
Nuoto tulil fessuro vasta to caede Pelasgflm 
Procubuisse super confusac slragis acerrimi. 

Tunc egomet tumulum Ithocteo in litorc inanem 
Constitui, et magna Manca ter voce vocavi. 

Nomen et arma locum servane Te, amice, ncquivi 
Conspicere, et patria decedens ponere terra. 

Ad quae Priamides: IN itili o libi, amice, relictum; 
Omnia Oeiphobo solvisti et funeris umbris. 

Scd me fata mea te seelus esiliale Lacaenac 
Bis mersere malia: illa haec monumenta reliquit. 
Kamquc, ut supremam falsa inler gaudia noelem 
Egerimus, nosti; et nimium meminissc ncccssc est. 



Oli si tolse davanti, e ne la selva 
Al suo caro Sicliéo, cui fiamma uguale 
E par cura acccndea, si ricondusse. 

Ni' perù mcn dolente, o mcn pietoso 
Itestonne il Teucro duce ; ansi quant’ olire 
Potè con gli occhi, e lungo spazio poi 
Col pianto e coi sospiri accompagnolla. 

Poscia tornando al suo fatai viaggio 
Giunse là ’ve accampata era in disparte 
Gente di ferro e di valore armala. 

Qui il gran Tidéo, qui 'I gran figlio di Marte 
Parlenopéo, qui del famoso Adrasto 
La pallid' ombra incontro gli si fece. 

Quinci de' suoi più nobili Troiani 
En gran drappello avanti gli comparve. 
Pianse a veder quei gloriosi eroi, 

Tanto di sopra disiati c pianti, 

Come Glauco, Tcrsiloco, Mcdonte, 

I tre Agli d' Antenore, il sacrato 
A Cerere ministro Polifetc, 

E T chiaro Idèo con l' armi anco c col carro. 
Fatto gli avean costor chi da man destra, 

Chi da sinistra una corona intorno. 

Nè d' averlo veduto eran contenti. 

Chi ciascun desiava essergli appresso. 
Ragionar, passeggiar, far seco indugio, 

E spiar come c d’ onde e perchè venne. 

Ma de gli Argivi c le falangi e i duci, 
Quand’egli apparve, e che tra lor ne l'ombre 
I lampi folgorar de Farmi sue, 

Ila gran timor furo assaliti ; c parte 
Volscr le terga, come già fuggendo 
Verso le navi, c parte alzàr le voci 
Che per tema sembrar languide e Roche. 

Ueifobo, di Priamo il gran liglio, 

Vide ancor qui, che crudelmente anciso 
In disonesta e miscrabil guisa 
Avca le man, gli orecchi, il naso e 'I volto 
Lacerato, incischiato c monco tutto. 

Per temenza il meschino, c per vergogna 
D'esscr veduto, con le tronche braccia 
Un si brullo spettacolo celando, 

Indarno si Tacca schermo c riparo : 

Cliè al fin lo riconobbe, o con F usata 
Domestichezza incontro gli si fece, 

Cosi dicendo : Poderoso eroe, 

Gran germoglio di Teucro, c chi si crudo 
Fu mai, chi tanto osò, cui si permise 
Che facesse di te strazio si fiero ? 

La notte che segui F orribil caso 
De la nostra ruina, io di te seppi 
Che assalili i nemici, c di lor fatta 
Strage, clic memorabile fla sempre, 

Tra le caterve de' lor corpi estinti, 

Stanco vie più clic vinto, al Dn cadesti; 



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128 



DELL' ENEIDE 



Quum falalis equus saliti super ardua vcnil I 

Pergama, el armatum peditem gravis atlulit alvo: 

(Ila, cliorum simulans, evanles orgia circum 
Ducebai Plirygias; flaminam media ipsa Icncbat 
Ingcntem, el summa Danaos ex aree vocabat. 

Tum me, confecluin curis soinnoque gravalum 
Infclix liabuit Ulularmi?, pressilquc iacenlcm 
Dulcis el alla quies placidacquc simillima morii. 
Egregia intcrca coniunx arma omnia teclis 
Emovet, el fidum capili subduxerat ensein: 

Intra (cria vocal Mcnelaum, el limina pandil; 

Scilìcel id rnagoum spcrans Tore munus amanti, 

Et famam cxslingui vctcrum sic posse malorum. 

Quid moror ? irrumpunt limiamo; comcs addilus una i 
llortator scclcrum Aeolides. DI, (alia Graiis 
Instaurale I pio si poenas ore refosco. 

Sed le qui vivum casus, oge Tare vicissim, 

Altulerinl. Pclagine venis erroribus actus, 

An monitu divòm ? an quae le Fortuna Caligai, 

III tristis sine sole doinos, loca lurbida, adircs ? 
llac vice scrroonum roseis Aurora quadrigis 
Iam medium aetlicrio cursu Iraicccral axem; 

El fors omne datum Iralierent per talia lempus; 

Sed romes admonuil, breviterque alTala Sibilla est: 
Nox ruit, Acnea; nos fiondo ducimus lioras. 

Ilio Incus est, parles ubi se via findii in ambas: 
Devierà, quae Dilis magni sub mocnia lendit; 

Ila e iter Elysium nobis: al laeva malorum 
Exercel poenas, et ad impia Tartara millit. 

Dciphobus conira: Ne saevi, magna sacerdos; 

Disecdam, explebo numcrum, reddarque lencbris. 

1 decus, i, nostrum; melioribus ulerc falis. 

Tantum effatus, et in verbo vestigio lorsit. 



Ed attor io di Reto in su la riva 
A P ombra tua con le mie mani un vólo 
Sepolcro eressi, e te gridai tre volte; 

E ’l nome c P armi lue riserba ancora 
11 loco stesso. Io tc, dolccVignore, 

Nè veder, nè coprir di patria terra 
Avanti al mio partir mai non potei. 

Deifobo rispose : Ogni pietoso 
Ogni onoralo officio, Enea mio caro, 

Ila l'amor tuo vèr me compilo a pieno. 

Ma I 4 empio Tato mio, T empia c malvagia 
Argiva donna a tal m’ ha qui condotlo, 

E tal di sè lasciò memoria al mondo, 
llcn li ricorda ( c ricordar len dei ) 

Di quell 4 ultima notte che sì lieta 
Mostrassi in pria, poi ne si volse in pianto, 
Quando il fatai cavallo il salto fece 
Sopra le noslre mura, c ’l ventre pieno 
D* armale schiere ne volò fin dentro 
A T alta ròcca. Allora ella di Bacco 
Fingendo il coro, e con le Frigie donne 
Scorrendo in tresca, una gran face in inano 
Si prese, e diè con essa il cenno a' Greci. 
Io dentro alla mia camera ( infelice I ) 

Mi ritrovai sol quella notte; c stanco 
Di tante che n* avea con tanti afTanni 
Vegghiatc avanti, un tal prende» riposo 
Che a morte più che a sonno era simile. 
Fece la buona moglie ogni arme intorno 
Sgombrar di casa, e la mia fida spada 
Mi sottrasse dal capo. Indi la porla 
Aperse, c Menelao dentro T'accolse, 

Cosi sperando un prezioso dono 
Fare al marito, c de 4 suoi falli antichi 
Riportar venia. Ctie più dico ? Basla 
Gir enlràr là V io dormia; e con essi era 
Per consultare Ulisse. 0 dii, se giusto 
È *1 priego mio, ricompensale voi 
Di quest 1 opere i Greci. E tu che vivo 
Se' qui, dimmi, a rincontro, il caso oT fato 
0 P errore o ’l prccelto de gli dei, 

0 qual altra fortuna l* ha condotto, 

Ove il sol mai non entra, e buio è sempre. 
Così Ira lor parlando e rispondendo, 

Avca già *1 sol del suo cerchio diurno 
Varcalo il mezzo, o V arria forse inlcro; 

Se non che la Sibilla rampognando 
Cosi li fc 1 del breve tempo accorti : 

Enea, già notte fassi, c noi piangendo 
Consumiam P ore. Ecco siam giunti al loco, 
Dove la strada in due senticr si parte. 
Questo a man dritta a la città ne porta 
Del gran Plutone, e quindi a i campi Elisi; 
Quest 4 altro a la sinistra a 1* empio abisso 
Ne guida, ov 1 hanno i rei supplizio eterno. 



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muto SESTO 



129 



Respicil Àcncas subito, et sub rupe sinistra 
Mocnia lata videi, triplici circumdala muro 
Quac rapido* (lainmis ambii lorrenlibus amnis 
Tarlareus Phlcgelhon, torquetquc sonantia saxa. 

Porla adversa, ingens, solidoque adamante columnae: 
Vis ut nulla virùm, non ipsi ciscindere ferro 
Coclicolac valcant. Stat ferrea turris ad auras; 
Tisiphoncquc sedens, palla succincla cruenta, 
Veslibulum exsomnis servai noctesque diesque. 

Itine exaudiri gemitus, et saeva sonare 
Verbera: tum strider ferri, traclaeque catcnac. 

Constitil Aencas slrepitumquc cxlerritus Iiausil: 

Quac seelerum facies ? o virgo, cfTare; quibusvc 
l'rgentur poenis ? qui lanlus pianger ad aures ? 

Tum vales sic orsa loqui: Dux inelyle Teucrùm, 

Nulli fas casto sceleralum insistere limen; 

Sed, me quum lucis liceale pracfccit Avcrnis, 

Ipsa dedm pocnas docuit, perque omnia duxit. 
Gnosius lisce Itliadamanthus babet, durissima regna, 
Castigabile audilquc dolos; subigitque fateri, 

Quac quis apud supcros, furto laelotus inani, 

Oistulit in seram commi so piacula mortem. 

Continuo sontcs ullrix accincta flagello 
Tisiphonc quatit insultans, lorvosque sinistra 
Intentans angue*, vocat agminn saeva sororum. 

Tum demum horrisono stridente* cardine sacrae 
Panduntur porlac. Cerni*, custodia qualis 
Vestibulo sedeal ? facies quae limina scrret ? 
Quinquaginla atris immani* hiatibus llydra 
Sacvior inlus babet sedem. Tum Tartarus ipsc 
Bis patct in praeccps tantum tenditquc sub umbras, 
Quantus ad aelhcrium codi suspcctu* Olympum. 

Ilic gcnus anliquum Terrac, Titanio pubes, 

Fulmine deiccti, fundo volvuntur in imo: 
ilic et Aloidas gemino*, immania vidi 
Corpora: qui monibus magnimi rescindere coelum 
Aggressi, supcrisquc lovcni (Intrudere regni*. 

Vidi et crudele* danlcm Saimonca pocnas, 

Dum fiamma* lovis et sonitus imilatur OJympi. 

Quatuor bic inveelus eqnis, et lampada qnassans, 

Per Graiùm populos mediacqne per Elidi* urbcm 
Ibat ovans, divùmquc sibi posccbat honorem, 

Demcns, qui nimbos et non imitabile fulmen 
Aere et cornipcdum pulsu simularci equorum. 

Al pater oimilpoten* densa intcr nubile telum 
Conlorsit; non ilio face*, ncc fumea laedi* 

Lumina; praecipitemque immani turbine adcgil. 

Ncc non et Tityon, Terrac omniparcntis alumnum, 



Il figlio a ciò di Priamo soggiunse : 

Non ti crucciare, o del gran Delio amica, 
Ch’or or da voi mi tolgo, c mi ritiro 
Ne le tenebre mie. Tu nostro onore 
YoUcn felice, già che scorto sei 
Da miglior foto; c meglio le n’ avvenga. 
Tanto sol disse, c sparve. 

Enea si volse 

Prima a sinistra, e sotto un’alta rupe 
Vide un’ ampia città che tre gironi 
Avea di mura, ed un di fiume intorno; 

Ed era il fiume il negro Flcgetontc 
Ch’ al Tartaro con suono c con rapina 
L’ onde seco traca, le fiamme e i sassi. 
Vede nel primo incontro una gran porta 
Ch’ha la soglia, i pilastri c le colonne 
D’ un tal diamante, che le forze umane, 

Nè de gli stessi dei, romper non potino. 
Quinci si spicca una gran torre in allo 
Tutta di ferro. A guardie de l’ entrata 
La notte c ’l giorno vigilando assisa 
Sta la fiera Tcsifone succinta, 

Col braccio ignudo, insanguinala c torva. 
Quinci di lai, di pianti c di percosse 
E di stridor di ferri c di catene 
Colale un suono udissi, che spavento 
Enea sentinne; e rattenuti) il passo : 

Dimmi, vergine, disse, c che delitti 
Son qui puniti ? c che pianti son questi ? 

Ed ella : Inclito sire, a nissun lece. 

Che buono c giusto sia, di portar oltre 
Da quella soglia scellerata il piede. 

Ma me di ciò che dentro vi s’ accoglie 
Ecatc instrussc allor eli* a i sacri boschi 
Mi prepose d’ Averno; c d’ogni pena 
E d’ ogni colpa c d' ogni loco appieno, 
Quando seco vi fui, notizia diemmi. 

Questo è di Radamanto il tristo regno, 

Là dov’ egli ode, esamina, condanna 
E discopre i peccati che di sopra 
Son da le genti o vanamente ascosi 
In vita, o non purgati anzi a la morte : 

Nè pria di Radamanto esce il precetto. 

Che Tesifonc è presta ad eseguirlo. 

Ella con 1’ una man la sferza impugna, 

Ne l’ altra ha serpi; cd ambe intorno arrosta, 
E grida e fere, c de le sue sorelle 
Le mostruose ed empie schiere tulle 
Al ministcrio de’ tormenti invita. 

Apronsi P esecrale orrende porle 
Stridendo intanto. Tu, clic quinci vedi 
Che faccio è quella clic di fuor le guarda. 
Pensa qual a veder sia denlro un* Idra 
Ancor più fiera aprir cinquanta ingorde 
Rabbiose bocche. Il Tartaro vicn dopo ; 



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130 



DELL' ENEIDE 



Cernere crai, per loia notem cui iugera corpus 
Porrigitur; roslroquc immani» vullur obunco 
Immortale iccur londens fecundaque poeuis 
Visterà, rimalurquc epulis, habitalque sub allo 
Pectore, nec fibris requies dalur ulla rcnatis. 

Quid memorem Lapilhas, Ixiona Pirilhounique ? 

Quos super atra siici iam iam lapsura cadenliquc 
Immincl adsimilis: lucenl genialibus allis 
Aurea fiderà loris, epulacquc aule ora paralac 
Itcgiflco luxu; Furiarum maxima iuxla 
Accubal, cl manibus protiibct conlingcro mensas, 
Eisurgitque faccm allolleus, alque intonai ore. 

Ilio, quibus inrisi fralrcs, dirai vita manebai, 
Puisalusvc parens, cl fraus inneia elicmi: 

Aul qui diviliis soli incubucre reperii», 

Nec partem posuere suis: quac maxima turba est. 
Quiquc ob adultcrium cacsi; quique arma acculi 
Impia, nec rcriii dominorum fallcrc dextras, 

Inclusi poeuam exspeclanl. Ne quacrc doccri, 

Quam poenam, aul quac forma viros forlnnave mcrsil. 
Saxum iugens rolvunl alii, radiisvc rolarum 
Dislricli pendent. Sedei, aclcrnumque sedebit, 

Infclix Tliescus; Phlcgyasquc miscrrimus omnes 
Admoncl, cl magna leslalur voce per umbras: 
a Discile iusliliain monili, cl non temnere divos. a 
Vcndidil lue auro palriam, dominumque polcnlcm 
Imposuil, (hit leges prelio alque rcflxit: 

Hic llialamum invaili nalac vcliiosquc hymenacos: 
Ausi omnes immane nefas, ausoque potili. 

Non, inibì si linguae ccnlum siili, oraque cenlum, 
Ferrea voi, omnes scclcrum comprendere forma», 
Omnia pocnarum pcrcurrerc nomina possim. 



Dna vorago che due volle lanlo 

Ila di profondo, quanto in su guardando 

È da la (erra al cielo: e qui ne l‘ imo 

Suo baratro dal fulmine Irafltli 

Son gli antichi Titàni al ciel rubelli. 

Qui vidi arabi d’ Aldo gli orrendi Agli, 

Che scinder con le mani il cielo osato, 

E lor lo sccllro del suo regno a Giove. 

Vidivi l' orgoglioso Saimondo 
Di sua temerità pagare il fio ; 

Chè temerario veramente ed empio 
Fu di voler, quale il Tonante in ciclo, 

Tonar qua giuso c fulgorare a prova. 

Questi su quadro suoi giunti destrieri, 

La man di face armalo, alteramente 
Per la Grecia scorrendo, e do per mezzo 
D' Elide, ov' è di Giove il maggior tempio 
Di Giove stesso il nume, de gli dei 
S' attribuiva i sacrosanti onori. 

Folle, clic con le fiaccole c co* bronzi, 

E con lo scalpitar de' suoi ronzoni 
I tuoni, i nembi e i folgori imitava 
Ch' imitar non si ponno; c ben fu degno 
di’ ei provasse per man del Padre eterno 
D' altro fulmine il colpo c d’ altro vampo 
Che di tede e di fumo, c deguo ancora 
Che nel baratro andasse. Eravi Tizio, 

Quel de la terra smisurato alunno, 
die licn disteso di campagna quanto 
Cn giogo in nove giorni ara di buoi. 

Questi ha sopra un famelico avoltorc. 

Che con l'adunco rostro ai cor d’intorno 
Gli picchia e rode; e perchè sempre il pasca, 
Non mai lo scema si, die ’l pasto eterno 
Ed eterna non sia la pena sua; 

Chè fatto a chi lo scempia esca e ricetto, 

Del suo proprio martir s'avanza e cresce; 

E perchè sempre langua, unqua non more. 

Di Lapiti a che parlo? d'issioue, 

Di Piritdo, e di quegli altri lutti, 

Cui sopra al capo un'atra selce pende 
Che grave c riiinosa ad ora ad ora 
Sembra che caggia? Avvi la mensa d’oro 
Con preziosi cibi iu regia guisa 
Apparecchiali e proibiti insieme: 

Cbè la Fame, infornai furia maggiore. 

Gli siede a canto; c com’ più T gusto incende 
Di lui, più dal gustarne indietro il traggo, 

F. sorge, c la sua face estolle c grida. 

Quei che son vissi a i lor fratelli amari; 

Quei ch'han battuti i padri; quei che frode 
Hanno ordito a’ctienti; ì ricchi avari; 

E scarsi a'suoi, di cui la turba è grande ; 

Gli uccisi in adulterio; i violenti; 

GI'inGdi; i traditori in questo abisso 



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unito SESTO 



131 



linee ubi dieta dedit Phoebi longacva sacerdos: 

Sed ìam age, carpe viam, et susccplum perflce rounusl 
Accelercmus, ail. Cyclopum edncla caminis 
Moenia conspicio, at(|ue adverso fornice portas, 

Haec ubi nos praccepla iubent deponcrc dona. 

Divorai, et parller, gressi per opaca viarum, 

Corripiunl spatium medium, foribusque propinquant. 
Occupai Acneas adilum, corpusque recenti 
Spargil aqua, ramumque adverso in limine flgit. 



His demum eiaclis, perfeelo munere divae, 
Devenere locos laelos, et amoena virola 
Fortunatorum nemorum, sedesque bealns. 

Largior hic campos aether et lumino vestii 
Purpureo, solemquc suum, sua sidcra norunt. 
Pars in gramineis exetcenl membra palacatris, 
Contendunt ludo, et fulva luctantur arena; 

Pars pedibus plaudunt choreas, et carmina dicunl. 
Pier, non Thrclcius longa cum vesto sacerdos 
Obtoquilur numeris septern discrimina vocum; 
lamquc cadem digilis, iam pectine pulsai ebumo. 
Hic gcnus antiquum Teucri, pulchcrrima proles, 
Magnanimi hcroes, nati meiioribus annis, 

Iiusque, Assaracusquc, et Troiae Dardanus auclor. 
Arma procul currusque virftm miralur inanes. 
Stani terra dettine bastae, passimque soluti 
Per campos pascuntur equi. Quae gratta enrruum 
Armorumque fuit vivis, quae cura nilenlcs 
Pascere equos, eadem scqnitur letture rcposlos. 
Conspicit, ecce, alios delira laevaque perherbam 
Vcscentcs, iactumque choro pacano rancntes, 



Uan lutti i lor ridotti e le lor pene. 

E che pena e clic forma e che fortuna 
Di ciascun sia, non 6 d'uopo ch’io dica: 

Ma chi sassi rivolgono, e chi vólti 
Son da le ruote, ed altri in altra guisa 
Son tormentati. In un pctron condito 
Vi siede, e sederavvi eternamente, 

Teseo infelice; e Flcgia infelicissimo 
Va Ira l'ombrc gridando ad alta voce: 
Imparate da me voi che mirate 
l,a pena mia. Non violate il giusto. 

Riverite gli dei. Tra questi tali 
È citi vendè la patria; chi la pose 
Al giogo dc'tiranni; chi per prezzo 
Fece leggi e disfece; chi da stupro 
È di figlia macchiato, o di sirocchia ; 

Tutti che brulle ed empie scellcrante 
Hanno osato o commesso; e cento lingue, 

E cento bocche, e voci anco di ferro, 

Non bastcrian per divisare i nomi 
E le forme de’vizi c de le pene 
Ch’entro vi sono. 

Poi che la Sibilla 
Ebbe ciò detto: Via, soggiunse, attendi 
A l’impreso viaggio, e studia il passo; 

Chè già le mura da'Ciclopi ostruite 
Mi veggio avanti, c sotto quel grand'arco 
La sacra porta che ’l tuo dono aspetta. 

Cosi mossi ambiduc, lo spazio lutto, 

Ch’era nel mezzo, per sentiero opaco 
Tosto varcando, anzi a la porta furo. 
Incontanente Enea l'intrala occupa; 

Di viva acqua si spruzza: e T sacro ramo 
A la regina de l'inferno afllggc. 

Ciò fatto, a i luoghi di letizia pieni, 

A Camene verdure, a le gioiose 
Contrade dc’felici c de’beali 
Giunsero al line. È questa una campagna 
Con un aer piò largo, c con la terra 
Che di un lume di porpora è vestita. 

Ed ha ’l suo sole c le sue stelle anch’ella. 
Qui se ne slan le fortunate genti, 

Parte in su'prati e parte in su l’arena 
Scorrendo, folleggiando, c vari giuochi 
Di piacevol contesa esercitando. 

Parte in musiche, in feste, in balli, in suoni 
Se ne van diportando, ed han con essi 
Il Tracio Orfeo ch’in lungo abito c sacro 
Or con le dila, ed or col plettro eburno, 
Sette nervi diversi iusicme uniti, 

Tragge dal muto legno umani accenti. 

Qui di Teucro l'antica c bella razza 
Facca soggiorno; quei fumosi croi 
Che in quei tempi migliori al mondo furo 
Ilo, Assaraco, Dardano, quei primi 



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132 



DELL* ENEIDE 



Inlcr odoratimi lauri ncmus: linde superne 
Plurimus Eridani per silvani volvilur amnis. 

Ilic manus, ob patrinm pugnando vulnera passi, 
Quique sacerdote» casti, dum vita manebai, 

Quique pii vatcs, et Phoebo digita loculi, 

Inventa’* aul qui vilam excoluerc per arlcs, 

Quique sui memores alios fccere merendo. 

Omnibus bis nivea cinguutur tempora villa. 

Quos circumrusos sic est airala Sibylla; 

Musaeum ante omnes: medium nani plurima turba 
(lune habel, atquc humeris cxslanlcm suspicil altis: 
Dicile, felice» anima e, tuque, oplime vale»: 

Quae regio Ancbisen, quis liabet locus ? Illius ergo 
Yenimus, et magno» Èrebi tranavimus aranes. 

Atque buie responsum paucis ita rcddidil heros: 
Nulli certa domus; luci» liabitamus opaci», 
Itiparumque loro» et praia rcccntia rivi» 

Incolimus. Sed vos, si ferì ila corde voluntas. 

Hoc superale iugum; et facili iam tramite sislam. 
Dixit, et ante tulit grcssum, camposque uilentes 
Drsuper ostentai; dehiuc summa cacumina linquunl. 



Àt pater Anchises penilus convallc virenti 
Indusas anima», supcrumque ad lumen iluras, 
Luslrabal studio recolens, omnemque suorum 
Forte reccnsebat numerum, carosque nepoles, 
Falaquc, fortunasque virtìm, moresque, manusque. 
Isque ubi tendentem adversum per gramina vidit 
Aenean, alacris palmas utrasque tetendit; 
EfTusacquc gcnis lacrimae; et vox excidil ore: 
Venisti tandem, tuaque eispectala parenti 
Vicit iter durum pietas ? dalur ora lueri, 

Nate, tua; et nolos audlre et reddere voces ? 

Sic cquidem duccbam animo rebarque fulurum, 



De la gran Troia fondatori e regi. 

Vcggon da lungo le vane arme c i carri 
A lor dintorno, c Paste in terra fisse, 

E gli sciolti deslrier per la campagna 
Vagar pascendo; chè 'I diletto antico 
E de Farmi c dc’rarri e de'cavalli 
Oli segue anco sotterra. Indi altri altrove 
Scorgono, clic da destra c da sinistra 
Convivando e cantando, sopra l’erba 
Si stanno assisi, ed lian di lauri intorno 
Un odorato bosco, onde il Po sorge 
Sopra la terra, e spazioso inonda. 

E questi eran color che combattendo 
Non fur di sangue a la lor patria ovari; 

E quei clic sacerdoti erano in vita 
Castamente vissuti, c quei veraci, 

E que* pii ch’han di qua parlalo o scritto 
Cose degne di Febo, e gl’ inventori 
De Farti, ond’è gentile il mondo e bello; 

E quei che, ben oprando, han tra’ mortali 
Fallo di fama c di memoria acquisto; 

Cui tulli, in segno di celeste onore, 
Candida benda il fronte orna c colora. 

A questi, ch’n la vergine Sibilla 
Fér cerchio intorno, cd a Museo tra loro, 
Che da gli omeri in su gli altri avanzava, 
Dissocila: Alme felici, e tu buon vate, 
Ditene in qual contrada e ’n qual magione 
Qui tra voi si riposa il grande Anchisc, 
Chè lui cerchiamo, sol per lui varcati 
D’Èrebo i fiumi c le caverne «verno. 

A cui Museo così breve rispose: 

Nullo è di noi che in alcun luogo alloggi 
Come in suo proprio, e tutti o per le sacre 
Opache selve, c per Camene rive 
Dc’cliiari fiumi, o per gli erbosi prati 
Tra rivi e fonti i nostri alberghi averne. 

Ma se di ciò vi Cile, itene meco 
Sovr’a quel giogo, e quindi agevolmente 
Il senlier ne vedrete. In ciò si mosse 
Come lor guida, e sopea al colle asceso 
Mostrò lor d'alto i luminosi campi, 

Additò 1 calle, ed inviolli al piano. 

Era per avventura in una valle 
Anchise, elle da poggi era ricinta, 

E di verde coverta. Ivi in disparte 
De'sitoi nipoti avea l'animo accollo 
Ch’alia vita di sopra eran chiamate, 

E facendo di lor rassegna e mostra 
Gli annoverava, esaminava i falli, 

Le fortune, il valor di mano in mano, 

Gli ordini e i tempi loro. Enea comparve 
Sul campo intanto; a cui tosto che 'I vide 
Lieto Anchisc avventossi, c con le braccia 
In alto d'accogliema: 0 Aglio, disse 



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Tempora dinumerans; nec me mea cura fcfellit. 
Ouas ego le terras cl quanta per aequora vecluin 
Accipio I quanlis iaclatum, nate, pcriclis ! 

Quam metui, ne quid Libyae libi regna nocerenl ! 
lite aulcin: Tua me, genilor, tua tristi» imago, 
Saepius occurrens, haec limina temlerc adcgil. 
Stani sale Tyrrhcno classcs. Do iungere dczlram, 
Da, genilor; teque amplesu ne subtrahe nostro. 
Sic memorans largo flctu simul ora rigabat. 

Ter conalus ibi collo dare brachia tir, uni: 

Ter frustra comprensa manus elTugit imago, 

Par levibus venti», volucriquc simillima sonino. 



Interna videi Acneas in valle reducla 
Scclusum nemus, et virgulto snnanlia silvis, 
Lelhacumque, domos placidas qui praenalat, amnem. 
Hunc circum innumcrae gcnles populique volabant, 
Ac, veluli in pratis, ubi apes nestaie serena 
Floribus insidunl varils, «candida circum 
Lilia fundunlur, strepi! omnis murmure campus. 
Ilorrescil visu subito, caussasquc requirit 
Inscius Aencas, quae sìnl ea (lumina porro, 

Quive viri tanto compiermi ogminc ripas. 

Tum pater .Incluse»: Animac, qnibus altera fato 
Corpora debentur, Lcthaei ad fluminis undam 
Secoros laliccs et longa oblivia potaui. 
lias cquidem memorare tibi alque estendere coram 
lampridem, batic prolcm cupio enumerare meorum: 
Quo magis Italia mecum laetcre rcperla. — 

0 pater, anne atiquas ad coctum bine ire putandum est 
Sublimcs animas, itcrumque in tarda rcvcrli 
Corpora ? Quae lucis miseri» lam dira cupido ? 

Dicano cquidem, nec le suspcnsum, nate, tenebo; 
Suscipit Ancliiscs, atquc ordine siugula pandi!. 



Vischio vol. eaico 



LIBRO SESTO 133 

Dolcemente piangendo, io pur li veggio, 

Pur sei venuto, ha pur la tua pleiade 
Superati i disagi c la durezza 
Di si strano viaggio. Ecco m'è dato 
Di veder, tiglio, il tuo bramalo aspetto, 

E sentirli c parlarti. Io di ciò punto 
Non era in forse, c sol pensava al quando. 
Contando i giorni. Oli dopo quanti aOanni, 
Dopo quanti perigli, c quanti storpi! 

E di mare c di terra io li riveggio! 

E quanto ebbi timor che di Cartago 
A'enisse al corso tuo sinistro intoppo ! 

Ed egli a lui: La sconsolala immago, 

Clic m'è, padre, di le sovente apparsa, 

Per te, per te veder qua giù m'ha tratto; 

E di sopra Un qui salvo a la riva 
Del mar Tirreno il mio navilc è sorto. 

Or daminf, padre mio, dammi ch'io giunga 
La mia con la tua destra, e grazia fammi 
Che di vederti e di parlarti io goda. 

Mentre cosi dicca, di largo pianto 
Rigava il volto, e distcndca le palme; 

E tre volte abbracciandolo, altrettante 
( Come vento stringesse, o fumo, o sogno) 
Se ne tornò con le man véle al petto. 

Intanto Enea per entro a la grati valle 
Vide scevra da ('altre una foresta, 

1 cui rami sonar da lungo udiva. 

A piè di questa era di Lete il rio 
Cli'ai dilettosi e fortunati campi 
Corre davanti, e piene avea le ripe 
Di genti innumerabili, ch'intorno 
A caterve aitando ivano in guisa 
Clic fan le pecchie a'chiari giorni estivi, 
Quando di fiore in fior, di giglio in giglio 
Si van posando, c per Papriche piagge 
Dolcemente ronzando. Etica, che nulla 
Di ciò sapea, di subito stupore 
Pu sovraggiunto, o la cagion spiando: 

0, disse, padre, che riviera è quella? 

E che gente, c che mischia, c che bisbiglio? 
Lenirne, gli rispose, a cui dovuti 
Sono altri corpi, a questo Duine accolte 
Reou dimenticanze e lunghi obblii 
De l'altra vita; e questi io desiava 
Che tu vedessi, e che da me n'udissi 
I nomi c i gesti, onde contezza appieno 
Del nostro sangue, e piena gioia avessi 
De l'acquisto d'Italia. 0 padre, adunque. 
Soggiunse Enea, creder si dee che Palme, 
Clic son qui scorcile e libere e felici, 
Cerchin di nuovo a la terrena salma, 

Di nuovo a la prigion tornar de'corpi? 

E qual, misere loro! empio desire 
Del lume di lassù tanto le invoglia? 

18 



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DEM/ ENEIDE 



Figlio, risposo Anclnsc, acciò sospeso 
l*iù non vacilli in questa dubbio, ascolta 
( E in tal guisa per ordine gli narra ): 



Principio coelum ac tcrras, camposque liqucnles, 
Luccnlcinque globum Lunae, Tilaniaquc astra, 
Spiritus inlus alit, lolamquc infusa per arlus 
Mcns agitai molcin, et magno se corpore misccl. 

Inde hominuin pccudumque gcnus, vitaeque volantino, 
Et quae marmoreo ferì monstra sub acquorc poulus. 
Igncus est ollis vigor et coeleslis origo 
Scminibus, quantum non noxia corpora tardant 
Tcrrenique hebetanl artus moribundaque membra. 
Hinc metuunt, cupiuntquc; dolenl, guudcnlquc; neque 

auras 

Dispiciunt, clausae lenebris et carcere cacco. 

Quin et supremo quum luminc vita rcliquit, 

Non tamen omnc mal u in miseris, ncc fundilus omnes 
Corporcac execdunl pcsles; penitusque nccesse est 
Multa diu concreta modis inolcscere miris. 

Ergo cxerccntur poenis, veterumque malorum 
Supplicia expendunt. Aline pnndunlur inancs 
Suspcnsac ad ventos; aliis sub gurgite vasto 
Infcctum eluidtr scelus, ani cxuritur igni. 

Quisquc suos palimur Manes; exinde per amplimi 
Mittimur Elysium, et pauci Inda arva lenemus: 

Donec longa dics, per re do lemporis orbe, 

Concrctam cxemil labcm, purumque rcliquit 
Aelhcrium scnsum, olquc aurai simpliris ignem. 
llas omnes, uhi mille rolam volverc per annos, 
Lclhaeum ad fluvium deus evocai agminc magno: 
Scilicct immemores supera ut convexa revisant 
tiursus, et incipianl in corpora velie rcverli. 



Dixerat Anchiscs: natumque unaque Sibyllam 
Convenlus trabit in medios, turbamque sonantem: 

Et tumulum capit, unde omnes longo ordine possit 
Advcrsos legere, et venientum discerc vultus. 

Nunc age, Dardaniam prolcm quac deinde sequatur 



Primieramente il del, la terra e’1 mare, 
1/aer, la luna, il sol, quanto è nascosto, 
Quanto appare e quanti, muove, nudriscc 
E regge un die v’è dentro, o spirto o mente, 
0 anima che sio de l’universo; 

Che sparsa per lo tulio e per le parti 
Di sì gran mole, di sè l’empie, c seco 
Si volge, si rimescola c s’unisce. 

Quinci ruman legnaggio, i bruti, i pesci, 

E ciò che vola, e ciò che serpe, lian v ita, 

E dal foco e dal cicl vigore c seme 
Traggou, se non se quando il pondo e ’l gelo 
Dc’gravi corpi, c le caduche membra 
Le fan terrene e Iarde. E quinci ancora 
Awien che tema e speme c duolo c gioia 
Vivendo le conturba, c che rinchiuse 
Nel tenebroso carcere, e ne l’ombra 
Del mortai velo, a le bellezze eterne 
Non ergon gli occhi. Ed, oltre a ciò, morendo, 
Perchè sian fuor de la terrena vesta, 

Non del lutto si spogliati le meschine 
De le sue macchie; chè ’l corporeo lezzo 
Sì l’ha per lungo suo contagio infette, 

Clic scevre anco dal corpo, in uova guisa 
Le lien contaminale, impure c sozze. 

Perciò di purga hau d' uopo, c per purgarle 
Son de F antiche colpe in vari modi 
Punite c travagliale: altre ne l’aura 
Sospese al vento, altre nc l’ acqua immerse, 
Ed altre al foco raffinale ed arse : 

Chè quale è di ciascuno il genio c ’l fallo, 
Tale è ’l castigo. Indi a venir n’ è dato 
Nc gli ampi Elisi campi ; c poche siamo, 

Cui sì lieto soggiorno si destini. 

Qui siamo infili che ’i tempo a ciò prescritto 
D’ ogni immondizia ne forbisca e terga, 

Sì eh’ a nitida fiamma, a semplice aura, 

A puro etereo senso ne riduca. 

Quest* alme tutte, poiché di mill* anni 
Ilan vólto il giro, alfin son qui chiamate 
Di Lete al fiume, e ’n quella riva fanno, 

Qual (u vedi colà, turba e concorso. 

Dio le vi chiama, acciò eh* ivi dcposlo 
Ogni ricordo, men de’ corpi schive, 

E più vaglie di vita un’ altra volta 
Tornio di sopra a riveder le stelle. 

Ciò dello, Anchisc a quelle genti in mezzo 
Condusse il figlio, e la Sibilla insieme ; 

E preso un colle, ove le schiere tutte. 

Siccome ne venian di mano in mano, 

Avca d' incontro, c le scorgea nel volto. 

Or qui li mostrerò, soggiunse Anchise, 



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LIBRO SESTO 



135 



Gloria, qui mancarti Itala do gente nepoles, 

Illustre* anima*, nostrumque in nomen ituras, 
Expediam diclis, et le lua Tata doccbo. 
lite, tides, pura iuvenis qui nitilur basta, 

Proiima sorte tene! lucis loca, primns ad auras 
Aetherias Italo commixlus sanguine surget, 

Silvius, Albanum nomen, tua postuma proles: 

Quem libi longacYo scruni Lavinia comuni 
Educai silvis regem, regumque parentem: 

Inde genus Longa nostrum dotninabilur Alba, 
l'ro.vimus ilio Procas, Troianae gloria gentis, 

Et Capys, et Numilor, et qui le nomino reddel 
Silvius Aencas, pariler pielate vel armis 
Egregius, si unquam regnandam acceperil Albam. 

Qui iuvenes I quanta* ostentarti, adspice, tire* 1 
Atquc timbrala gerunt civili tempora qucrcu. 

Hi libi Nomentum, et Gabios, urbemque Fidcnam, 

Ili Col lalinas imgionent monlibus arce*, 
l Laude pudiciliac celebres, addentque superbos ] 
l’omelios, caslrumque Inui, Bolamqtte, Coramque. 
llacc lutn nomina crunl, nunc sutil sine nomine terrac. 
Quin et avo coioitcm sesc Mavorlius addet 
Romulus; A-saruci quent sanguini* llia mater 
Educo!. Yidcii' ut gentinac stani vertice cristac, 

Et pater ipso suo super dm iant signat honore ? 

En, huius, nate, auspiciis illa inclyta Roma 
jtnpcrium tcrris, animos scquabil Olimpo, 

Scplemquc una sibi muro circumdabit arces, 

Fcl x prole virimi: qualis Bereejnlia mater 
Invcltilur curru Phrygias turrita per urbes, 

Laela deùm partu, ccnlum complcxa nepolcs, 

Omnes coelicolos, omnes supera alta tencutes. 

■ lue gemina* nunc flede acics ; liane adspice genlctn, 
ltoinanosque luos. lite Caesar, et omnis luti 
Progenie*, magnutn coeli ventura sub aiem. 
lite vir, liic est, libi quem premuti saepius audis, 
Augusto* Caesar, Divi genus: aurea coiidet 
Saecula qui rursus Lalio, regnala per aria 
Saturno quondam; super et Garainanlas et Indos 
Proferel imperium; iacel extra sidcra tellus, 

Extra anni Solisquc tias, ubi coclilcr Alias 
Axcm humcrn torquel stelli* ardentibus aplum. 

Huius in adventum iatn mine et Caspia regna 
Itcsponsis borrcnl divùm, et Macolia tellus, 

Et seplcmgemini turbant trepida ostia bili. 

Nec vero Alcides tantum telluri* obivil; 

Fiieril acripcdcm ccrvoni licci, aut Erymanthi 
Pacarit nemora, et Lernam trcmcrcccrit arcu: 

Kce, qui pampineis victor iuga flcctit bibenis, 

Libcr, agcns celso Avvile de vertice ligres. 

Et dubitamus adhuc virtutem cxlendere faclis ? 

Aut mclus Ausonia probibcl consistere terra 1 
Quis procul ilio autein ramis insigni* olivac 
Sacra ferens ? bosco crine» inranaquc menta 
Rcgis Romani; primus qui legibus urbein 



Quanta sarà ne' secoli futuri 
La gloria nostra ; quanti e quai nepoti 
De la Uardania prole a nascer hanno : 

E quante del mio sangue anime illustri 
Sorgeranno in Italia. Indi a te conte 
Le tue fortune e i tuoi fati saranno. 

Vedi colà quel giovinetto ardito 

Clic su quell' asta pura il braccio appoggia ? 

Quegli alla luce i destinato in prima. 

Primo che di Lavinia in Laxio avrai 
Figlio postumo a te, già d'anni grave, 

Cb* al fin da lei fuor delle selve addutto, 

Re sarà d' Alba, e degli Albani regi 
Autore c padre ; Sili» dal suo nome 
Fian tutti i nostri, che da lui discesi 
Ivi poscia gran tempo imperio avranno. 

Proca è qui dopo lui, gloria e splendore 
De la stirpe Troiana ; e quegli è Capi : 

E quegli è Numilore ; e l' altro appresso 
È Silvio Enea, che’l tuo nome rinnova ; 

E se Ila mai clic ’l suo regno ricovri, 

Pion sarà tnen di le pietoso c forte. 

Mira die gioventù, mira che forze 
Mostrali solo al vedergli. Appo costoro 
Quei che son là di quercia inghirlandati, 

Di Gabi, di Momento e di Fidenc 
Parte propagheranli il picciol regno ; 

Parte su i monti il tempio ti porranno 
D’ Inuo, c la terra che da lui dirassi, 

E Collazia e Pomezia c Boia e Cora ; 

Cliè questi nomi allor quei luoghi avranno 
Cb' or ne son senza In compagnia de l’ avo 
ltomolo se ne vien, di Marte il figlio, 

Di Roma il padre Al mondo Ria damilo, 

De la stirpe d' Assaracu rampollo. 

Vedi! colè, eh' ho in su la lesta un elmo 
Con due cimieri, e tal, che il padre stesso 
Già par cli'in ciclo c nel suo seggio il ponga. 
Questi, figlio, sarà quel grand'eroe, 

Onde i suoi primi gloriosi auspicii 
Avrà l' inclita Roma, quella Roma 
Che sette monti entro al suo cerchio accolli 
Tanto si stenderà, che (la con l' armi 
Uguale al mondo, c con le menti al cielo; 
Roma di cosi prodi c chiari figli 
Madre felice. Tal di Bereeinlo 
La maggior madre inrra 1 leoni assisa, 

E di torri altamente incoronala 
Va per la Frigia, gloriosa e lieta 
Che tanti ha Agli in cicl, nepoti in seno. 
Tutti, che dii già sono o dii si fanno. 

Or qui, figliuolo, ambe le luci affisa 
A mirar la lua gente e I tuoi Romani. 

Cesare è qui, qui la progenie i tutta 
Del grande lulo, a cui già s' apre il ciclo. 



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DELL’ ENEIDE 



imi 



Fundabil, Curibus par\is cl paupcre terra 
Missus in imperituri magnum. Cui deintlc subibil, 

Olia qui rumpet palriae, residesque movebit 
Ttillus in arma viro», et iam desueta Iriumpliis 
Agmina. Quem iuxla sequilur iadanlior Ancus, 

Nunc quoque iam nimium gaudens popularibus auris. 
Vis et Tarquinios reges, animamque superbam 
lltoris Bruti, fasccsque ridere reeeptos ! 

Consulis impcrium bic primus saevasque secures 
Accipicl; natosque pater, nova bella mmenles, 

Ad poenam pulrbra prò liberiate vocabit, 
tnfelii ! l’tcunquc fcrent ea facta minores: 

Yincet amor palriae laudumque immensa cupido. 

Quin Decios, Drusosque procul, saevumque securi 
Adspicc Torqualtim, et referentem signa Camillum. 
Illae autem, paribus quas fulgerc cernis in armis, 
Concordes animae nunc, et dum nocte premcnlur, 
lleu quanlum intcr se bellum, si lumina tilae 
Atligerinl, quanta» acies slragemquc cicbunt, 
Aggeribus socer Alpini» atipie arce Monoeci 
Descendens, gcncr adversis instruclus Eois I 
Ne, pucri, nc tanta animi» adsuescilc bella; 

Neu patriac validas in viscera venite tircs. 

Tuquc prior, tu parte, gcnus qui ducis Olympo; 
Proiice tela marni, sanguis incus, 
lite triumphala Capilolia ad alta Corintlio 
Victor agri rumini, iraesis insigni» Achivis. 

Eruel ilio Argos, Agamemnoiiiasque Myrenas, 
Ipsumquc Acaeidcn, gemi» armipotenti» Achilli; 
l'Ibis avos Troiae, tempia cl temerata Mincrvac. 

Quis te, magne Calo, tacitino, ani le, Cosso, relinqnal? 
Quis Gracclii geuus ? aut getninos, duo fulmina belli, 
Scipiadas, cladem Libyac, parvoquo potcnlem 
Fabricium, vel le sulco, Serrane, serentem? 

Quo fessimi rapilis, Fabii ? Tu Matìmus ille es, 

Unus qui nobis cunctando rcstituis rem. 

Evcudcnl olii spiranlia mollius aera. 

Credo equidem; vivos ducent de marmorc vultus; 
Orabunt caussas melius, cocliquc meatus 
Dcscribent radio, cl surgenlia sklera dicenl; 

Tu regere imperio populos, Romane, memento; 
line libi orunl artes: pacisque imponcrc morem, 
Parcctc subieclis, cl debellare superbo». 



Questi, questi i colui che tante volte 
T' A già promesso, il gran Cesare Augusto, 
Di divo padre figlio, c divo aneli' egli. 

Per lui risorgerà quel sccol d’oro, 

Quel del vecchio Saturno antico regno. 

Clic fc’ il Laiio si bello e 'I mondo lutto. 
Questi oltre a i Garamond ed oltre a gl’ Indi 
Impererà fln dove il sole e l' anno 
Non giunge, c più non va se non s' arretra : 
Trapasserà di là dal Mauro Atlante 
Clic con gli omeri suoi folce le stelle. 

Al venir di costui, sol de la voce 
Che ne dènno i profeti, i Caspii regni, 

La Mcolica terra, e quanto inonda 
Il sette volle geminato Nilo, 

Tremar già veggio, c star pensoso c mesto. 
Tanto del mondo il glorioso Alcide 
Non corse mai, se ben dc’Cercuiti, 

Di Lerna e d’Erimanto i mostri ancisc ; 

Nò tanto ne domò ehi domò gl' Indi, 

E nel trionfo suo di vili c pampini 
A le tigri di Risa il giogo impose. 

E sarà poi che T valor nostro manchi 
Di gloria, c tu di speme e d’ ardimento 
Di far d' Ausonia il desiato acquisto? 

Ma chi Ila questi clic da lungi scorgo 
SI venerando, il crin cinto d' olivo, 

Con quelle bende c con quei sacri arredi ? 
A la chioma, a lo barba irla c canuta 
Mi sembra, ed è di Roma, il santo rege, 
Che dal picciolo Curi a grande impero 
Sarà da lei chiamato, c sarà il primo 
Che cerimonie introdurravvi c leggi. 

A lui Tulio vien dopo, il forte c saggio , 

Ch’ a i dismessi trionfi rivocando 
La gente giù per lunga pace imbelle, 

La tornerà, di neghittosa e mite, 

Un'altra volta armigera e guerriera. 

Anco ò quell’ altro che lo segue appresso, 
Che d’onor troppo e del favor del volgo 
Di già si mostra ambiiioso c vago. 

Or vedi là, se di vedergli agogni, 

Anco i Tarquini regi, c quel superbo 
Vendicator de la superbia loro 
Bruto, consol primiero, c quei suoi fasci 
E quelle accette ond' ei padre crudele, 

De la patria buon figlio, i figli suoi 
Per l' altrui bella libertadc ancidc. 
Infortunalo lui I che che dipoi 
Da la posterità se nc favelle. 

Vince il pubblico amore, c ’I gran desio 
D’ umana lode in lui I’ altello interno 
De la natura e del suo sangue stesso. 

Mira poco in disparte i Dccii, i Drusi, 

Il severo Torquato c '1 buon Camillo ; 



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unno sesto 



in 



Sir. pater Ancliises, alque liacc mirantibus addìi: 
Adspicc, ul insignis spoliis Marccllus opiruis 
Ingredilur, victorquc viros supercminel omncs ! 
Ilic rem Romanam, magno turbante lumullu, 
Sistcl, eque» sterne! Pocnos, Gallumquc rcbellcm, 
Terliaquc anno patri suspcndet capta Quirino. 
Atquc hic Aeneas: una namque ire videbat 
Egregium Torma iuvenem et fulgeotibus armis, 

Sed Trons laela parum, et deieclo lumina vullu: 
Quis, palcr, ilio, virum qui sic comitatur euntcrn ? 



L' uno, elio tien già la securc in mauó, 

E l' altro, clic da' Galli ne riporla 
I perduti vessilli. I due, che vedi 
Si rìsplcndcr ne l' armi, e che rinchiusi 
In questa notte sembrano a la vista 
Gir di pari e d' accordo, o se a la (ita 
Vengon di sopra, quanta guerra e quale. 

Con che strage di genti e con clic forze, 
Faran tra lorol il suocero da l'Alpi 
E da T occaso, il genero da l' orlo 
Verrà r un contro l'altro. Ah Agli, ah figli 1 
Non cosi rio, non cosi fiero abuso 
D’armar voi contr’ a voi, conir' a le viscere 
De la gran patria vostra. E tu che Iraggi 
Dal ciel legnaggio, tu mio sangue, astienti 
Di tanta ferità; perdona il primo, 

E gitla l'armi in terra. Eero chi vince 
Corinto e ’l popol Greco, e 'n Campidoglio 
Trionfando ne saghe. Ecco chi d’Argo 
E di Sirena ancor le torri abbatte, 

E chi Pirro debella e 'I seme eslioguc 
Del bellicoso Achilie. Alla vendetta 
Clic ben de gli avi ricompensa i danni, 

E 'I tempio violato di minerva. 

Dove lass' io te, gran Catone e Cosso ? 

E i Gracchi, e i due gran folgori di guerra 
Ambedue Scjpioni, ambi Africani, 

Strage T un di Cartago, e l' altro esizio ? 

Dove Fabrizio il povero, e potente 
Con la sua povertà ? Dove Serrano, 

Cli' è, di bifolco, al grande imperio assunto ? 
Dove restano i Fabii ? Eccone un solo, 
Massimo veramente, rlie con arte 
Terrà il nemico tranquillando a bada. 
Abbiansi gli altri de l'allrc arti il vanto: 
Avvivino i colori e i bronzi e i marmi ; 
Muovano con la lingua i tribunali ; 

Mostrili con l' astrolabio e col quadrante 
Meglio del ciel le stelle e i moli loro : 

Che ciò meglio sapran forse di voi ; 

Ma voi, Romani mici, reggete il mondo 
Con P imperio e con l' armi, e Farli vostre 
Sicn Tesser giusti in pace, invitti in guerra; 
Perdonare a’ soggetti, accòr gli umili, 
Debellare i superbi. 

Iti questa guisa 
Parlava il santo veglio, ed essi attenti 
Slavan con maraviglia ad ascoltarlo ; 

Quando soggiunse : Ecco di qua Marcello : 
Mira come se n‘ entra adorno e carco 
D’opime spoglie, e quanto a gli altri avanza. 
Quest' è quel generoso, eh’ a grand' uopo 
Yien di Roma; a domare i Peni, i Galli, 

E pel Gallico duce i fregi e Farmi 
La terza volta al gran Quirino appende. 



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DELI/ ENEIDE 



Filius, anno oliquis magna de stirpe nopotum ? 

Qui strrpilus circa comitum ! quantum instar in ipso 

est ! 

Sed nox atra caput tristi circumtolal umbra. 

Tum pater Anchises, lacrimis ingressus obortis: 

0 nate, ingentem luclum ne quacrc tuorum. 
Ostcndent torris hunc tantum fata, ncque ultra 
Esse siuent. Nimiuin vobis Romana propago 
Visa polene, superi, propria hacc si dona fuissent. 
Quanlos illc virùm magnani Mavorlis ad urbem 
Campus aget gemilus! voi quae, Tiberine, videbis 
Funcra, quum tumulum praetcrlabcre rcccnlem ! 
Nec pucr Iliaca quisquam de gente Latinos 
In tantum spc lollet avos: nec Homula quondam 
Ulto se tantum tellus iaclabit alumno. 

Ileu pietas, bcu prisca fides, inviclaquc bello 
Desterà ! Non illi se quisquam impune tulisscl 
Obvius armalo, seu quum pedes irci in hoslem, 

Scu spumanlis equi fodcrct calcaribus armos. 

Ileu, miserande puer, si qua fata aspera rumpas ! 

Tu Marcellus eris. Manibus date lilia pieni»: 
Purpureos spargam flores, animamque nepolis 
llis salicm accumulcm donis, ci fungar inani 
Muncrc. — Sic loia passim regione vaganlur 
Aèris in eampis lalis, atquc omnia lustrane 
Quae poslquam Anchises nalum per singula duxil, 
Ineendilque aniinum fumae vcnicntis amore 
Exin bella viro memorai, quae deinde gcrcnda, 
Laurentesquc docci populos, urbemque Lalini; 

Et quo quemque modo fugiatquc feralque laborcm. 



Sunt gcminac Somni portaci quarum altera ferlur 
Cornea, quae veris facili» dalur exitus umbris: 



Qui vide Enea eh' un giovinetto a pari 
Gli si Iraea, eli* era d'arnesi e d’armi 
E via più di bella vago c lucente ; 

Se non clic poco bela avea la fronte, 

E chino il viso. Onde rivolto al padre, 

E chi, disse, è costui clic l’accompagna ? 
Saria de’ figli, o de* nipoti alcuno 
Del gran nostro legnaggio ? E clic bisbiglio 
E che mischia ha d intorno? 0 quale c quanto 
Di già mi sembra ! Ala gli veggio al capo 
D' atra nelle girar di sopra un nembo. 
Anchisc lagrimando gli rispose ; 

Amaro desiderio il cor ti tocca 
A voler, figlio, un gran danno, un gran lutto 
Udir de' tuoi. Questi a la luce appena 
Verrà, che nc fia (olio. 0 dii superni I 
Troppo parra vvi la Romana stirpe 
Possente allor che in sul fiorir preciso 
Ne fla si vago c si gentile arbusto. 

0 che duolo, o che pianto, o che funèbre 
Pompa nc vedrà Roma e ’l Marzio campo I 
Qual, Tiberino padre, a la tua riva 
Nuovo se n' ergerà funesta mola ! 

Germe non sorgerà del seme d’ llia 
Più di questo gradilo, nè che tanto 
De* Latini avi suoi la speme estolla ; 

Nè In terra di Romolo avrà mai 
Figlio, onde più si pregi e più si vanii. 

0 pietà non più vista I o fede aulica ! 

0 virtù senza pari I E qual ne l' armi 
Sarà ? Chi sosterrà V incontro suo 
Pedone, o cavalicr, eh’ armato in giostra, 

0 pur nel campo il suo nemico assalga ? 
Bliscrabil fanciullo 1 Cosi morte 
Tc non vincesse, come invitto fùra 
Il luo valore, c come tu, Marcello, 

Non loeit de l’ altro eroica virtule, 

E più splendore e più fortuna avresti! 

Datemi a piene mani, ond' io di gigli 
E di purpurei fiori un nembo sparga ; 

Che se ben contro al giù fìsso destino 
M’ adopro in vano, almen con questi doni 
L* ombra d’ un tanto mio nipote onori. 

Dopo ciò detto, per gli aèrei campi 
Vagando, a parie a parie c 1* ombre e i lochi 
Gli mostrò, V invaghì, lutto d’amore 
I)e la futura gloria il cor gli accese. 

Indi le guerre e le fortune sue 
D’ Italia, di Laurcnlo c di Latino 
La figlia, il regno, ì popoli e lo Stalo 
Tutto gli rivelò. D' ogni suo affanno 
( Come a fuggir, come a soffrir l’ avesse ) 

Gii diè lume e compenso. 

Escouo i Sogni 
D’ inferno per due porte ; una è di corno, 



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Mimo SESTO 



13 » 



Altera candenti pericola nilens clcplianto ; 

Sed falsa ad codimi mitlunt insomnia Mancs. 
His ubi lum natum Aneli ises unaque Sibyllam 
Troscquitur diclis, porlaque cmitlit diurna: 
lite viam secai ad naves, sociosque retisi!; 
Tum se od Caictae recto fcrt limile porlum. 
Ancora de prora iacilur; stani lilorc puppes. 



L' altra è d‘ avorio. Manda il corno i veri, 
L' avorio i falsi; c per E ebuma Anchisc 
Diede ( quando lor diè commiato al fine ) 
A la Sibilla ed al suo tiglio uscita. 

Enea verso le nati a' suoi compagni 
Fece ritorno. Indi sciogliendo dritto 
Lungo la riva il suo corso riprese ; 

E giunto, o>' oggi è di Gaeta il porto, 

L' afferrò, gillò l'ancorc c fcrmossi. 




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LIBRO SETTIMO 



Tu quoque litoribus nostri*, AcneTa nutrii, 
Aclcrnam moriens famam, Caicta, dedisti; 

Et nunc servai honos sedem tuus, ossaque nomcn 
Hesperfa in magna, si qua est ca gloria, signat. 

Al pius ossequila Acneas rite solulis, 

Aggcrc composito tumuli, postquam alta quierunt 
Acquerà, Condii iter vclis, porluinquc rclinquit. 
Adspirant aurae in noclcm, nec candida cursus 
Luna negai; splendei tremulo sub luminc ponlus. 
Proxima Circacac raduntur litora tcrrae, 

Di?cs inacccssos ubi Solis fìlia lucos 
Assiduo rcsonat canto, tectisquc superbis 
Urli odoralam notturna in lumina ccdrum, 

Arguto lenues percurrens pectine tclas. 

Siine cxaudiri gemitus iraeque leonum, 

Vincla recusantum, et sera sub nocle rudenlum; 
Setigcriquc sucs, alque in praesepibus ursi 
Saevirc, ac formae magnorum ululare luporum: 
Quos hominum ex facic dea sacra potcntibus herbis 
Induerat Circe in vullus ac terga ferarurn. 

Quae ne monsira pii palercrilur (alia Troe*, 
belati in portus, ncu litora dira subirent, 

Ncplunus venlis implevit vela secundis, 

Atquc lugani dcdil, et pracler vada fervida vexit. 
lamquc rubesecbal radiis mare, et acihere ab allo 
Aurora in roseis fulgebal lutea bigis; 

Quum venti posuere, omnisque repente resedit 
Flatus, et in lento luctanlur mormoro lonsac. 

Alque hic Acneas ingcnlcm ex aequorc Iucum 
Prospicit. Ilunc inler fluvio Tiberinus amoeno, 
Vcrticibus rapidis, et multa flavus arena, 

In mare prorumpil; variae circumquc supraque 
Assuetac ripis volucres cl fluminis alveo 
Aethcra mulcebanl cantu, lucoquc volabant. 

Flecterc iter sociis lerraeque advcrtcrc proras 
Imperat, et laelus fluiio succedil opaco. 



Ed ancor tu, d'Enea fida nudricc 
Caicta, a i nostri liti eterna fama 
Désti morendo; ed essi anco a te diero 
Sede onorala, se d’onore a'morli 
È d'aver Tossa consecratc e'I nome 
Nella famosa Esperia. Ebbe Caicta 
Dal suo pietoso alunno esequie e lutto, 

E sepoltura alteramente eretta. 

Indi, già fallo il mar tranquillo c quoto , 
Spiegar le vele a'venli, c i venti al corso 
Era n secondi; e ’n sul calar del Sole 
La Luna, che sorgea lucente c piena, 
Chiare Tonde facea tremolo c crespe. 

Uscir del porto; c pria rosero i liti 
Ove Circe del Sol la ricca Gglia 
Gode felice, e mai sempre cantando 
Soavemente al periglioso varco 
De le sue selve i peregrini invita: 

E de la reggia, ove tesscudo stassi 
Le ricche tele, con l'arguto suono 
Che fan le spole c i pettini e i telari, 

E co’fuochi de ccdri c de'ginepri 
Porge lunge la notte iudicio e lume. 

Quinci là verso il di, lontano udissi 
Ruggir boni, urlar lupi, adirarsi, 

E fremere o grugnire orsi e cignali, 

Clferan uomini in prima; e ’n queste forme 
Da lei con erbe e con malie cangiali 
Giacean di ferri c di ferrale sbarre 
Ne le sue stalle incatenali c chiusi. 

E perchè ciò non avvenisse a i Teucri 
Che buoni erano c pii, da colai porto 
E da spiaggia si ria Nettuno stesso 
Spinse i lor legni, e diè lor vento e fuga, 
Tal che fuor d'ogni rischio li condusse. 

Già rosseggiava d'Orìentc il balzo, 

E nel suo carro d'ostro ornata e d'oro 
L’Aurora si traea de Tonde fuori, 

Quando subitamente ogni aura, ogni alito 



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LIBRO 



Nunc agc, qui reges, Erato, quac tempora rerum, 
Quia Latio antiquo fuerit status, advcna rlassem 
Quum primum Ausoniis cxcrcilus appulit oris, 
Expediam. et primac revocato cxordia pugnae. 

Tu valem, tu, diva, mone. Dicam torrida bella, 
Dicam acics, actosquc animis in funera reges, 
Tyrrhcnamquc manum, lotamque sub arma coactam 
Hespcriam. Mainr rerum miti nascitur orde; 

Maius opus moveo. Rcx ar\a Latinus et urbes 
lam senior longa placidas in pace regebat. 

Hunc Fauno et nympha gcnilum Laureole Manca 
Accipimus. Fauno Picus pater: isque parcnlcm 
Te, Saturne, refert; tu sanguini ultimus auctor. 
Filius buio, fato divùm, prolcsque virilis 
Nulla fuit, primaque orìcns crepla iuventa est. 

Sola domum et tanlas scrvabat filia sedes, 
lam matura viro, iam plenis nubilis annis. 

Multi illam magno c Latio totaque pctebant 
Ausonia; petit ante alios pulcherrimus omnes 
Turnus, avis atavisque potens: quem regia conimi* 
Adiungi gcnerum miro properabat amore; 

Sed variis portento dcòm lerroribus obstant. 

Laurus erat lecti medio in penelralibus allis, 

Sacra comam, multosque metu servala per annos, 
Quam pater inventam, primas quum couderel arr.es, 
Ipse fercbalur Plioebo sacrasse Latinus, 
Laurentesquc ab ea nomcn posuisse colonis. 

Huius apcs summum dcnsac ( mirabile dictu ) 
Stridore ingenti liqnidum trans aethera veclae, 
Obsedere apiccm; et, pedibus per mutua nexis, 
Examen subitum ramo frondente pependit. 

Continuo vales, Evtcrnum cernimus, inquif, 

Ad ventare virum, et partes pelerò agmen casdem 
Partibus ex isdem, et summa dominaricr arce. 
Praeterca, caslis adolct dum altana laedis, 

I t iuxla genilorcin adstat Lavinia virgo, 

Visa (nefus I ) longis comprendere crinibus ignem, 
Alque omnein ornalum Ramina crepitante cremori, 
Hegalcsquc acccnsa coma?, acccnsa coronam, 

VinClLID VOL USICI). 



SETTIMO Ul 

Cessò del vento, c ne fu 'I mare in calma, 

| Si ch’a forza ne gian de* remi appena. 

Qui la terra mirando il padre Enea 
Vede un’ampia foresta, c dentro un fiume 
Rapido, vorticoso e quclo insieme, 

Che per romena selva, e per la bionda 
Sua molta arma si devolve al mare. 

Questo era il Tcbro, il tanto destato, 

Il tanto cerco suo Tebro fatale: 

A le cui ripe, a le cui selve intorno, 

E di sopra volando ivan le schiere 
Di più canori suoi palustri augelli. 

Àllor, Via, dice a’suoi, volgete il corso. 

Itene a riva. E tulli in un momento 
Rivolti e giunti, de 1* opaco fiume 
Preser la foce, e lietamente cntraro. 

Porgimi, Erato, aita a dir quai regi, 

Quai tempi, c quale stalo avesse allora 
1/ antico Lazio, quando prima i Teucri 
Con questa armata a* suoi liti approdare; 
Ch‘io dirò da principio le cagioni 
E gli accidenti, onde con essi a I* arme 
Si venne in pria: dirò battaglie orrende, 

Dirò stragi d’ eserciti, c duelli 
De* regi stessi, c la Tirrcnia tutta 
E tutta anco I* Esperia in arme accolta. 

Tu d* Elicona dea, tu ciò mi detta, 

Ch* allr’ ordine di cose, altro lavoro, 

E maggior opra ordisco. Era signore, 

Quando ciò fu, di Lazio il re Latino, 

Un re che vèglio e placido gran tempo 
Avea il suo regno amministralo in pace. 
Questi nacque di Fauno c di Marica 
Ninfa di Laurenlo, c Fauno a Pico 
Era figliuolo, c Pico a te, Saturno, 

Del suo regio legnaggio ultimo autore. 

Non avea questo re stirpe virile, 

Com* era il suo destino; c quella ch* ebbe, 

Gli fu nel fior de' suoi verd'anni ancisa. 

Sola d’ un sangue tal, d* un tanto tegno 
Restava una sua figlia unica crede, 

Che già d'anni matura, e di bellezza 
Piò d’ogni altra famosa, era da molti 
Eroi del Lazio e de I* Ausonia tutta 
Desiala e ricerca. Avanti a gli altri 
La chicdea Turno, un giovine il più bello, 

Il più possente, c di più chiara stirpe 
Che gli altri tulli; e più eh* a gli altri a lui, 
Anzi a lui sol la sua regina madre 
Con mirabile affetto era inchinala. 

Ma che sua sposa fosse, avverso fato, 

Vari portenti e spaventosi augùri 
Faccan contesa. Era un cortile in mezzo 
A le stanze reali, ove un gran lauro 
Già da gran tempo conscerato e collo 
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112 



DELL’ ENEIDE 



Insignem gemmis; tum Annida luminc fulvo 
Inveivi, ac lolis Vnlcanum spargere lectis. 

Id vero horrcndum ac visu mirabile ferri: 

Namquo fore illuslrem fama falisquc canebant 
Ipsam; sci! popolo inagnum portemlere bclluin. 

Al rex sollicilus monstri», oracula Fauni, 

Fatidici genitori», adii, locosque sub alla 
Consulil Albunea. nemorum quac maxima sacro 
Fonte sonat, sacvnmque esitala! opaca mephilim. 
Mine Italae genie», omnisque Ocoolria tcllus, 

In dubiis responso petunt. Iluc dona sacerdos 
Quum lulìl, et caesarum ovium sub nocle silenti 
Pelli bus incubili! strati», somnosque pelivi!: 

Molla modis simulacro videi volitanti;! ntiris, 

Et varias audii voces, fruiturque deorum 
Colloquio, alque imis Acberonta affatur Aventi». 

Hic et toni pater ipse polena responso Lalìnus 
Ccnttim lanigeras maclabat ritc bidentes, 

Alque harum efFultus tergo stralisquc iacebal 
Velleribus. Subita ex allo vox reddito luco est: 

Ne potè connulnis naiam sociare Lalinis, 

0 ntea progenies, thalamis nett crede parali»; 
Externi veniunt generi, qui sanguine noslrum 
Nomen in astra Ceroni, quorumque ab stirpe nepolcs 
Omnia sub pedi bus, qua Sol utrumque rccurrens 
Adspicil Occanum, verlique regique videbunt. 

Ilare responso palris Fauni, uionitusquc silenti 
Nocle datos, non ipse suo promit oro Lalinus: 

Scd circtim tale volitane iam Fama per urbes 
Ausonia» luterai; quum Laomedonlia pubes 
Gramineo ripae redigavi! ab aggere classem. 



Con molla riverenza era serbalo. 

Si dicea che Latino esso re stesso 
Nel designare i suoi primi cdiOzii, 

Là ‘ve irovollo, di sua mano a Febo 
L’ avea dicalo; c eli* indi il nome diede 
A* suoi Laurenti. A questo lauro in cima 
Maravigliosamente di lontano 
Romoreggiando a la sua velia Intorno 
Venne d' api una nugola a posarsi; 

E con 1' ali c co* piè I* una con 1* altra, 

E tutte Insieme aggraticciale c sirene 
Slier d‘ uva iu guisa a le sue Trondi appese. 
Ciò F indovino interpretando, Io veggo, 
Disse, venir da lungo un duce esterno, 

Ed una genie clic d’ un loco uscita 
In un loco modesmo si rauna, 

Ed altamente ivi s' alloga e regna. 

Stando un giorno, olire a ciò, Lavinia virgo 
Sacrificando col suo padre a canto, 

Ed a F aliar caste faccllc offrendo. 

Parve ( nefanda vista ! ) che dal foco 
Fossero i lunghi suoi capegli appresi, 

E che stridendo, non pur Y oro ardesse 
De le sue trecce, ma il suo regio arnese 
E la corona slessa, che di gemmo 
Era fregiala. Indi con roggio vampo, 

Con nero fumo e con volumi attorti 
S’avventasse d’intorno, c V alta reggia 
Tutta di liamnte empiesse : orrendo mostro 
E di gran maraviglia a chiunque il vide. 

Gli auguri ne diccan che fama illustre 
E gran fortuna a lei si prctendea ; 

Ma ruina a lo Stato, c guerre a’ popoli. 

A questi mostri attonito c confuso 
Il re tosto a I* oracolo di Fauno 
Suo gcnitor ne I* alla Albunea selva 
Per consiglio ricorse. È questa selva 
Immensa, opaca, ove mai sempre suona 
Un sacro fonte, onde mai sempre esala 
Una tetra vorngo. Il Lazio lutto 
E tutta Enotria in ogni dubbio caso 
Quindi certezza, ailp c 'ndrizzo attende. 

E P oracolo è tale. Il sacerdote 
Nel profondo silenzio de la notte 
Si fa de V immolale pecorelle 
Sotto un covile, ove s‘ adagia c dorme. 

Nel sonno con mirabili apparenze 
Si vede intorno i simulacri c I* ombre 
Di ciò ch’ivi si chiede, c varie voci 
Ne sente, c con gli dei parla e con gl’inferi. 
In questa guisa il re Latino stesso 
Al vaticinio del suo padre intento 
Cento pecore ancide, c i velli c i terghi 
Nel suol ne stende, c vi s’involve e corca. 
Ed ecco un' alta repentina voce 
Clic, da la selva uscendo, inluona c dice : 



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Libilo SETTIMO 



143 



Acneas, primiquo duoes, et pulclicr lulus, 

Corpora sub ramis dcponunl arboris allac; 
Instituunlque dapes, et adorea liba per herbaui 
Subiicìunt, epulis (sic Iupilcr ille monebai), 

Et Cercale solum pomis agrestibus augcnl. 

Consumlis hic Torte aliis, ut vertere niorsus 
Exiguaro in Ccrerem penuria adegit edendi, 

Et violare manu inalisque audacibus orbcm 
Fatali* crosti, paioli* nec parccre quadris: 

IlcusI ctiam mcnsas consumimus? inquit lulus, 

Nec plura, alludens. Ea vox audila laborum 
Prima tulit tlnem, primamque loquenlis ab ore 
Eripuit pater, ac stupeTaclus numiuc pressi!. 

Continuo, Salve Tatis mihi debita lellus, 

Vosque, ail, o lìdi Troiae sai veto Pcnales. 

Hic domus, linee patria est. Gciiilor milii lalia namque, 
Nane repcto, Anrhises fatorum arcana reliquie 
Quum le, nate, fumes ignota ad lilora vcctum 
Accisis cogcl dapibus consumere mensa*: 

Tum sperare domos defessus, ibique memento 
Prima locare manu molisiquc aggere leda. 

Uaec erat illa fames; hacc nos suprema manebai, 
Evitiis positura modum. 

Quarc agile, et primo lacli cum lumino solis, 

Quac loca, quivo babeant homincs, ubi moenia genlis, 
Vcsligemus, et a portu diversa pclamus. 

Nunc pateras libate Iovi, precibusquc vocale 
Anchisen gcnilorcm, et vina reponitc mensis. 

Sic doinde cflalus frondcnli tempora ramo 
Implicai, et Gcniiimquc loci, primamque deorum 
Tcllurem, Nymphasque, et adhur. ignota precalur 
FI umilia; lum Noctem, Noctisquc orienlia sigila; 
Idacumque lovem, Phrygiamquc ex ordine Rintroni, 
Invocai ; o( dupliccs coeloquc Ercboque parenles. 

Hic pater oinnipotcns ter coclo clnrus ab allo 
Intonuit, radiisque nrdenlem lucis et auro 
Ipsc manu qualiens ostendit ab aclbere nubem. 

Hidilur hic subilo Troiana per agmina rumor, 
Advenissc dìem, quo debita nioeuia condant. 

Certatim inslauranl epulas, atquc ornine magno 
Craleras laoti slaluunl, et vina corouanl. 



Iiivan, figlio, procuri, invan l* immagini 
Che a Latin sposo tua figlia s' ammogli. 
Vane e nulle saran le sponsalizic 
CIP or le prepari. Di lontano un genero 
Venir ti veggio; per cui sopra a V etera 
Salirà il nostro nome; e i nostri posteri 
Ne vedrà n sotto i piò quanto P Oceano 
D’ ambi i tati circonda, c ’l Sole illumina. 
Questa risposta c questi avvertimenti, 
Perchè di notte c di secreta parte 
Fosser da Fauno usciti, U re non tenne 
In sè stesso celati; anzi la fama 
Per le terre d’ Ausonia gli sparge» t 
Quando la Frigia armala al Tcbro aggiunse. 

Enea col figlio e co’ suoi primi duci 
A l' ombre d’un grand’albero in disparte 
Da gli altri a prender cibo insieme unissi. 
Eran su 1* erba agiati : c come avviso 
Creder si dee clic del gran Giove fosse, 
Avean poche vivande ; e quelle poche 
Gran forme di focacce e di forratc 
In vece avean di tavole c di quadre, 

E la terra medesma e i solchi suoi 
Ai pomi agresti eran fiscelle e nappi. 

Altro per avventura allor non v’ era 
Di clic cibarsi. Onde, finiti i cibi, 

Volscr per fame a quei lor deschi i denti, 

E motteggiando allora, 0, disse luto. 

Fino a le mense ancor no divoriamo ? 

E rise, e tacque. A questa voce Enea, 

SI come a fin de le fatiche loro. 

Avverti primamente, e stupefallo 
Del suo misterio, subito inchinando 
Disse : 0 da’ Fati a me promessa terra, 
lo le devoto adoro : e voi ringrazio, 

Santi numi di Troia, amiche c fide 
Scorte de gli error miei . Quesla è la pairia 
Quest’ ò l’albergo nostro c questo è ’l segno 
Che il mio padre lasciommi (or mi ricordo 
De gli occulti mici falli), Allor, dicendo, 

Che sarai, figli»», in peregrina terra 
Da fame a manducar le mense astretto, 

Fia ’l tuo riposo : allor Tonda gli alberghi, 
Allor le mura. Or quesla è quella fame, 
Chimo rischio ad ultimar prescritto 
Tutti i nostri altri perigliosi affanni. 

Or via, dimane a l' apparir del Sole 
Per diversi senlier lungi dal porlo 
Tulli gioiosamente investighiamo 
Che paese sia questo, da che gente 
Sia collo, o «love siati le terre loro. 

Ora a Giove si bea ; faccia nsi preci 
Al padre Anchisc ; e sian le mense lutto 
Di viti piene e di tazze. E, ciò dicendo, 

Di frondi s’ inghirlanda ; e del paese 



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m 



DELL’ ENEIDE 




Posterà quum prima lustrata! lampade terras 
Orla dics, urbem, et fines, cl lilora genlis 
Diversi cxplorant; liacc fonlis stagna Ninnici, 
llufic Tli> brim flmium, liic Torles habilarc Lalinos. 
Tum salus Anchisa dclcclos ordine ab omni 
Centura oratorcs augusta ad mocnia regis 
Ire iubet, ramis Telalos Palladis omnes; 

Donaquc Terre viro, paccraque exposcere Teucris. 
llaud mora: feslinant lussi, rapidbquc Teruntur 
Passi bus. Ipse burniti designai moenia Tossa, 
Molilurque locum; primasque in lilore sedes, 
Castrorum in morem, pinnis atquc aggere cingit. 
lamquc iter emensi, turres ac torta Latinorum 
Ardua cernebant iuvenes, muroque subibanl. 

Ante urbem ptieri et primaevo flore iuventus 
Excrcenlur cquìs, domitanlque in pubere currus; 
Aut aeres tondunt arcua, aut lenta lacertis 
Spicula conlorqucnt, cursuque ictuque loccssunt: 
Quum praeveelus equo longaevi regis ad aures 
Nunlius ingenles ignota in veste reportai 
Advenisse viros. lite intra teda voeari 



Imperai, et solio medius consedil avito. 

Teclum augustum, ingens, centum sublime columuis. 
Urbe Tuit stimma, Laurentis regia Pici, 
llorrenduro silvia et relligione pareti tum. 

Ilio sceptra accipere, et primos nllollcrc Tasccs 
Itegibus omcn erat; hoc illis curia Icmplum, 
llae sacris sedes epulis; hic ariete coeso 
Pcrpeluis soliti patres considerc mensis. 

Quin elioni vctcrum efflgics ex ordine avorum 
Antiqua e cedro: llulusque, paterque Sabinus 
Vitisator, curvam scrvans sub imaginc Talcem, 
Saturnusque senex, Ianiquc bifronlis imago, 

Vcslibulo adslabant, aliique ab origine reges, 
Marliaquc ob patriam pugnando vulnera passi. 
Multaquc practerca sacris in poslihus arma, 

Captivi penderli currus, curvaeque securcs, 

Et crislac capitimi, cl portirutn ingentia clauslra, 
Spiculaque, clipeique, crcplaquc rostro carinis. 



Il genio, c de la terra il primo nume 
Primieramente inchina, e le sue Ninfa, 

E 'I fiume ancor non conto. Indi la Notte, 

E de la Notte le sorgenti stelle, 

E Giove Idòo, e d 1 Ida la gran madre 
E la madre di lui dal cielo invoca, 

E da f Èrebo il padre. E qui di lampi 
Cinto, di luce c d' oro, e di sua mano 
Folgorando il gran Giove al cicl sereno 
Tonò tre volle. In ciò repente nacque 
Tra le squadre Troiane un lieto grido 
Ch* era giù il tempo di Tondar venuto 
Le dc-i'iile mura. A tonto annunzio 
Tutti commossi, a rinnovar le mense, 

Ad invitarsi, a coronarsi, a bere 
Lietamente si diero. 

Il di seguente 

Nel sorger dell’ aurora uscir diversi 
A spiar del paese, clic contrade 
E die liti eran quelli e di che genti. 

Trovàr clic di Numico era lo stagno, 

E che ’l fiume era il Tebro, c la cillade 
Da’ feroci Latini era abitata. 

Allor d’ Ancliise il generoso figlio 
Cento Tra tutti i più scelli oratori 
D’olivo incoronati al re destina 
Con doni, con avvisi e con richiesto 
D’ amicizia, di comodi c di pace. 

Questi il viaggio lor sollecitando 
Se ne vnn senza indugio. Ed egli intanto ; 
Preso nel filo il primo alloggiamento 
Di picciol Tosso la muraglia insolca ; 

E 'n sembianza di campo c di Tortezza 
IV argini Io circonda c di sleccalo. 

Seguon gl* imbasciatori, e giù da presso 
La città, l' alte torri e i gran palagi 
Scoprono de' Latini. Anzi a le mura 
Veggono it llor de’ giovinetti loro 
Su' cavalli e su’ carri esercitarsi, 
Lotleggiar, tirar d’arco, avventar pali, 

K colali altre oprar contese c prove 
Di corso, d' attitudine e di forza. 

Tosto che compariscono, un messaggio 
Quindi si spicca in fretta, c precorrendo 
Diporta al vecchio re, che nuova gente 
Di gran sembiante c d’ abito straniero 
Vicn dal mare a sua corte. Il re comanda 
Che sieno ammessi; c nc I* antico seggio 
Per ascoltarli io maestà si reca. 

Era la corte un ampio, antico, augusto 
Di più di cento colonnati esimilo 
In cima a la città sublime albergo. 

Pico di Laurcnto il vecchio rege 
L’avca fondala. Era d'oscure selve, 

Era de’ numi de’ primi avi suoi 



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I.IURO SETTIMO 



Ila 



Ipso, Quirinali liluo, parvaquc scilcbal 
Succinclus Irubca, lacvaquc amilo gercbat 
Picus, cquùin domilor: quorn capta cupiiline coniom 
Aurea pcrcnssum virga, versumque vencnis, 

Pecit avem Circe, sparsitque coloribos alas. 

Tali ictus tempio ilivtìm patriaquc Latinus 
Sede sedens Teucros ad sesc in lecta vocavil; 

Alque linee ingressi» placida prior edidil ore: 

Dicile, liardanidne, { neque cnim nescimus et urbem, 
Et gcnus, auditiquo advcrlitis acquore cursum ), 

Quid pclilis ? quac caussa ratea, aul cuius egeutes 
Lilus ad Ausonium tot per rada caciaia vexit 7 
Sire errore vtac, seti tempestatibus arti 
( Qualia multa mari naulac patiuntur in alto ) 

Fluminis inlraslis ripas, pnrtuque sedetis: 

Ne lugile hnspitium, neve ignorate Latinos 
Saturni genlem, liatid vinclo nec legibus acquam, 
Spontc sua «elerisque dei se more lencntem. 

Alque equidom memini { fama est obscurior annis ) 
Auruncos ila Terre scncs, his orlus ut agris 
Dardanus idaeas Plirjrgiac penclraril ad urbe», ' > 

Tbrelciamquc Samum, quae nunc Samolliracia ferlur. 
Ilinc illuni Corylbi Tjrrhcna ab sede profeelum 
Aurea nunc solio stellautis regia coeli 
Accipit, et niuncrum divorum allaribus addii. 






I 



liiveral; et dicla llicneus sic voce seculus: 
ltcì, gcnus Cgregium Fauni, nec fluetihus aelos 



Sovra d' ogni altra veneranda c sacra. 

Qui ile' lor scettri, qui de* primi fasci 
S’ investirono i regi. In questo tempio 
Era la curia, eran le sacre cene, 

Eran de' padri i pubblici conviti 
De P ucciso ariete. Avea d* antico 
Cedro nel primo entrar I* un dietro o l'altro 
De* suoi grand’ avi simulacri cretti. 

Italo v’ era, e ii buon padre Sabino, 
Saturno con la vile c con la falce, 

Giano con le due teste, e gli altri regi 
Tulli di mano in man, che combattendo 
Non fur di sangue a la lor pairia avari. 
Pendean da le pareli c da’ pilastri 
Un gran numero d’armi c d'altre spoglie 
Prese in battaglia. A i portici d'intorno 
Carri, trofei, catene* elmi c cimieri 
E sccuri e corazze e scudi c lance 
E rostri di navilii e ferri e sbarre 
Di fracassale poste erano adisse, 
in abito succinto, e con la verga 
Clic fu poi di Quirino, e con l ancile 
No la sinistra esso re Pico assiso 
V'cra, pria cavaliere», e poscia augello, 

Ch’in augello il cangiò la maga Circe 
Sdegnosa amante; c gli suoi regii fregi 
Gli converse in colori, c ’l manto in ali. 

In questo tempio sovra al seggio agiato 
Dc’suoi maggiori, a sè Latino i Teucri 
Chiamar si fece; e dolcemente in prima 
Così parlò: Dite, Troiani amici, 

A clic renile? chè venite in luogo 
Ch'ha di Troia e di voi contezza a pieno. 
Siatevi, o per errore o per Icmpcsla 
0 per bisogno a questi liti addotti , 

Come a gente di mar sovente avviene, 

A buon fiume, a buon porto, a buon ospizio 
Siete arrivali. Da Saturno scesi 
Sono i Latini, cd ospitali e buoni, 

Non per forza o per leggi, ma per uso 
E per natura; e del buon vecchio dio 
Seguitino Torme e de’suoi tempi d'oro. 

10 mi ricordo (ancor che questa fama 
Sia per moli’auni ornai debile c scura) 

Che per vanto solcano i vecchi Aurunci 
Dir che Dardano vostro in queste parti 
Ebbe il suo nascimento; c quinci in Ida 
Passò di Frigia, e nc la Tracia Samo. 

Ch’or Samotracia è detta. Da’ Tirreni, 

E da Corilo uscio Dardano vostro, 

Ch’or fallo è dio, c tra’celoli in cielo 
D’oro ha la sua magion, di siede il seggio, 

E qua giù tra’mortali altari e voli. 

Avea ciò dello, quando a’delti-suoi 

11 saggio Idoneo così rispose: 



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DELL ENEIDE 



146 

Aira subcgit liiems vostri» succedere tcrris, 

Noe sidus regione viac lilusve fefcllil : 

Consilio hanc onines animisque volenlibus urbem 
AlTcrimur, pulsi regni», quae maxima quondam 
Estremo veniens Sol adspicicbal Olimpo. 

Ab love principium generis; love Bardana pubes 
Gaudet avo; rcx ipsc, lovis de genie suprema, 

Troìus Acncas luo nos ad limina misil. 

Quanta per Idacos saevis effusa Mycenis 
Te m pesi a s ieri! campo», quibus aclus ulerque 
Europa e nlquc Asiae fatis concurrerit orbis, 

Audiit, el si quem lellus extrema refuso 
Submovel Oceano, el si quem exlenla plngarum 
Quotuor in medio dirimit plaga Solis iniqui. 

Diluvio ex ilio lol vasta per aequora vedi 
Dls sedem exiguam patriis litusque rognmus 
Innocuum, et cu n din undamque auramque patenlem. 
Non c rim us regno indeeores; nec vostra ferelur 
lovis, lanli ve abolisce! gralia facti; 

Nec Troiam Ausonio? gremio excepi«se pigebil. 
l’ala per Aeneae iuro, clexlramque polcnlcm, 

Sive fide, sou quia bello est experlus el armi»; 

Multi nos popoli, mullae ( ne lemne, qtiod «Uro 
Praererimus manibus villa» ac verba precanlia ) 

El pelicrc sibi el voluere adiungerc genie». 

Sed nos falò dcrtm veslras oxquirore terra» 

Imperiis egere suis. Tlinc Dardanns orlus; 
line repelif, iussisque ingentiliti» urgel Apollo 
Tyrrìieniim ad Thybrim el fonlis vada sacra Nomici. 
Dal libi praelerea forlunae parva priori» 

M onera, rclliquias Troia ex ardente rcceplas. 

Hoc palcr Ancliiscs auro Ifhabot ad aras: 

Hoc Priami gcslamen orai, quum iura vocali» 

More darei populis; scoptrumque, saccrquc liaros, 
lliadumquc labor vcslcs. 






Alto signor, di Fauno egregio figlio, 

Non tempesta di mar, non venli avversi, 

Non di stelle, o di liti, o di nocchieri 
Error qui n’ave, od ignoranza addotti. 

Noi di nostro voler, di nostro avviso 
Ci siam vernili, discacciali c privi 
D’un regno dc’maggiori e de’più chiari, 
Ch'unqua vedesse d’oriente il Sole. 

Da Dardano e da Giove il suo legnaggio 
Ila quella gente, e quel Troiano Enea 
Lh’a le ne manda. La tempesta, i Fati, 

E la ruma che ne’ campi Idèi 
Venne di Grecia, onde l'Europa c l'Asia 
E 'I mondo tulto sottosopra andonne, 

Cui non è conia? Chi sì lungo è posto 
Da noi, che non l’udisse? o che da Tacque 
De Postremo Oceano, o che dal fuco 
De la torrida zona sia diviso 
Da la nostra notìzia? Il nostro affanno 
Tal fece intorno a sè diluvio c molo, 

Clic scosse ed allagò la terra tutta. 

Da indi in qua dispersi e vagabondi 
Per tanti mari, un sol picciol ridono 
A gli dei nostri, un filo che n’accolga 
Non da nemici, un poco d’acqua c d’aura 
(Lassi!) quel cb'ogu’uom ha, cercando andia- 
Non disutili, credo, c non indegni [mo. 
Sarem del regno vostro: a voi non lieve 
Nc verrà fama; c d’un lai merlo tanto 
Vi sarem grati, che l’Ausonia terra 
Non mai si pentirà d’aver i figli 
De la misera Troia in grembo accolti. 

10 ti giuro, signor, per le fatiche, 

Per gli Fati d’Enea, per la possente 
Sua destra (già per fede c per valore 
Famosa al mondo) clic da molte genti 
Molle fiale <e ciò vii non li sembri. 

Che da noi stessi a le ci proferiamo, 

E ti preghiamo) siam pregati noi, 

E per compagni desiali c cerchi. 

Ma da i fati, signor, c da gli dei 
Siam qui mandali. Dardano qui nacque, 

Qua Febo nc richiama. Febo stesso, 

E quel di Deio, è ch'ai Tirreni, al Tebro, 

Al fonie di Musaico, a voi c’invia. 

Queste, oltre a ciò, poche reliquie, c segni 
l)c l’andata fortuna e del suo amore 

11 re nostro ti manda; che dal foco 
Son de la pairia ricovralc appena. 

Con questa coppa il suo gran padre Anchisc 
Sacrificava. Questo regno in lesta 
Quando era in soglio, il gran Priamo aveo: 
Questo è lo scettro, questa è la tiara. 

Sacro suo portamento ; c queste vesti 
Sou de le donne d’ilio opre c fatiche. 



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Mimo SETTIMO 



in 



Talibus llionei diclls defua Latinus 
Oblulu tene! ora, soloque immobili* li a e rei, 
Intentos volvcns oculos. Noe porpora regcm 
Picla movct, ncc sceplra movcnt Pria m eia tantum, 
Quantum in connubio nalac thnlamoquc moratur, 
Et veleria Fauni voi rii sub pectore sortem. 
llunc illuni Tali* esterna ab sede profectum 
Porlendi geperum, paribusque in regna vocari 
Auspici)*; buie progeniem virtute fulurarn 
Egregiam, et tolum quae viribus occupet orbem. 
Tandem lacius ail: Di nostra incepla secundent, 
Auguriumque suum ! Dabilur, Troiane, quod opta*; 
Blu nera nec sperno. Non vobis, rege Latino, 

Divida ubcr agri Troiaeve oputentia deerii. 

Ipsc modo Aeneas, nostri si tanta cupido est, 

Si lungi bospilio properat sociusque v oca ri, 
Àdvenial, vultus neve exhorrcscat amicos. 

Pars mihi pacis erit, dextram letigissc lyranni. 

Yos conira regi mea nunc mandala referte. 

Est m hi nata, viro gentis quam iungcrc noslrac, 
Non patrio ex adyto sorles, non plurima coclo 
Monstra sinunt: gencros exlernis alture ab oris, 

Hoc Latio restare canunl, qui sanguine nostrum 
Nomen in astra fcrant. Hunc illuni poscere fata 
Et reor, et, si quid veri mens augurai, opto. 

Haec elTatus, equos numero pater digit omni. 
Stabant ter ccntum nitidi in praesepibus allis. 
Omnibus extemplo Teucris iubel ordine duci 
Inslratos ostro alipedes picthquc tapelis. 

Aurea pccloribus demissa monilia pcndent; 

Teeli auro; fulvum mandimi sub denlibus aurum. 
Abscnti Aeneac currum geminosque iugalcs, 
Semine ab aetherio, spiranles naribus igriem, 
Illorum de gente, patri quos dacdala Circe 
Supposta de maire nothos furala creavi!. 

Talibus Acncadae donis dictisquc Latini 
Sublimcs in equis redeunt, paccmque reportant. 



. Al dir d’tlionéo slava Latino 

| Fisso col volto a terra immoto c saldo, 
Come in astrailo, e solo avea le luci 
De gli occhi intese a rimirar, non tanto 
Il dipinl’oslro e gli altri regii arnesi, 

Quanto in pensar de la diletta figlia 
Il maritaggio, c T vaticinio uscito 
Dal vecchio Fauno. E ’n sè stesso raccolto, 
Questi è certo, dicco, quei rhc da' Tali 
Si denunzia venir di slran paese 
Genero a me, sposo a Lavinia mia, 

Del mio regno partecipe e consorte. 

Questi è da cui verrà l’egregia stirpe, 

Clic col valer forassi e con le forze 
Soggetto e tributario il mondo tulio, 
i Ed al fin lieto, 0, disse, eterni dei. 
Secondate voi stessi i vostri auguri, 

| E i pcnsicr mici. Da me. Troiani, avrete 
j Tutto clic desiate; c i vostri doni 

Gradisco e pregio; c mentre re Latino 
Sarà, sarete voi nel regno suo 
Cortcscmcnlc accolti; c ’l seggio c i campi 
E ciò ch*è d'uopo, come a Troia foste, 

In copia avrete. Or s'ci tanto desia 
L'amistà nostra e il nostro ospizio, veglia 
Egli in persona, c non abborra ornai 
Il nostro amico aspetto. Arra c certezza 
Ne fia di pace il convenir con lui, 

E di lui stesso aver la fede in pegno. 

Da l’altra parie, a mio nome gli dite 
Quel ch'io dirovvt. Io senza più mi trovo 
Una mia figlia. A questa ii mio paterno 
Oracolo, e del ciel molli prodigii 
Violai! ch’io dia marito altro ch’esterno. 
D’esterna parte, tal di Lazio è *1 fato, 

Un genero dal cìel mi si promette, 

Per la cui stirpe il mio nome e ’l mio sangue 
Ergerassi a le stelle. Or se del vero 
Punto è ’l mio cor presago, egli è quel desso, 
Cred’io, clic’l fato accenna, c’t credo, c T bra- 
Ciò detto, dc’lrcccnto, che mai sempre [ino. 
A’suoi presepi avea, nitidi e pronti 
Destricr di fazione c di rispetto, 

Per gli cento oralor cento n'elegge, 

Cb’avean le lor coverte c i lor girelli, 

Le pcllierc c le briglie in varie guise 
D'ostro c di seta ricamali c d’oro, 

E d’ór le ghiere, e d’ór le borchie e i freni. 

Al Troian duce assente un carro invia 
Con due corsier ch’eran di quei del Sole 
Generosi bastardi, c vampa c foco 
Sbuffava» per le nari. Al sol suo padre 
La razza ne furò la scaltra Circe 
Alior ch'a l'incantate sue giumente 
Elo e Piróo furtivamente impose. 



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Il* 



DELL' ENEIDE 



Ecce autrm Inacliiis sose rcfcrebal ab Argis 
Sanva lovis coniunx, aurasquc InvctU Inncbal; 

Et lactiiiii Aenoam classcmque ex aclhern longc 
DariJaniam Siculo prospexit ab usque Pecltyno. 

Jloliri iam Inda videi, iam Odcrc Icrrac; 

Desertiissc ratea. Stelli acri iita dolore. 

Tum, quassans caput, liacc effundit pectore dieta: 
lleu stirperò invitai», et fatis contraria no-tris 
Fata Plirygum I Nuin Sigeis occumbere rampis, 

Noni capii poluerc capi 7 num incensa cremavi! 

Troia «iros ? Media» arie» mediosque per ignea 
Invenerc viam. Al, credo, mea nurnjna tandem 
Fessa iacent, udii» aut exsalurala quieti 7 
Quin elioni patria cicussos infesta per undaa 
Ausa seqnì. et profugis loto me opponere ponto. 
Absunilac in Tenero» vire» eoelique marisque. 

Quid Sjrtcs aul Scylla mihi, quid vasta Cliarjbdis 
Profusi 7 Optato cnndunlur Thybridis alveo, 

Seeuri pelogi atque mci. Jlars perdere gentem 
Immancm Lapilhum valuil; concessi! in iras 
Ipsc dedm antiquato genilnr Calvdona Dianac; 

Qnod seelns aul Lapilhas tantum, aut Calydona mc- 

rcnlcm ? 

Ast ego, magna lovis coniunx, nil linqucrc inausum 
Quae politi infclix, quae mcmel in omnia vcrti, 

Vincor ab Aenca I Quod si mea nomina non sunt 
Magna salis: dubitem Itami equidem implorare, quoti 
osquam est. 

Flettere si nequeo Superos, Acheronte movebo. 

Non dabitur regnis, esto, proludere Lalinis, 

Atque immola manet fatis Lavinia coniunx: 

Al trattore, atque mora» tantis licei addi re rebus: 

At licci amborum populos exseindere regum. 
llac getter atque soccr coiiant mercede suorum. 
Sanguine Troiano et Rululo dolabere, virgo; 

Et Bellona mane! le pronuba. Noe face tantum 
Cisseis praegnans ignes enixa ingales; 

Quin idem Veneri partii» suus, et Paris alter, 
Funcslacque itcrurn recidiva in Pcrgama taedae. 



Tali in su lai cavalli alteramente. 

Tornando i Teucri al Teucro duce, allegre 
Porlàr novelle c parentela c pace. 

Ed ceco clic di Grecia uscendo e d'Argo 
L'empia moglie di Giove, alto da terra 
Sospesa, inlln al Siculo Pachino 
Vide i legni Troiani; e vide Enea 
Con tulli i suoi, clic lido c fuor del mare 
E sccur de la terra incominciava 
D’alzar gli alberghi e di fondar le mura 
Già d’un allr'llio. E, punta il cor di doglia, 
Squassando il capo,Ah,dissc,a me pur troppo 
Nimica razzai ah troppo a' Tali miei 
Fati de'Frigii avversi! E forse estinti 
Fur ne'campi Sigei? Forse potuti 
Si son prender già presi, ed arder arsi? 

Per mezzo de le schiere c de gl'incendti 
Ilari (rotala la via. Stanca ila dunque 
Questa mia deità, quando ancor sazia 
Non è de l’odio? c già s'è resa, quando 
Ita fin qui nulla oprato? E ette mi giova 
Clic siati del regno, e de la patria in bando ? 
Che mi vai ch'io mi sia con lutto il mare 
A loro opposta? Ahi che del mar già tutte, 

E del ciel contra lor le forze ho logre. 

E clic le Sirli, c che Scilla e Cariddi 
A me con lor son valse? Ecco Itati del Tebro 
La desiala foce; e non bau tema 
Del mar più, uà di me Starle poléo 
Disfar la gente dc'Lapiti immane; 

Potò Diana aver da Giove in preda 
Del suo disdegno i Calidoni antichi, 

Quanto de’Calidoni e dc’Lapiti 
Vèr le pene era il fallo o nullo o leve: 

Ed io consorte del gran Giove c suora, 

Misera, incontro a lor che non ho mosso? 

Che di me non ho (allo? E pur son vinta. 
Enea, Enea mi vince I Ah se con lui 
Il mio nume non può, perche d'ognuno, 
Chiunque sia, non ogni aita imploro? 

Se muover contra lui non posso il ciclo, 
Muoverò l' Acheronte. Oli non per questo 
Il fato si distorna; etl ei non meno 
Di Latino otterrà la figlia c T regno. 

Clic più? Lo tratterrò: gli darò briga: 

Porrò, s’altro non posso, in tanto affare, 

Gara, indugio c scompiglio: a strage, a morte, 
Ad ogni strazio condurrò le genti 
De l'un rego c de l'altro; c questi avanzi 
Faran primieramente i lor suggelli 
De la lor amistà. Con questo in prima 
Si sian suocero c genero. Del sangue 
De' Troiani e de’ Ruttili dotata 
N'andrai, regia donzella, al tuo marito; 

E del tuo maritaggio e del tuo letto 



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LIBRO SETTIMO 



H») 



Uacc ubi dicla dedit, lerras horrenda pelivil; 
Luciificam Alicelo Diraruin ab sede sororum 
Inferuisque cit i teuebris: cui Iristia bella, 

Iracque, insidiaeque, et crimina noiia cordi. 

Odil et ipse poter Pluton, odere sorores 
Tarlarcac monstrum: tot scse vcrtil in ora, 

Tarn saevae facies, tot pullulai atra colubris. 

Quaoi Iuno bis acuit verbis, ac talia falur: 

Dune milii da proprium, virgo sala Nodo, laborem 
liane operaio, ne nostcr honos infraclave cedat 
Fama loco; neu connubiis ambire Laiinum 
Acneadac possiti!, Italosve obsidere fines. 

Tu potcs unanimos armare in proclio fralres, 

Atquc odiis versare domos; lu verbera leclis 
Funereasque inferre faces; libi nomina mille, 

Mille noccndi arte*. Fecundum concute peclus, 
Disiice compo.siiam pacem, sere crimina belli; 
Arma velil, poscalque simul, rapiatque iuventus. 



Exin Gorgoneis Alicelo infeclo venenis 
Principio Lalium el Laurcnlis leda tiranni 
Gelsa polii, lacilurnquc obsedil limen Amalae, 

Quam super advenlu Teucrùm Turniquc liymenaeis 
Femineae ardcnlcm curacquc iracque coquebant. 
lime dea caeruleis unum de crinibus augucm 
Comici!, inqne sinum praecordia ad intima subdi!, 
Quo furibunda domum monstro pcrmisccat omnem. 
lite, inlcr vcslcs el levia prclora lapsus, 

Volvitur altaclu nullo, fallilquc furenlem, 

Yipeream inspirans animam; Ut tortile collo 
Aurum ingcns coluber, fìl longne taeriia viltac, 
Inneciilque comas, el membris lubricus errai. 

Ac dum prima lues udo sublapsa \eneno 
Pcrlcnlal scnsus, atquc ossibus implicai ignem, 
Necdum animus loto percepii pectore fluimnain 
Mollius, et solilo matrum de more, loquuta est, 
Multa super nata lacrimans Phrygiisquc bymenaeis: 
Eisulibusne dalur duccnda Lavinia Teucris, 

Vischio vol. ciuco 



Auspice fia Bellona in vece mia. 

Cotal non partorì di face pregna 
Ecuba a Troia incendio, qual Ciprigna 
Avrà con questo suo novello Pari 
Partorito altro foco, altra rtìina 
A qucsfultr'Ilio. 

Ciò dicendo, in terra 
Discese irata, c da V interne grotte 
A sè chiamò la nequitosa Alello. 

De le tre dire Furie una è costei, 

Cui son Tire, i dannaggi, i tradimenti, 

Le guerre, le discordie, le ruine, 

Ogni empio officio, ogni nini* opra a corc, 

E tale un mostro in tanti e cosi fieri 
Sembianti si trasmuta, c de' serpenti 
SI (etra copia le germoglia intorno, 

Che Pluto e le tartaree sorelle 
Sue stesse in odio ed in fastidio V hanno. 
Ciurma le parla, e via più co* suoi delti 
In tal guisa Faccende : 0 de la Nolte 
Possente figlia, io per mio proprio adotto, 
Per onor del mio nome, per salvezza 
De la mia fama un luo servigio agogno. 
Àdoprali per me, che, mal mio grado, 
Questo Troiano Enea dei re Latino 
Genero non divenga, c nel suo regno 
Con gran mio pregiudicio non s'annidi. 

Tu puoi, volendo, armar V un contro l’altro 
I concordi fratelli : odii c zizzanie 
Seminar Ira* congiunti; e per le case 
Con mitrarti nocendo, in mille guise 
Infra i mortali indur morti c rii ine* 

Scuoti il fecondo petto, c le lue forze 
Tutte a quest’opra accampa. Inferma, annulla 
Questa lor pace; inGainina I cori e l’armi : 
Arme ognun bromi, ognun le gridi e prenda. 

Di serpi, e di Gorgóiici ventili 
Guarnissi Alleilo; e per lo Lazio in prima 
Scorrendo, e per Laurealo, e per la corte 
De la regina Amata entro la soglia 
Insidiosamente si nascose. 

Era allor la regina, come donna, 

E come madre, dal materno affetto. 

Da lo scarno de’ Teucri, dal disturbo 
De le nozze di Turno in molte guise 
Afllitla e conturbata, quando Allctto 
Per rivolgerla in furia, e cu* suoi mostri 
Sossopra rivoltar la reggia Inda, 

Da' suoi cerulei crini un angue in seno 
Le avventò si clic l’ cnlrò poscia al core. 

Ei primamente infra la gonna e'I petto 
Strisciando, c non mordendo, a poco a poco 
Col suo vipereo fiato un non sentito 
Furor le spira. Or le si fa monile 

20 



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ISO 



Util i/ EMEIDIv 



O geuilor r ncc le misere! naiaeque luique ? 

Nec molris mìsere!, qimm primo aquilone relinquel 
Perii Ous, olla pclens, abducla virgine, praedo ? 

Al non sic Phrjrgius penelril Laeedaemona paslor, 
Lcdaeamque llelcnam Troianas vosi! ad urbes I 
Quid lua sancla tldes ? quid cura anliqua luoruni, 

El consanguineo lolics dola devierà Turno ? 

Si gener esterna pclilur de genie Latinis, 

Idque sede!, Fauniquc premunì le. iussa parenti»: 
Omuem cquidem sceplris lerram quac libera nostlis 
Dissidel, cjternam reor, cl sic dicerc divos. 

El Turno, si prima domus repelalur origo, 

Inaclins Acrisiusquc palrcs, mediaeque Mjccnae. 
His ubi ncquidquam dielis caperla, Lalinum 
Conira slarc videi, peuilusque in visccra lapsum 
Serpcnlis furiale inalum, lolamquc pererral: 

Tum vero infelii, ingenlibus escila monstri», 
Immcnsain sine more furil lymphala per urbein. 

Ccu quondam torlo volilans sub «erbcrc birbo, 
Quem pueri magno in gyro vacua alria circum 
Interni ludo evrrcenl; ilio aclus babena 
Cunatis ferlur spaliis; slupcl inscia sopra 
Impubesque manna, mirala volubile buvum; 

Dani animo» plagae: non cursu segnior ilio 
Per medias urbe» agllnr populosquc feroces. 

Quiu elioni in silias, simulalo nuniinc Bacchi, 

Maius adorla lieta», maioremque orsa furorem, 
Etolal, el nalam frondosi» monlibus ubdil, 

Quo llialamum eripial Tcucris, laedasque morelur, 
Evoe, Bacche, fremens, solum le virgine digrumi 
Vociferali». Elcoim molles libi sumere Ihyrsos, 

Tc lustrare choros, sacrum libi pascere crincm, 
Fama volai; Furiìsquc accensas pcclorc Daatrcs 
Idem omnes simul ardor agii, nova quaerere leda, 
Dcserucre domos; ventis danl colla comasque. 

Asl aliae Iremulis ululatibus aclliera compleitl, 
Pampincasqne gerunl ìncinctac pcllibus hastas. 

Ipsa inler medias flagramelo fervida pinum 
Suslincl, ac nalac Turniquc canil bymenacos, 
Sanguineam turquens acicm; lorvumque repente 
Clamai: lo maire», ondile, ubi quacquc, Lalinae. 

Si qua piis animis malici infclicis Amalac 
Gralia, si iuris materni cura remordet: 

Solvile crinales villas, capile orgia mccum. 



Allorliglialo al colio; or lunga benda 
Le pende da le (empie, or quasi un nastro 
L' annoda il crine. Al (in lubrico errando, 
Per ogni membro le s’ avvolge c serpe. 

Ma fin che prima andò languido c molle 
Soli i sensi occupando il suo veleno ; 
Finché il suo foco penetrando a P ossa 
Non uvea lutto ancor I* animo acceso, 

Ella donnescamente lagriniando 
Sovra la figlia e sovra le sue nome 
Con lai quoto rammarco si dolca : 

Adunque si dori Lavinia mia 
A Troiani ? a banditi ? E lu suo padre, 

Tu cosi la colldchi ? E non l' incrcsce 
Di lei, di le, di sua madre infelice ? 

CIP al primo velilo eh - ui suoi legni spiri, 

Di cosi raro pegno orba rimase 
( Come dir si potrà ) da questo infido 
Fuggitivo ladrone abbandonala 
Del mar vcdrolla e de' corsari iu preda ? 

0 non cosi di Sparla anco rapita 

Fu la figlia di Leda ? E chi rapida 

Non fu Troiano aneli’ egli ? Ah dov’ é , sire, 

Quella lua sanla inviulabil fede? 

Quella cura de' tuoi ? quella promessa 
Clic s' è falla da le già tante volle 
Al nostro Turno ? Se d’ cslerna genie 
Genero ne si dee ; se fisso e saldo 
È ciò nel luo pensiero ; se di Fauno 
Tuo padre il vaticinio a ciò li siringe : 
lo credo di’ ogni terra, eh’ al luo scettro 
Non è soggetta, sia straniera a noi. 

Cosi ragion mi delta, e cosi penso 
Clic l’ oracolo intenda. Oltre che Turno 
( Se la sua prima origine si mira ) 

Per suoi progenitori Inaco, Acrisio, 

E per patria ha Micene. A questo dire 
Slava nel suo proposito Latino 
Ognor più duro. E la regina iulanto 
Più dal veleno era dei serpe infetta : 

E giù (ulta compresa, e du gran mostri 
Agitala, sospinta e forsennata, 

Sema ritegno a correre, a scagliarsi, 

A gridar Tra le genti e fuor il' ogni uso 
A tempestar per la cillù si diede. 

Qual per gli atrii scorrendo e per le sale 
Infra la turba de' fanciulli a volo 
Va sferzato palco di’ a salti, a scosse, 

Ed a siioii di guinzagli roteando 
E ronzando s' aggira e si travolve. 

Quando con meraviglia c con diletto 
Gli va lo sluol de' semplicetti intorno, 

E gli dòn co’ flagelli animo c forza ; 

Tal per mezzo del Lazio e de' feroci 
Suoi popoli vagando, insana andava 



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unno SETTIMO 



lai 



Talcm intcr silras, intcr deserta fcranim, 
Ileginam Alicelo slimulis agii uudique Ilacclii. 
Poslquam viso salis primos acuisse furore», 
Consiliumque omnemque domuni ve rii' se Lalini: 
Prolcnus liine fuscis Irislis dea lollitur alis 
Audacis Rululi ad muro», ( qnam dicilur urbem 
Acrisioneis Danai; fondasse colonia ), 

Praecipili dolalo Nolo. Locus Ardca quondam 
Diclus avis; cl mute magnutn mane! Ardca nomcn, 
Sed Torluna fuit. Tcclis Irle Tumus in allis 
larrr mediani nigra cnrpebal norie quielcm. 

Alicelo lorvam faeiem cl rurlalia membra 
Etuil; in vullus scsc transformal aniles, 

El fronlcm obscenarn rugis arai: induil albos 
Cnm villa crincs; Imo ramum inneclit olivae; 

Fit Caljbe. lunonis amis lemplique sacerdos, 

Et iuveni aule oculos bis se cnm vocibus ofTcrl: 
Turne, lol incassurn fusos paliere labore», 

El lua llardaoiis transscrihi sccplra roloriis ? 

Rei libi coniugium cl quacsilas sanguine dolca 
Abnegai; etlernusque in regnum quaerilur bcres. 

I nunc, ingrati» olfcr le, irrise, periclis; 



La regina infelice. E quel che poscia 
Fu d’ ordire e di scandalo maggiore, 
l>i Bacco simulando il nume c'I coro 
Per lòr la figlia a i Teucri e le sue none 
Distornare, o ’ndugiare, a' monti ascesa 
Ne le selve 1‘ ascose : 0 Bacco, o Libero, 
Gridando, Efioi ; questa mia vergine 
Solo a le si convien, solo a le serbasi. 

Ecco perchè nel luo coro s' esercita. 

Per te prende i tuoi tirsi, a le s’impampina, 
A le la chioma sua nodrisce e dedica. 
Divulgasi di ciò la fama intanto 
Fra le donne di Lazio, c lutto insieme 
Da furor traile, c d' uno ardore accese 
Sallan fuor de gli alberghi a la foresla. 

Ed altre ignude i colli e sciolte i crini, 

D' irsute pelli involte, c d' asic armale, 

Di tralci avviticchiate c di corimbi. 

Orrende voci c tremoli ululati 
Mandano a l’aura. E la regina in mezzo 
A tutte I' altre una taccila in mano 
Prende di pino ardente, c l’ imeneo 
De la figlia c di Turno imita e canta, 

E con gli occhi di sangue e d' ira infetti 
Al cielo ad or ad or la voce alzando, 
l'dilcmi, dicca, madri di Lazio, 

Quante ne siete in ogni loco, udilemi. 

Se può piclatc in voi, se può la grazia 
De la misera Amata, e la miseria 
Di lei, eh' ad ogni madre è d' infortunio, 
Disvelatevi tutte e scapigliatevi ; 

Eiioè , a questo sacrificio 
No venite con me, meco ululatene. 

Cosi da Bacco e da le Furie spinta 
Ne già per selve c per deserti alpestri 
La regina infelice, quando Allctto, 

Gli' assai giò disturbato area il consiglio 
Di re Latino c la sua reggia tutta, 

Hallo su le Tose’ ali a l’aura alzossi ; 

E là 've giò d’ Acrisio il seggio pose 
L’ avara figlia ivi dal vento esposta, 

A l' orgoglioso Turno si rivolse. 

Ardèa fu quella terra allor nomata, 

E d'Ardèa il nome insino ad or le resla. 

Ma non già la fortuna. In questo loco 
Entro al suo gran palagio a mezza notte 
Prendea Turno riposo, allor di' Alletto 
Vi giunse, e il torvo suo maligno aspetto 
Con ciò eli' avea di Furia, in senil forma 
Cangiando, raggruppossi, incanutissi, 

E di bende e d' olivo il crin velossi : 

Calibe in tutto fèssi, una vecchiona 
di' era sacerdotessa e guardiana 
Del tempio di Giunone; c ’n colai guisa 
Si pose a lui davanti, e cosi disse : 



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152 



DELI/ ENEIDE 



Tyrrhenas, i, sterne acies; lege pace Laiinos. 
linee adeo tibi me, placida qinim nocle iaceres, 

Ipsa palam lari omnipotcns Saturnia iussil. 

Quare agc, cl armari pubcm porlisque moveri 
Lactus in arma paro, et Phrygios, qui flumine pulchro 
Consedere, duces piclasque exurc corinas. 

Coelcslum vis magna iubel. Rcx ipsc Latinus, 

Ni dare coniugium cl dicto parere fatetur, 

Scnlial el tandem Turnum ciperiulur in armis. 



i 



lite iuvciiis, vatem irridens, sic orsa vicissim 
Ore refcrl: Classcs invectas Thvbridis alveo, 
Non, ul rere, nieas cfTugil nunlius aure»: 

Ne lanlos mibi Unge metus: nec regia limo 
Immcmor esl nostri. 

Sed le vieta situ verique effela seneclus, 

0 mater, curis ncquidqiiam osercet, et arma 
Regum inler falsa totem formidine ludi!. 

Cura tibi, divùtn cflìgies el tempia lucri; 

Bella viri pacemquc regnili, quls bella gerenda. 



Talibus Alicelo diclis exarsil in iras. 

Al iuveni oranti subilus Iremor occupot nrlus; 
Dcriguerc oculi: lol Erinnys sibilai hydris, 

Tanlaque se facies aperit. Tum, flammea lorqucns 
Lumina, cunclantem el quaerenlem dicere plura 
Repulit, et geminos crcxil crinibus angues, 
Vcrberaque insonuil, rabidoque liner addidit ore: 
En, ego, vieta silu, quam veri cflcta seneclus 
Arma inler regum falsa formidine ludil 
(Respice ad haec), adsum Diraruin ab sede sororurn; 
Bella manu lelumquc gero. 

Sic effala faccm iuveni coniecit, et atro 
Lumine furnantes fixil sub pectore laedas. 

Olii somnnm ingens rumpit pavor, ossaque et arlus 
Pcrfundil tolo proruplus corporc sudor. 

Arma amens fremii; arma toro tectisque requi rii. 
Saevil amor ferri, cl sceterala insania belli; 

Ira super: magno voluti quum fiamma sonore 



Turno, adunque avrai Iti sofferto indarno 
Tante fatiche, e questi Frigii avranno 
La Ina sposa c *1 Ino regno ? Il re, la figlia 
E la dote, eh' a te per gli tuoi merli, 

Per lo sparso luo sangue era dovula, 

E già da Ini promessa, or li ritoglie ; 

E de T una c de l’ altra erede e sposo 
Fossi un este rno. Or va cosi deluso, 

E per ingrati la persona e I' alma 
Inutilmente a tanti rischi esponi 
Fn strage de* Tirreni. Va ; difendi 

I tuoi Latini, e in pace li mantieni. 

Questo mi manda apertamente a dirti 

La gran Saturnia Giuno Arma, arma i tuoi; 
Prepàrali a la guerra; esci in campagna ; 
Assagli i Frigii, e snidagli dal fiume 
Cb* li un di già preso, e i lor navilii incendi. 
Dal cicl li si comanda. E se Latino 
A le promission non corrisponde , 

Se Turno non accetta e non gradisce 
Nè per suo difensor, nè per suo genero, 
Provi qual sia ne I* armi, e quel eh* importi 
Averlo per nimico. 

Al cui parlare 

II giovine con beffe e ron rampogne 
Cosi rispose : Io non son, vecchia, ancora 
Come te fuor de’ sensi; e ben sentila 

Ho la nuova de* Teucri, e me ne cale 
Più clic non credi. Non però ne temo 
Quel che lu ne vaneggi; e non m’ ha Giuno 
( Penso ) in tanto dispregio e *n tale obblio: 
Ma tu da gli anni rimbambita e scema 
Entri folle in pensier d’ armi c di Siali , 

Ch'a le non tocca. Quel eli' è luo mesliero, 
Governa i templi, attendi a i simulacri, 

E di pace pensar lascia c di guerra 
A chi di guerreggiar la cura è dala. 

Furia a la Furia questo dire accrebbe, 

SI che d'ira avvampando, ella il suo volto 
Riprese e rincagnossi : ed ei ne gli occhi 
Stupido ne rimase, e tremò lutto : 

Con tanti serpi s* arruffò I’ Erinne, 

Con tanti nc fischiò, tale una faccia 
Le si scoversc. Indi le bieche luci 
Di foco accesa, la viperea sferza 
Gli girò sopra; c si com’ era immolo 
Per lo stupore, ed a più dire inteso, 

Lo risospinsc: e i suoi delti c i suoi scherni 
Cosi rabbiosamente improvcrógli : 

Or vedrai ben se rimbambita c scema 
Sono entrata in pensier d* armi c di Stali 
Ch'a me non tocchi; e se son vecchia e folle. 
Guardami, e riconoscimi; ch'a questo 
Son dal Tarlare uscita. E guerra c morie 
Meco nc porto. E, ciò detto, avvcntògli 



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LIBRO SEI TIMO 



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V'irgca suggeritili* coslis unduntis aiiui, 

Evsullantque acstii lntices; Curii intus aquai 
Fumidus alque alte spumis esuberai amnis; 

Ncc iam se capii unda; volai vapor atcr ad auras. 
Ergo iter ad regem pollala pace Lalinum 
Indici! primis iuvenum. el iubet arma parari, 

Tatari Italiani, detruderc lini bus lioslem; 

Se salis ambnbus Tcucrisque venire Lalini^que. 
llaec ubi dieta dedii, divosque in vola vocavll: 
Orlalim se se Rullili exhortanlur in arma. 

Ilunc decus egregium forma c movet alque iuvcnlao, 
Hunc alavi reges, hunc Claris desterà faclis. 



bum Turnus Rululos animis audacibns implet: 
Alicelo in Teucro» Slygiis se concitai ali**. 

Arte nova, speculata lorum, quo lilore polche* 
Insidiis cursuquc fcras agilabal Iulus. 

Ilic siibitam ranibus rebicm Corylla virgo 
Obiicil, d nolo nores conlingil odore, 

IT cervum o'denles agercnl: quae prima laborum 
Gaussa fuil, belloque animos accendi! agreste». 
Ccrvu» ersi forma pracstanli et cornibus ingens, 
Tyrrhidae pucri quem mairis ab ubere raplum 
Piulribanl, Tyirlieusquc pater, cui regia parcnl 
Armenia, el Iole custodia credila campi. 
Assuelum imperi» soror ornili Silvia cura 
Moliibus inhwens oruabnt enrnua serlis, 
Pcctcbalque fcram, puroque in fonie lavobal. 
Ilio, manuni paliens, inensaeque assuclus belili, 
Errabal silvis; rursusque ad limina nota 
Ipse domum sera quamvis se nocte fere bai. 

Hunc procul erranti ni rabidac venantis tuli 
Commovere canes, fluvio quum forte secundo 
Denuerel, ripaque acslu» viridantc levare!. 

Ipsc ebani, esimia»; laudis succensus amore, 
Ascanius curvo direxit spicula cornu: 

Kec dexlrac erranti deus afuit; adaque multo 



Tale una face c con lai fumo un fuoco, 

Che fo’ tenebre a gli occhi e fiamme al corc. 
Lo spavento del giovine fu (ale, 

Che rollo il sonno, di sudor bagnalo 
Si trovò per angoscia il corpo tulio : 

E slordilo sorgendo, orme d* intorno 
Cercossi, armi gridò, d* ira s’ accese, 

D* empio disio, di sccllcrala insania, 

Di scompigli c di guerra. In quella guisa 
Che con allo bollor risuona e gonfia 
Un gran caldar, quand'ha di verghe a'tianchi 
Chi gli ministra ognor foeo maggiore, 
Quando l’ onda più ferve, e gorgogliando 
Più rompe, più si volvc e spuma e versa, 

E M suo negro vapore a V aura esala. 

Cosi Turno commosso a muover gli altri 
Si volge incontanenle; e de’ suoi primi, 

Altri al re manda con la rotta pace, 

Ad altri l' apparecchio impon de l’arme, 
Onde Italia difenda, onde i Troiani 
Sian d* Italia cacciali, ed ei si vanta 
Conira de’ Teucri e conira de’ Utini 
Aver forse a bastanza E ciò commesso , 

E ne' suoi voli i suoi numi invocali, 

I Rutuli infra loro o gara armando 
S’esorlavan l’un l’altro, c lutti insieme 
Eran traili da lui, chi per lui stesso 

( Che giovio era amabile e gentile), 

Chi per la nobiltà de’ suoi maggiori, 

E chi per la virlutc,*c por le prove 
Di lui viste altre volle in altre guerre. 

Mentre cosi de’ suoi Turno dispone 
Gli animi c l' armi, in altra parte Alletto 
Scn vola a' Teucri, e con nuov’ arte apposto 
In su la riva un loco, ove in campagna 
Correndo e ’nsidiando il bello lulo 
Scgula le te re fuggitive in caccia. 

Qui di subita rabbia i cani accese 
La virgo di Cocito, c per la traccia 
Gli mise tutti; onde scoprire un cervo 
Clic fu poi di tumulto, di rottura 
Di guerra, e d’ ogni mal prima cagione. 
Questo era un cervo mansueto e vago, 

Già grande c di gran coma, che divelto 
Da la sua madre, era nel gregge addotto 
Di Tirro e de’ suoi figli: cd era Tirro 

II custode maggior de* regii armenti 
E de’ regii poderi; cd egli stesso 

L* ave* nudrilo e fatto umile e manso. 

Silvia, una giovinetta sua figliuola, 

L’avea per suo trastullo; e con gran cura 
Di fior l’inghirlandava, il pedinava, 

Lo lavava sovente. Era a la mensa 
A lor d‘ intorno; e da lor tulli amava 
Esser pasciuto c vezzeggialo c tocco. 



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lai 



DELL' ENEIDE 



IVrquc ulcruni sonitu porquo ilia rcnil arundo. 
Saucius al quadrupcs nota inira ledo rettigli, 
Succcssilquc gemens slabulis, quesluquc cruenlus 
Alque imploranti similis ledimi omnc replcbal. 
Silvia prima soror, palmis pcrcussa tacerlo*. 

Amili uni locai, el duros conclamai agrcslcs. 

Olii ( pesti* cnim tacili* laici aspcra silvia ), 

1 m prò v ibi advunt: iiic torre armalus obuslo, 
Slipilis bic gravidi nodis: quod cuique rcpcrlum 
llimanli, lelum ira facil. Vocal agmina Tyrrhcus, 
Quadrifidam qucrcum cuneis ut forte coaclis 
Sciudebal, racla spirali* immane sccuri. 

Al saeva e speculi* tempus dea nacla nocendi 
Ardua leda pclil stabuli, d de culmine summo 
Pastorale canil signnm, cornuque recurvo 
Tartarcam intendi! voccm: qua proleuus omnc 
Conlrcmuit nemus, et silvac insonuerc profundac. 
Audiit et Triviac longe lacus; audiit amnis 
Sulfurea Nar albus aqua, fonlesque Velini; 

El Irepidac matres pressore ad pectora natos. 

Tum vero ad vocem celcrcs, qua buccina sigmmi 
Dira dedii, raplis concurruul undique lelis 
Indomiti agricolae; ncc non et Troia pubes 
Ascanio autilium caslria cITundil aperlis. 

Direnerò acics. Non iam cerlaminc agresti, 
Slipilibus duris agilur sudibusvc praeuslis; 

Scd ferro ancipiti dcccmunt, atraque tale 
Ilorrcseil striclis seges ensibus, aeraquc.rulgenl 
Sole laeessila, et lucem sub nubila iaclant: 

Fluclus uli primo cocpit quum albesccrc vento, 

P.i liliali rn scse tollit mare, et altius undas 
Erigil, inde imo consurgit ad aelhera fundo. 

Ilio iuvenis primam ante aciein stridente sagilta, 
Nalorum Tyrrliei fuerat qui mazimus, Almo 
Stcrnitur; liacsit enim sub gulturo vulnus, et udae 
Vocis iter tenuemque inclusil sanguine vilam; 
Corpora multa virùm circa, seniorque Galaesus, 
Dum paci medium se ofTerl: iustissimus uims 
Qui fuil, Ausoniisquc olim dilissimus artis. 
Quinquc greges illi balantum, quina redibant 
Armenia, cl tcrram ccnlum verlebal aralris. 



Errava per le selve a suo dilelto, 

E da s è slcsso poi la sera a casa, 

Come a proprio covil, se ne tornava. 

Quel di per avventura di lontano 
Lungo il fiume venia Ira Tonde c T ombre, 
Da la sete schermendosi e dal caldo. 
Quando d' Ascanio T arrabbiale cagno 
Gli s' avventar», ed esso a farsi inteso 
IT un tale onore e di tal preda acquisto, 
Diede a l'arco di piglio, o saèllollo. 

La Furia slessa gli drizzò la inaila, 

E spinse il dardo si eli' a pieno il colse 
Ne T un de' fianchi, e perni ragli a T epa, 
Ecrilo, insanguinalo, c con lo strale 
Il meschincllo nc le coste infisso, 

Al cousuelo albergo entro a i presepi 
Mugghiando o lamentando si ritrasse ; 

Ch' un lamentarsi, un dimandar aila 
D' uomo in guisa più tosi», che di fiera 
Erano i mugghi, onde la casa empiea. 

Silvia lo vide in prima, e col suo pianto, 

Col batter de le mani, c con le strida 
Mosse I villani a far turbe e tumulto. 

Sta questa peste per le macchie ascosa, 

Di topi in guisa, a razzolar la terra 
In ogni tempo, sì clic d' ogni lato 
N' usclron d‘ improvviso, altri con pali 
E con forche c con bronchi aguzzi al fuoco : 
Altri con mazze noderose c gravi, 

E lutti con quell' armi eh' a ciascuno 
Eecer T ira e la frolla. Era per sorte 
Tirro in quel punlo ad una quercia intorno, 

E per forza di cogni e di bipenne 
L'aica tronca e squarciala : onde affannoso, 
Di sudor pieno, fieramente ansando 
Con la stessa eli' avea secure ili mano 
Corse a le grida, u le masnade accolse. 

I.' infornai dea, cli’a la vedetta slava 
Di lutto clic seguia, veduto il tempo 
Accomodato al suo pcnsicr malvagio, 

Tosi» nel maggior colmo se nc salso 
De la capanna, e con un corno a bocca 
Sonò de T armi il pastorale accento. 

Ea spaventosa voce che n‘ uscio 
Dal Tartaro spiccossi. E pria le selve 
Nc trcnulr tulle; indi di mano in mano 
Di Nomo udilla e di Diana il lago, 
l'dilla de la Nera il bianco fiume, 

E di Velino i fonti, c lai l'udiro. 

Che ne slriuser le madri i figli in seno. 

A quella voce, c verso quella parie 
Onde sentissi, I contadini armati. 

Comunque ebber Ira via d' armi rincontro, 
Subitamente insieme s' adunarti. 

Da l' altro lato i giovani Troiani 



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unno SETTIMO 



1 *>.’» 



Atque, ca per campos acquo dum Biade gerunlur, 
Promissi dea facto polena, ubi sanguine bcllum 
Imbuii, et primac commisil furierà pugnac, 

Descrii Hcspcriam, cl coeli convccla per auras 
lunoncm victrix alTalur foce superba: 

En, perioda libi bello discordia tristi. 

Die, io amicitiain coéant, et foedera iunganl, 
Quandoquidem Ausonio respersi sanguine Teucros 
Hoc eliam bis addam, Ina si milii certa voluntas; 
Finitima* in bella fcram rumoribus urbes, 
Acccndamquc nnimos insani Blarlis amore, 

Undique ul ausilio feniani; spurgam arma per agros. 
Tum conira luno: Tcrrorum cl Traudis abunde est. 
Stani belli causac: pugualur commirius armis. 

Quac fors prima dedii, sanguis novus imbuii orma. 
Talia connubio cl lales cclcbrcnl hymenaeos 
Egrcgium Vcneris gcnus et rr x ipso Latinus. 

Te super aellierias errare licentius auras 
liaud Pater die veli!, summi regnalor Olympi. 

Cede locis. Ego, si qua super fortuna laborum est, 
Ipsa regali). Tales dederal Saturnia voces. 
lite autem altollit stri Icnles anguibus alas, 

Cocytique petit sedem, supera ardua linqucos. 

Est locus Italiae medio sub montibus allis, 

Nobilis, et fama multis memoralus iu oris, 

Amsancti vallcs; densis hunc frondibus atrum 
Urge! utrimque latus neinoris, niedioque fragosus 
Dal sonilum saxis et torlo vertice torrens. 

Hic spccus borrendum, saevi spirucula Dilis, 
Monstralur, ruptoque ingcns Acheronte vorago 
Pcstifcras aperii fauccs: quia coudita Erinnys, 



Al soccorso d* A scarno in campo uscirò, 
Spiegar le schiere, misersi in battaglia, 
Vennero a l’ armi; sì che non più zuffa 
Sembrava di villani, c non più pali 
Avean per anni, ma forbiti ferri 
Serrati insieme, clic dal Sol percossi 
Per le campagne e On sotto a le nubi 
Ne mandavano i lampi. In quella guisa 
Che lieve al primo vento il mar s’ increspa, 
Poscia biancheggia, ondeggia c gonfia e frange 
E cresce in tanto, clic da T imo fondo 
Sorge Qno a le stelle. Alinone, il primo 
Figlio di Tirro, primamente cadde 
In questa pugna. Ebbe di strale un colpo 
In su la strozza, clic la via col sangue 
Gli chiuse e de la voce e de la vita. 

Caddero intorno a lui moli' altri corpi 
Di buona gente. Cadde tra' migliori, 

Mentre T armi detesta, e per la pace 
Or con questi or ron quelli si travaglia, 
('■aleso il vecchio, il più giusto c'I più ricco 
De la contrada. Cinque greggi avea 
Con cinque armenti; c ron ben cenlo aratri 
Coltivava c pascca l'Ausonia terra. 

Mentre cosi ne* campi si combatte 
Con egual Marte, Alletto già compila 
La sua promessa, poiclf a l* armi, al sangue. 
Ed a le stragi era la guerra addotta, 

Uscì del Lazio, c baldanzosa a l’ aura 
Levossi, ed a Giunon superba disse : 

Eccoti l' arme e la discordia in campo, 

E la guerra già rotto. Or di* eh* amici, 

Di' che confederali, c che parenti 
Si sicno ornai, poiché d'Ausonio sangue 
Già sono i Teucri aspersi, lo, se più vuoi, 

Più farò. Di rumori c di sospetti 
Empierò questi popoli vicini ; 

Condurrogli in aiuto; andrò per tulio 
Destando amor di guerra; andrò spargendo 
Per le campagne orror, furore ed armi. 
Assai, Giulio rispose, bai di terrore 
E di frode commesso : ha già la guerra 
Le sue cagioni; hanno ( comunque in prima 
La sorte le si regga ) ambe le parti 
Le genti in campo, e Tarmi in roano; c Tarmi 
Son già di sangue tinte, c *1 sangue è fresco. 
Or queste spousalizic c queste nozze 
Comincino a godersi il re Latiuo, 

E questo di Ciprigna egregio figlio. 

Tu, perchè non consente il Padre eterno 
CIT in questa eterea luce e sopra terra 
Così licenziosa le nc vada. 

Torna a luoi chiostri; cd io, salirò in ciò resta 
Da finir, finirò. Ciò disse appena 
La figlia di Saturno, che d* Alletto 



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1SG 



DELL’ ENEIDE 



1 misuri! uumen, lerras eoelumquc le\ abat. 



Noe minus inlerca exlremam Saturnia bello 
Imponi! regina manum. fluii omnis in urbem 
Paslorum ex arie numerus, caesosque reportanl, 
Almoncm pucrum, focdatique ora Galaesi; 
Imploranlquc deos, obtcslanturquc Lalinum. 

Turnus adusi, medioque in crimine caedis et igni 
Tcrrorem ingeminai: Teucros in regna vocari; 
Slirpcm admisceri Plirygiam; se limine pelli. 

Tum, quorum allonitae Boccilo ncmnra avia malrcs 
Insullanl Ihiasis, ( ncque cnim leve nomen Amotoc ), 
bndique coliceli cocunt, Martemquc faliganl. 

Ilicct infandum cuncti conira omina bcllum, 

Conira fata definì, perverso numinc poseunl. 
Cerlatim regis circumslanl (cela Lalini. 

Ilio, vclul potagi rupes immola, rcsislit; 

Ut pelagi rupes, magno veniente fragore, 

Quae sese, mullis circum lalrantibus undis, 

Mole (enei; scopuli nequidquam cl spumea circum 
Saxa fremunt, luterique illisa refundilur alga. 

Yerum, ubi nulla dalur caccum exsuperarc poleslas 
Consilium, et saevae nutu lunonis eunl res: 

Nulla deos ourasque paler tcstatus inancs, 
Frangimur Iicu falis, inquii, ferirai) rque procella I 
Ipsi ho s sacrilego pendelis sanguine pocnas, 

0 miseri. Te, Turne, nefas, te triste manebit 
Supplicium; volisque deos vencrabere seris. 

Nani milti parta quies, omnisque in limine porlus; 
Funere felici spolior. Nec plura locutus 
Sepsil se tcctis, rerumque reliquil liabenas. 



Fischiar le serpi, c dispiegarsi Cali 
In vèr Cocito. È de I* Italia in mezzo 
E de* suoi monti una famosa valle, 

Clic d* Amsanto si dice. Ha quinci e quindi 
Oscure selve, e tra le selve un fiume 
Che per gran sassi rumoreggia c cade, 

E si rode le ripe e le scoscende, 

Che fa spelonca orribile c vorago, 

Onde spira Acheronte, e Dite esala. 

In questa buca l'odioso nume 
De la crudele c spaventosa Erinne 
Gillossi, c dismorbò l'aura di sopra. 

Non però Giuno di condur la guerra 
Iiimansi intanto. Ed ecco dal conflitto 
Venir ne la città la rozza turba 
De’ con ladini, e riportare i corpi 
Del giovinetto Almonc e di Galeso, 

Così com’ eran sanguinosi c sozzi. 

Gli mostrano; ne gridano; n* implorano 
Da gli dei, da Latino e da le genti 
Testimonio, pietà, sdegno c vendetta. 

Etri Turno presente, clic con essi 
Tumultuando esclama, e'I fatto aggrava, 

E detesta e rimprovera e spaventa. 

Questi, questi, dicendo, son chiamati 
A regnar ne I* Ausonia : a i Frigii, a i Frigii 
Dà Latino il suo sangue c Turno esclude. 
Sopravvengono intanto i furiosi, 

Che, con le donne attonite scorrendo, 

Gian con Amato per le selve in tresca ; 

Chè grande era d* Amata in tutto il regno 
La stima c T nome; e d’ ogni parte accolli 
Tutti contra gli annunzi, contro i fati 
L' armi chiedendo c la non giusta guerra, 
Von di Latino a la magione intorno. 

Egli di rupe in guisa immoto stassi. 

Di rupe che, nel mar fonduta e salda, 

Nè per venti si crolla, nè per onde 
Che le fremano intorno, e gli suoi scogli 
Son di *puma coverti e d' alga in vano. 

Bla poiché superar non puole il cieco 
Lor malvagio consiglio, c clic le cose 
Givan di Turno e di Giunone a volo, 

Molto pria con gli dei, con le van' aure 
Si protestò; poscia, dal fato, disse, 

Son vinto, e la tempesta mi trasporta. 

Ma voi per questo sacrilegio vostro 
Il fio ne pagherete E tu fra gli altri, 

Turno, tu pria n’ avrai supplirio c morte; 

E preci c voti a tempo ne farai, 

Ch’ a tempo non saranno, lo, quanto a me, 
Già de' miei giorni c della mia quiete 
Son quasi in porlo: c da voi sol m'è tolto 
Morir felicemente. E qui si tacque, 

E ’l governo depose, c rilirossi. 



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■j 



LI BltO SETTIMO 



131 



Mos orai llcspcrio in Lalio, qucm prolenus url>rs 
Albanac coluerc sacrimi, mine maiinia rcrum 
Roma col il, quuni prima inovcnl in proelia Marlcm, 
Site Gclis interré maini lacrimabile bollimi, 
llvrcanisve Arabisve parati), scu tendere ad Indos, 
Aurnramque sequi, l’arlliosquc reposcere signa. 
Sunt geminai' belli porlae (sic nomine dicuul), 
Ilclligione sacrac el soni formidine Martis: 

Cenlum aerei claudunt vectcs, aeternaque ferri 
Ruberà; lice cuslos absislil limine lanus. 

Ras, ubi ccrla sedei palribus scnlcnlia pugnac, 

Ipsc, Quirinali Irabea cincluquc Gabino 
Insignis, reseral slridcnlia limina ronsul; 

Ipse vocal pugnai; scquiuir lum celerà pubes; 
Aereaque adsensu conspiranl cornua rauco. 

Hoc el lum Aeneadis indicere bella Lnlinus 
More iubebalur, Irislesquc recluderc portas. 
Abslinuil laclu pater, aversusque refugil 
Eoeda minisleria, el caecis se condidil umbris. 

Tum regina dcùm coclo dclapsa moranles 
Impubi ipsa maini porlas, el cardiuc terso 
belli ferralos rupi! Saturnia posles. 

Arde! inexcila Ausonia atquc immobilis ante. 

Pars pedes ire parai campii, pars arduus altis 
l’ulverulenlus equis furi): omnes arma rcquirunl. 
Pars leves clipcos el spicula lucida Icrgnnl 
Arvina pingui, subiguulquc in cole sccurcs; 
Signaquc Terre iuta!, sonilusque audire lubarum. 
Quinque adeo magnac posili., incudibus urbes 
Tela novant, Alina polcns, Tiburquc superbum, 
Ardea, Cruslumerique, el lurrigcrac Anlcmnac. 
Tegmina tuta cavanl capitimi, flecluntquc salignas 
Umbonum crates; alii thoracas acnos, 

Aul leccs ocreas lento ducimi argento. 

Vomcris bue et falcis honos, bue omnis aratri 
Cessi! amor; recoquunt palrios fornacibns enses. 
Classica iamque sonarli; il bello tessera signum. 

Hic galeam leclis Irepidus rapii; illc frementes 
Ad iuga cogit equos; clipeumquc, auroqnc triliccm 
Loricati) induilur; lldoquc accingilur elise. 


Era in Lazio un costume, che tenuto 
È poi di mano in man di Lazio in Alba, 

E d'Alba in Roma, ch'or del mondo è capo; 
Clic nel motcr de Tarmi ai Ceti, a gl'indi, 
A gli Arabi, a gl'lrcaoi, a qual sia gente 
Ch'elle siati mosse, si com'ora a'Parti 
Per ricoerar le mal perdute insegne, 
S'apron le porle de la guerra in prima. 
Queste son due, che per la riverenza. 

Per la religione c per la tema 
Del fiero Marie, orribili c Ircmcnde 
Sono a le genti; c con ben cento sbarre 
Di rovere, di ferro e di metallo 
Slan sempre chiuse: c lor custode è Giano. 
Ma quando per consiglio e per decreto 
Dc'Padri si determina c s'approva 
Che si guerreggi, il consolo egli stesso, 

SI come è l'uso, in abito e con pompa 
Cli* Ita da' Gabiui origine e da' regi. 
Solennemente le disferra e l’apre: 

Ed egli stesso al suoli de le catene 
E de la rugginosa orrida soglia 
La guerra intuona: guerra dopo lui 
Grida la gioventù: gucrru c ballagli.’! 
Suonali le trombe; ed è la guerra indilla. 
In questa guisa era Latino astretto 
D'aiiuuiizi’arlo a i Teucri; a lui questuilo 
D'aprir le triste e spaventose porle 
Si dnvea come a rege Ma '1 buon padre, 
Sellilo di si nefando ministero. 

S'astenne di toccarle, c gli occhi indietro 
Volse per non vederle, e si nascose. 

Ma per tórre ogni indugio, un'altra volta 
E la stessa regiua de' celesti 
Dal ciel discese, e di sua propria mano 
Spinse, disganglierò, ruppe c sconfisse 
De le sbarrale porle ogni ritegno, 

SI clic l'apcrsc. Attor l'Ausonia mila, 
Ch'era diami pacilìca c quieta. 

S'accese in ogni parte. E qua pedoni, 

Là cavalieri; a la campagna ognuno, 
Ognuno a l'arme, a maneggiar destrieri, 

A fornirsi di scudi, a provar elmi, 

A far, chi con la cole, e chi con l'unto, 
Ciascuno i ferri suoi lucidi c tersi. 

Altri s'addeslra a sventolar Tinsegne, 

Altri a spiegar le schiere, c con diletto 
S’ode annitrir cavalli e sonar tube. 

Cinque grosse città con mille incudi 
A fabbricare, a risarcir si dànno 
D'ogni sorte armi. La possente Alina, 

Ardóa l'antica, Tivoli il superbo, 

E Cruslumerio, e la lorrita Antenna, 

Qui si vede cavar elmi c celale: 

Là torcere c covrir larghe e pavesi; 


Viiir.ii.io toc laico. 


21 



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ira 



DELL' ENEIDE 



Pandile nunc Helicona, deae, canlusque morde, 
Qui bello cxciti reges, quac quemque scculae 
Compiermi campos aeies: qulbus Siala iam lum 
Floruerit terra alma riris, quibus arserit armis. 

El meminislis enim, dirae, el memorare potesti;: 
Ad nos ria Icnuis famae perlabitur aura. 



Primus init bellum Tjrrltenis asper ab oris 
Conlemtor divAm Mczentius, agminaquc armai. 
Filius buie iuila Lausus, quo pulchrior alter 
Non full, ezccplo Laurcntis torpore Turili. 
Lausus, cquflm domilor dcbellalorquc ferarum, 
Ducil Agi lima nequidquam et urbe sectilos 
Mille virus; dignus, patriis qui laelior cssel 
I mpcriis, el cui paler haud Mcientius ossei. 



Post hos insignem palma per graniina currum 
Vidoresquc ostentai equos, satus llcrcule pulchro, 
Pulcbcr Avcnlinus; clipcoquc insigne paternum 
Centura angues, cinclamquc gerii scrpcnlibns Hjdram; 
Colbs A ventini sii r u quem Ittica saccrdos 
Furtivum parlu sub luminis edidit oras, 

Mista deo mulier, poslquam Laurcntia victor, 

Cerjone eislmcto, Tiryntbius atligit arra, 

Tyrrlienoque bove; in flumine lavi! Iberas. 

Pila manu saevosque gerunt in bella dolones; 

Et Icrcli pugnant mucrone veruque Sabello. 

Ipsc pedes, toglimeli torquens immane leonis, 

Terribili impesum seta, cura dentibus albis, 

Indutus capili, sic regia teda subibat, 

Ilorridus, licrculeoquc bumeros innesus amiclu. 



Per tulio riforbire, aguzzar ferri. 

Annestar maglie, rinlcraar coraitc; 

F. per fregiar più nobili armature, 

Tirar lame d'acciar, lila d'argento. 

Ogni bosco fa lance, ogni fucina 
Disfi vomeri e marre; e spiedi c spade 
Si forman da I bidenti e da le falci. 

Suonan le trombe, dassi il contrassegno, 
Gridasi a Tarmi: c chi cavalli accoppia, 

E dii prende elmo, e chi picca, e chi acudo. 
Questi ha la piastra, o quei la maglia indosso, 
E la sua fida spada ognuno a canto. 

Or m'aprite Elicona, e di concedo 
Meco il canto movele, alme Sorelle, 

A dir qnai regi e quai genti c qual armi 
Militassero allora, e di che forze, 

E di quanto valore era in qncTempi 
La milizia d'Italia. A voi convicnsi 
Di raccontarlo, a cui conto e ricordo 
De le cose e de’tcmpi è dato eterno: 

A noi per tanti secoli rimase 

N'è di picciola fama un'aura a pena. 

Il primo, che le genti a questa guerra 
Ponesse in campo, fu Mezenxio, il fiero 
Del ciel dispregiatore c do gli dei. 

D'Etruria era signore, e di Tirreni 
Conducca molte squadre. Avca suo figlio 
Lauso con esso, un giovine il pili bello, 

Da Turno in fuori, clic l'Ausonia aresse. 
Gran cavaliero, egregio cacciatore 

j Fino allor si mostrava; c mille armali 
Avca la schiera sua, che seco uscita 
Fuor d'Agillina, ne Pesiglio ancora 
Indarno lo scguia; degno clic fosse 
Ne l'imperio del padre. 

A questi dopo 

; Segue Aventino, de l’invitto Alcide 
Leggiadro figlio. Questi col suo carro 
Di palme adorno, e co'vitloriosi 
Suoi corridori in campo apprescntossi. 

Avca nel suo cimiero c nel suo scudo, 

In memoria del padre, un’idra cinta 
Da cento serpi. D'Èrcole, e di Bea 
Sacerdotessa ascosamente nato 
Nel bosco d'Avenlino era costui; 

Chè con la madre il poderoso iddio 
Quivi si mescoli), quando d' Iberia, 

Estinto Gerlonc, a i campi venne 
Di Lafircnto, e nel Tirreno fiume 
Lavò d'Ibero il conquistalo armento, 

Eran di mazzafrusti, di spuntoni, 

Di chiavarinc, c di Sabelli spiedi 
Armale le sue schiere. Ed egli a piedi 
D un cuoio di Icon velluto ed irto 
Vcslia gli omeri c T dorso, c del suo ceffo, 



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unito SEI TIMO 



159 



Tum gemini fruirci Tiburlia moenia linquunt, 
Fratria Tiburli diclam cognomine gcnlcm, 
Calillusque acerque Coras, Argiva iuvcnlus; 

El primari] ante ncicm densa intcr tela fcrunlur, 

Ccu duo nubigcnae quum vortice monlis ab alto 
Dcscendunl Centauri, Uomolen Othrymque imalem 
Liqucnles cursu rapido; dal cunlibus ingens 
Silva locum, el magno ccdunt virgulta fragore. 

fico Praencstinae fundator defuit urbis, 

Vulcano genitura pecora intcr agrestia regem 
Invontumque focis omnìs quein credidii aelas, 
Caeculus. Uunc legio late cornilalur agrestis; 
Quiquc alluni Pracncste viri, quique arva Gabinac 
lunonis, gelidumque Aniencm et ro sci ri a riiis 
Hcrnica saia colunt; quos, dives Anagnia, pascis, . 
Quos, Amasene pater. Non illis omnibus arma 
Nec clipei currusve sonanl. Pars maiima glandes 
Liventis plumbi spargi!; pars spicula gestal 
Bina manu, fulvosquc lupi de pelle galeros 
Tegmen habenl capiti; vestigio nuda sinistri 
Inslituere pedis; crudus tegil altera pero. 



Al Messapus, cqufim domitor, Neptunia proles, 
Quein ncque fas igni cuiquam nec sternere ferro, 
lam pridem resides populos, desuetaque bello 
Agmina, in arma vocal subito, ferrumque rclractat. 
Hi Fescenninas acies Aequosquc Faliscos, 

Hi Soractis habenl arccs Flaviniaquc arva, 

Et Cimini cum monte lacum lueasque Capenos. 
Ibant acquati numero, regemque canebanl, 

Ceu quondam nivei liquida intcr nubila cjcni, 
Quum sese e pastu referunt, el longa eanoros 
Dant per colla modos: sonai amnis, et Asia longe 
Pulsa palus. 

Nec quisquam acralas acies ci agminc tanto 
Misccri pulci; acriam sed gurgite ab allo 
Urgeri volucrum raucarutn ad litora nubem. 



Ecce, Sabinorum prisco de sanguine, magnum 
Agmen agcns Clausus, magnique ipsc agminis instar, 



Che quasi digrignando ignudi e bianchi 
Mostrava i denti e Cuna e l’altra gota. 

Si copria il capo. E con tal Dera mostra, 
D'Ercolc in guisa, a corte si condusse. 

Vennero appresso i due fratelli Argivi 
Calillo e Cora, c di Tiburtc il terzo 
Guidili le genti, che da lui nomate 
Fur Tiburline. Da i lor colli entrambi 
Calando avanti a l'ordinate schiere 
Due Centauri sembravano a vedergli, 

Che giù correndo da'nevosi gioghi 
D'Omole e d’Olri, risonando fatisi 
Dar la via da'virgulti e da le selve. 

Cccolo, di Preneste il fondatore, 
Comparve anch’egli: un re che da bambino 
Fu tra l’agresli belve appo d’un foco 
Trovato esposto; onde di foco nato 
Si credè poscia, e di Vulcano figlio. 

Avea costui di rustici d’intorno 
Una gran compagnia, cb’eran de l’alta 
Preneste de’ sassosi Eroici monti. 

De la Cabina Giuno e d’Amcnc, 

E d’Amascno e de la ricca Anagni 
Abitanti e cultori: e come gli altri, 

Non erano in su’carri, o d’aste armati, 

0 di scudi coverti. Una gran parte 
Eran frombolatori, c spargean ghiande 
Di grave piombo, e parte avea due dardi 
Ne la sinistra, e cappellétti In testa 
D’orridi lupi: il manco piè discalzo, 

Il destro o d’uosa o di corteccia involto. 

Mcssapo venne poscia, dc'cavalli 
Il domatore, c di Nettuno il figlio. 

Contro al ferro fatalo c contro al foco. 
Questi subitamente armando spinse 
I.e genti sue per lunga pace imbelli. 

Deviò dalle pozze i Fescennini, 

Da le leggi i Falisci : armò Soralle, 

Armò Flavinio, e tutti che d’ intorno 
Ha di Cimini e la montagna e T lago, 

E di Capena i boschi. Ivan del pari 
In ordinanza, e del suo re cantando, 

Come soglion talor da la pastura 
Tornarsi in vèr le rivo al ciel sereno 

1 bianchi cigni, c le distese gole 
Disnodar gorgheggiando, e far di lutti 
Tale una melodia, che di Caislro 

Ne suona il fiume e d' Asia la palude. 

Nè por un si movea di tanta schiera 
Da la sua Dia, in ciò lo stuol sembrando 
De' rochi augelli allor che di passaggio 
Vien d’ alto mare, c come intera nube 
A terra unitamente se ne cala. 

Ecco di poi venir Clauso il Sabino, 

Di quol vero Sabino antico sangue 



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un 



DELL' ENEIDE 



Cloudia nunc a quo dilliindiliir el trilius el gens 
Ter Lnlium, poslqunm in porlem data Roma Sabihis. 
l’uà ingeos Alniterna cohors, priscique Qnirflrs, 

Kreli manus omnis, olivifcraequc Mulusrae; 

Qui Nomcnlum urlimi, qui Rosea rum Velini, 

Qui Telricac borrente* rupcs, mnnlemquc Severum, 
Casperiamque colimi, Forulosqne, ellliimeii Himellae; 
Qui Tlijbrim Fabarimquc bibiinl, quos frigida misil 
Mursia, cl Ilortinac classes, popiilique Latini, 

Quosque secans inraiislum inlerltiil Allia nnmen: 
Quain multi L'bjco volvunlur marmorc fluclus, 

Sactus libi Orion hibernis condilur undis; 

A el qiium sole novo densae lorrenlur arislae, 

Aul Hemii campo, aul l.jeiae flavenlibus orvis. 

Senio sonanl, pulsuque pedum Iremil excila lellus. 



Bine Agamcmnunius, Troiani notniuis lioslis, 
Curro iungil flalcsus equos, Turuoque feroces 
Mille rapii populos, verlunt felicia Bacclio 
Massica qui raslris, el quos de collibus allis 
Aurunci misere palres, Sldlcinaqiie iutla 
Acquora, quique Calca linquiinl, amnisque vadosi 
Accola Yullurni, parilerque Salicuius asper, 
Oscorumque manus. Tercles soni aelides illis 
Tela; sed liaee lento mos esl aplnrc flabello, 
lacvas caelra legit; falcati coinminus enses. 



Nec tu earminibus noalris Indielus abibis, 

Ocbaie, quem generasse Telon Sebelhide njmplio 
F'ertur, Tcleboùm Capreas quum regna tonerei, 
lam senior; palriis sed non cl lllius arvis 
Conlcnlus, late iam lum dilione premebat 
Sarrasles populos, et quae rigai aequora Sarnus, 
Quique Rufras Balidumque tenoni alquo arca Ce- 

lennae, 

El quos maliferae despeclant moenia Abdlac: 
Teutonico rilu solili lorquere calciasi 
Tegmina quia capitnm raptus de subcre corlex, 
Aeralacquc micant peltae, mical acreus ensis. 



El le inonlusac misere in proclia Henne, 



Oh' acca gran genie, e la sua genie lulla 
Careggiava sol egli. Il nome suo 
Fece Claudia nomare c la famiglia 
E la tribù romana nllor che Roma 
Ulnari a' Sabini in parie. Era con lui 
I.» schiera d' Amitcrno c de’ Quiriti, 
r>i quegli amichi. E rovi il popol ludo 
I)’ Erelo, di Mulisca, di Nomenlo 
E di Velino, c quel, che da l' alpestre 
Tolrira, c da Severo, da Casperio, 

Da Fornii e d' Imola eran venuti ; 

Quei che bevean ilei labari e del Tebro ; 
Che da la fredda Norcia cran mandati ; 

Le squadre de gli Orlini, il Lazio tulio, 

E tulli al fin, clic nel calarsi al mare 
Bagna d* ambe le sponde Allia infelice. 

Tanti Bulli non fo di Libia il golfo, 

Quando cade Orlon ne F onde il verno ; 

Nè lente spiche hanno dal sole aduste 
La siale o d’ Ermo o de la Licia i campi, 
Quante eran gemi; Arme sonare c scudi 
S’udian per tulio, e lulla al suon de’ piedi 
Trepidar si vedea l’ Ausonia terra. 

Quindi ne vico l' Agamcnnonio auriga 
Aleso, del Troian nome nemico ; 

Che di mille feroci nazioni 
In aita di Turno un gran miscuglio 
Dietro al suo carro avoa di montanari. 

Parie de’ pampinosi a Bacco amici 
Massici colli, c parie de gli Aurunci, 

De’ Sidicini liti, di Volturno, 

Di Cale, de* Saliceli, c degli Osci." 

Quesli per arme avean mazze c lanciotti 
Irli di molte punte, c di soallo 
Scudisci al braccio, onde erano I lor colpi, 
Traendo e ritraendo, in molli modi 
Continuali e doppi. E pur con essi 
Arcano per ferire e per coprirsi 
Targhe ne lo sinistra, e storie al Banco. 

Nè tu senza il Ino nome a questa impresa, 
Ebalo, te n’ andrai, del gran Telone 
E de la bella Ninfa di Sebclo 
Figlio onorato. Di costui si dice 
Che, non contento del paterno regno, 

Capri al vecchio lasciando c I Telebof, 

Fé’ d'esterni paesi ampio conquisto, 

E fu re de’ Serrasti e de le genti 
Che Sarno irriga. Insignorissi appresso 
Di Batulo, di Rulra, di Celenne 
E de' campi fruttiferi d’ Avella. 

Mezze picche avean questi a la tedesca 
Per avventarle, e per celale in capo 
Siivcri scortecciali, o di metallo 
Brocchieri a la sinistra, c stocchi a lato. 

Calò di Ncrsa c de' suoi monti alpestri 



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MINIO SETTIMO 



IGI 



Ufens, insigncm fonia ol fclicibus armìs: 

Ilorrida praccipue coi gens, ossuetaque milito 
Venalu nemorum, duris Acquicola glcbis. 

Annoti terroni exercont, semperque recenles 
Comodare iu«ol prnedas, et vivere rapto. 

Ouin et Marmila venit de gente sacerdos, 

Fronde super galeam et Telici comtus oliva, 

Archippi regia missu, foitissimus Umbro: 

Vipereo generi et gravitcr spirontibus hydris 
Spargere qui somnos cantuquc manuque solcbat, 
Mulccbatque iras, et morsus arte levabat. 

Sed non Dardaniae medicari cu-pidis ictum 
Evoluii: neque eum Iuvcre in vulnera cantus 
Somniferi, et Marsis quaesitoe monlibus herbac. 

Te nemus Anguiliac, vitrea te Fucinus unda, 

Te liquidi flererc lacus. 

Ibat et Ilippolyli proics pulclierrima bello, 

Virbius, insigncm quem moter Arieia misi!, 

Eductum Egeriae lucis, liumenlia circum 
Lilora, pinguis ubi et plaeabilis ara Dlanac. 

Namque ferunt fama Uippolylum, poslquam arte no- 

vereae 

Occiderit, patriasque explerit sanguine poenas 
Turbatis distraeliis eqtiis, ad sidera rursus 
Aelheria et superas coeli venisse sub auras, 

Paeoniis rcvocatum herbis et amore Dianae. 

Tum pater omnipotens, aliqnem indlgnatus ab umbris 
Mortolcm infernis ad lumina surgere vilae, 

Ipse repcrlorem mcdicinac lalis et arili 
Fulmine Pboebigenam Stygias delrusil ad undos. 

Al Trivio Ilippoljtum secretis alma recondii 
Sedibua, et nympliae Egeriae nemorique relegai: 
Solus ubi In silvis I lalis ignobilis aevum 
Kxigcret, versoquo ubi nomine Virbius esset. 

L'nde eliam tempio Triviac lucisque sacralìs 
Cornipede* arcentur equi; quod litoro currom 
P’t iuvenem monslris pavidi rflìiderc marinis. 

Filius ardcnlcs haud seeius oequorc campi 
Esercebal cquos, curruque in bella ruebal. 



Ipsc iulcr primos praeslanti cor|iorc Turnus 



Ufente, un condoltier cip era in quei tempi 
Di molta fama e fortunato in armo. 

Equicoli avea seco la più parie, 

Orrida genie, per le selve avvezza 
Cacciar le fere, adoperar la marra, 

Arar con P armi indosso, e (ulti insieme 
Viver di cacciagioni e di rapino. 

De la gente Marrubia un sacerdote 
Venne fra gli altri; sacerdote insieme 
E capitan di genti ardilo e Torte. 

Umbrone era il suo nome; Arch’ppo, il rege 
Che lo mandava. Di felice olivo 
Avea il cimiero c T elmo intorno avvolto. 
Era gran ciurmatore, c con gl' incanti 
E col tallo ogni serpe addormentava : 

De gl' idri, de le vipere e de gii aspi 
Placava l'ira, raddolciva il tòsco 
E risanava i morsi. E non per tanto 
Potè nè con incanti, nè con erbe 
De’ Alarsi monti risanare il colpo 
De la Dardania spada : onde il meschino 
Nc fu da le foreste de l’Anguizia, 

Dal cristallino Fucino e da gli altri 
(.aghi d'intorno desialo c pianto. 

Mandò la madre Arieia a questa guerra 
Virbio, del casto Ippolito un figliuolo 
Gentile e bello : c da le selve il trasse 
D' Egeria, ove d' Imeto in su la riva 
Più colla e più placabile è Diana; 

Che per fama d' Ippolito si dice. 

Poscia clic fu per froda c per disdegno 
De l’ iniqua madrigna al padre in ira, 

E che gli spaventati suoi cavalli 
Strazio e scempio ne fòro, egli di nuovo, 

Per virtù d’erbe c per pietà clic n' ebbe 
La casta dea, fu rivocato in vita. 

Sdegnossi il Padre eterno eh' un mortale 
Fosse a morte ritolto; e l’ inventore 
Di colai arte, clic d* Apollo nacque. 
Fulminando mandò ne’ regni bui. 

Ippolito da Trivia in parte occulta, 

Scevro da lutti, a cura fu mandato 
rp Egeria Ninfa, e ne la selva ascoso, 

Uà ’vc solingo, e col cangialo nome 
Di Virbio, sconosciuto i giorni mena 
D’ un’altra vita. E quinci è clic dal tempio 
E da le selve a Trivia consecratc 

I cavalli lian divieto; che lor colpa, 

Fu'l suo carro c’1 suo corpo al marin moslro, 

E poscia a morte indegnamente esposto. 

II Aglio, clic pur Virbio era nomalo, 

Non mcn di lui feroce, i suoi destrieri 
Esercitava, e ’n su 'I paterno carro 
Arditamente a questa guerra uscio. 

Turno infra i primi, di persona c d' ormi 



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Idi 



DELL' ENEIDE 



Vcrlilur armo Icnens, el telo vertice supra col: 

Cui triplici crinita iuba galea alta Cliiinacrani 
Suslincl, Aelnacos efllanlcm Taucibus igneo; 

Tarn magio illa Trameno, et trìolibuo elTcra Dominio, 
Quarn magio effuso cruiicscunl sanguine pugnac. 

At levem clipeum sublatis cornibuo lo 
Auro insignibat, inni sclio obsila, iato boo, 
Argumenlum ingens, et custoo virginia Argus, 
Caclalaquc amnem fumlcns poter Inachus urna. 
Insequitur nimbus pedilum, rlipealaque (olio 
Agmina densanlur compio, Argivoque pubes, 
Auruncaeque manus, Rubili veteresque Sicani, 

Et Sacranae acieo, et picti acuta Labici: 

Qui saltus, Tiberine, tuoo, sacrumque Numici 
Lituo arant, Rutulosquc cierccnt vomere colina, 
Circacumquc iugum; quia iupiter Aniurus arvio 
Praesidel, el viridi gaudens Fcronia luco; 

Qua Saturac iacet atra palus, gelidusque per imts 
Quaerit iter valico alque in mare condilur Ufcns. 



Ibis super advenit Volsca de gente Camilla, 
Agmen agens cquilum et Domite* aere coleri as, 
Bellatriv: non illa colo calalliisve Millenne 
Femincas assueta manus, sed proelio virgo 
Dura pati, cursuquc pedoni pracverlerc ventos. 
Illa vel inlactae segelis per summa volarci 
Grainina, ncc tcneras cursu laesisset aristas; 

Vcl mare per medium, Duclu suspense tumenli, 
Ferrei iter, ccleres nec linguerei aequore planlas. 
Illam omnis leclio.agrisque effusa iuvenlus 
Tnrbaque miralur malrum, et prospcclal euntem, 
Attonilis Inhians animis: ut regius ostro 
Vclel honos leves humcros, ut fibula erinem 
Auro inlernectat; I.jciam ut goral ipsa pliarelram, 
El pastoralcm praefìia cuspide myrlurn. 



Riguardevole e fiero, e sopra tuli 
Con tuli' il capo, in campo apprcsentossi. 

Un elmo avea con Ire cimieri in testa, 

E suvvi una Chimera, che con tante 
Rocche foco anelava, quante appena 
Non apria Mongihello; c con più Tremilo 
Sparge* le Damme, come più crudele 
Era la zuffa, c più di sangue avea. 

Lo scudo era d' acciaio c d' oro intorno 
Tutto commesso, c d' òr nel mezzo un' Io 
Era scolpila, che già 'I manto c T ceffo, 

Le setole c le corna avea di bue; 

Mcmorabil soggetto 1 Erari appresso 
Argo che la guardava; cravi il padre 
Inaco, clic, chiamandola, veisava, 

Non mrn de gli occehi, che de l’urna, un Ou- 
Dopo Turno venia di Tanti un nembo, [me. 
Un'ordinanza, una campagna piena 
Tutta di scudi. Erari le genti sue 
Argivi, Aurunci, Rullili, Sicani 
E Sacrani c Labici, che dipinti 
Portan gli scudi. Avea del Tiberino, 

Arca del sacro lilo di Numico 
E dc'Rululi colli c del Circeo, 

D'Ansure a Giove sacro, di Fcronia 
Diletta a Giulio, de la paludosa 
Satura, e del gelalo e scemo UTenle 
Gran turba o di villani c d'aralori. 

L'ultima a la rassegna vieu Camilla 
Ch'era di Volsca gente una donzella, 

Non di conocchia o di ricami esperta, 

Ma darmi e di cavalli, e benché virgo. 

Di cavalieri e di caterve armate 
Gran condollicra, e ne le guerre avvezza. 

Era Sera in battaglia, e lieve al corso 
Tanto, che, quasi un vento sopra l’erha 
Correndo, non avrebbe anco de’flori 
Tocco, nò de l'arislc il sommo appena. 

Non avrebbe per Fonde e per gli fluiti 
Del gonfio mar, non che le piante immerse , 
Ma uè pur tinte. Per veder costei 
Usciali dai leni, empiean le strade c i campi 
Le genti tulle; e i giovani e le donne 
Slavan con meraviglia c con diletto 
Mirando e vagheggiando quale andava, 

E qual sembrava; come regiamente 

D'ostro ornato avea 'I tergo, e 'I capo d'oro ; 

E con che disprezzata leggiadria 

Portava tin pasloral nodoso mirto 

Con picciol Terrò in punta ; e con che grazia 

Se ne già d'arco c di Tarelra armala. 



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LIBRO OTTAVO 



Ul belli signiim Laurcnti Turnus ab arce 
Extulil, et rauco strepuerunt cornila canlu; 

Ulque aerea concussi! equos; ulque impulit arma: 
Kilcniplo turbali animi; simui omne lumullu 
Coniural trepido Lalium, sacvilque iuienlus 
Edera. Ouctores primi, Messapus el Ufens, 
Conlcmlorque deùm Mezcntius, undique cogunt 
Auiilia, et lalos «asiani culloribus agros. 

Mitlilur el magni Venulus Diomedis ad urbem. 

Qui pelai auzilium, et, Latio consistere Teucros, 
Advcclum Aeuean classi, viclosquc Penales 
Inferri', et fatis regem se diccrc posci, 

Edoccat, mullasque «irò se adiungere genles 
Dardanio, et late Latio increbrcscere nomen. 

Quid stmal bis coeptis, quem, si Fortuna sequalur, 
Evcntum pugnae cupial, manifestius ipsi, 

Quam Turno regi, aut regi apparcre Lalino. 



Talia per Lalium; quac Laomedontius heros 
Cuncta «idens, magno curarum fluctuat aestu; 

Atque animum nunc huc celerem, nunc dividi! illue, 
In partesque rapii «arias, perque omnia versai: 

Sicut aquac tremulum labris ubi lumen aènis 
Sole rcpercussum, aut radiantis imaginc Lunae, 
Omnia pervolilat late loca, iamque sub auras 
Erigitur, summique ferii laquearia (ceti. 

Noi crai, et terros animella fessa per omnes 



Poscia che di Laurento in su la rócca 
Fc 'Turno inalberar di guerra il segno, 

E che guerra sonàr lo roche trombe, 

Spinti i carri e i destrieri, e Tarmi scosse 
Di Marte ai tempio, incontanente i cuori 
Si turblr lutti, e tutto il Lazio insieme 
Con subito tumulto si restrinse. 

Fremessi, congiurossi, rassellossi 
Ognun ne Tarme. I tre gran condottieri 
Messapo, Utente, e Tempio de’celesli 
Dispregialor Mezenzio, uscirò in prima. 
Accolsero i sussidii; armar gli agresti; 
Spogliar d'agricoltor le ville e i campi. 

In Arpi a Diomede si destina 
Venuto imbasciadorc: e gli s'impone 
Clic soccorso gli chiegga, c clic gli esponga 
Quanto ciò de l’Italia c del suo stato 
Torni a grand'uopo; con che gente Enea, 
Con quale armata v'ha già posto il piede, 

E fermo il seggio, c rintcgralo il cullo 
A i suoi vinti Penali, come aspira 
A questo regno, e corno anco per fato, 

E per retaggio del Dardanio seme. 

Io si promette. Che perciò da molli 
È già seguilo, e ch'ogni giorno avanza, 

E di forze e di nome. Indi soggiunga : 

Quel clic 'I duce de' Teucri in ciò disegni 
E che miri c che lenii ( se fortuna 
Gli va seconda ) a te vie più eh' a Turno 
Esser può manifesto, e ch'a Latino. 

Questi andamenti e queste trame allora 
Corrcan per Lazio e lo scaltrito eroe 
Le sapea tutte, onde in un mare entralo 
Di gran pensieri, or la sua mente a questo , 
Or a quel rivolgendo in varie parti, 

D'ogni cosa avea tema e speme e cura. 

Cosi di chiaro umor pieno un gran vaso 
Dal sol percosso un tremolo splendore 
Vibra ondeggiando, e rifrangendo a volo 



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DELL* ENEIDE 



Aliluum pecudumquc gcnus sopor allus habcbal: 
Quum pater in ripa gclidique sub actbcris ave 
Aencas, tristi lurbatus peclora beilo, 

Procubuil, seramque dedit per membra quictcm. 
Kluic deus ipsc loci fluvio Tibcrinus atuueno 
Populcas inter senior se altollcrc fiondes 
Visus; cum lenuis glauco velabai amictu 
Carbasus, et crines umbrosa legebal arundo; 

Tum sic affari, et curas bis demcrc diclis: 



0 sale genie deùm, Troianam ci boslibus urbeni 
Qui revelns imbis, aeternaquc Pergama sems, 
Rispettale solo Laurcnti arvisque Lalinis, 

Hic libi cerla domus, ccrli, ne absisle, Peoalcs, 
Mcu belli lerrcrc mini*. Tumor oranis el irae 
Concessore deùm. 

lamquc libi, nc vana pules bacc fingere somnum, 
Liloreis ingens inventa sub ilicibus sus, 

Triginla capilum fetus cnixa, iacebil, 

Alba, solo rccubans, albi circum ubera nati. 

Ilio Incus urbis ei ir, requics ca certa iuborum: 

Ex quo ler deuis urbem rcdcunlibus annis 
Ascanius clari condcl cognominis Album, 
llaud incerta enno. Nunc qua raliouc, quod instai, 
Expcdias viclor, paucis, ad ve rie, docebo. 

Arcades bis oris, gcnus a l’aliante profeclum, 

Qui regem Evandrum comi ics, qui sigila scculi, 
Delcgcre locum, el posucre in monubus urbem, 
Pallanlis proavi de nomine Pallanleum. 

Ili bcllum assidue ducunl cum genie Latina; 

Hos castris adiiibc socio*, et foedera iunge. 
ìpse ego le ripis et recto flùmine ducam, 

Advcrsum remi* supcres subvcctus ut omnem. 
Surge ago, nate dea; primisque cadentibus aslris 
lunotti Ter rite preces, iramque minasque 
Supplicibus supera volis. Mibi victor honorem 
Persolves. Ego sum, pieno quem fiuminc cernis 
Slringentcm ripas, ci piuguia culla secantem, 
Cocruleu* Tliybris, coelo gralissimus amili*. 

Hic milti magna domus, cclsis caput urbibus, exit. 



Manda i suoi raggi, c le pareli e palchi 
E l'auro d'ogni intorno empie di luce. 

Era la nollc, c giù per ogni parie 
Del mondo ogni animai d'aria c di terra 
Altamente giucca nel sonno immerso, 

Allor ch’il padre Enea, cosi com'era 
Dal pensier de la guerra in ripa al Tcbro 
Già stanco c travaglialo, addnrinentossi. 

Ed ecco Tiberino, il dio del loco 
Veder gli parve, un che giù vecchio ol volto 
Sembrava. Area di pioppo ombra d'intorno ; 
Di solili velo e trasparente in dosso 
Ceruleo ammanto, e i crini c *1 fronte avvolto 
D'ombrosa canna. E de l'ameno fiume 
Placido uscendo, a consolar lo prese 
In colai guisa. 

Enea, stirpe divina, 

('he Troia da'nemioi ne riporli 
E ia ravvivi c la conservi eterna; 

0 da me, da' Laurcnti c da' Latini 
Già tanto tempo a tanta speme atteso, 

Questa è la casa tua, questo è secca- 
mente, non t'arrestare, il fatai seggio 
Clic t'è promesso. Le minacce u’i grido 
Non temer de la guerra. Ogni odio, ogn’irn 
Ccssàr giù de* celesti. E perchè *1 sonno 
Credenza non ti scemi, ecco a la riva 
Sci già dei fiume, u'sotto a felce accolta 
Sta la candida troia con quei trenta 
Candidi figli a le sue poppe intorno. 

Questo fia dunque il seguo c'1 tempo e *1 loco 
Da fermar la tua sede. E questo è 'I fine 
De’luoi travagli; onde il tuo figlio Ascanio, 
Dopo ircnl’anni, il memorabil regno 
Fonderà d'Alba, che cosi nomata 
Fia dal candore e dal felice incontro 
Di questa fera. E tutto adempiessi, 

Ch'io li predico, e t'è predetto avanti. 

Or brevemente quel ch’oprar convienli, 

Per uscir glorioso e vincitore 
Di questa guerra, ascoila. È di qui tunge 
Non mollo Evandro, un re clic do l’Arcadia 
E qua venuto; c sopra a questi inolili 
Ha de gli Arcadi suoi localo il seggio, 

Il loco, da Pullanle suo bisavo, 

È sialo Pallantèo da lui nomalo; 

Ed essi, perchè son nel Lazio esterni , 

Son nemici a’ Latini, ed han con loro 
Perpetua guerra. A le fa di mestiere 
Con lor confederarli, e per compagni 
A questa impresa avergli. Io fra le ripe 
Mie stesse incontro a l'acqua a ia magione 
D'Ev andrò agevolmente condurrolli. 

Destali, de la dea pregialo figlio; 

E come pria cader vedrai le stelle, 



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LIBRO OTTAVO 



1«5 



Divii, de inde lacu fluvius se condidit allo, 

Ima pelens. Nox Aencan somnusque reliquit. 

Surgil, cl, aetherii spectans orienlia Solis 
Lumina, ritc cavis undain de (lumiuc palmi* 
Suslinet, ac lales cfTundil ad aelhcra voce»: 

Nymphac Laurcntes, Nymphae, gcnus amnibus unde 

est, 

Tuque, o Thybri iuo genitor cum fluminc sanilo, 
Accipite Acuenti, el tandem arcete perieli*. 

Quo le cunque lacus, miserantem incommoda nostra, 
Fonie (enei, quocunquc solo puldierrimus czis; 
Scmpcr honore meo, sempcr celebrabere donis, 
Corniger Uespcridum fluvius regnalor aquarum: 

Adsis o lanlum, el propius (ua numina flrmes ! 

Sic memorai, geminasque Icgil de classe biremes, 
Rcmigioque aplal; socios simul instruil arinis. 



Ecce autem, subilum alque oculis mirabile mon- 

slrum, 

Candida per silvam cum fclu concolor albo 
Procubuit, viridique in lilorc conspicilur sus: 

Quam pius Aeneas libi enim, tibi, maxima luno, 
Mactat, sacra fercns, et cura grege sislil ad aram. 
Tliybris ca fluvium, quam lunga csl, noclc (umenlcm 
Leniil; cl tacila refluens ila subslilil unda, 

Milis ul in morem stagni placida eque paludis 
Stornerei acquor aqms, renio ul luclamen abesscl. 
Ergo iter inceptum celeranl rumore secundo. 

Lubilur uncla vadis abìcs; miraulur et undae, 

Miralur nemus insuelum fulgenlia longe 
Scula virùm fluvio piclasque innare carina». 

Olii remigio noelemque dicmque faliganl, 

Et longos superarli flexus, variisque tcgunlur 
Arboribus, viridesque secanl placido acquore silvas. 
Sol medium coeli conscendcral igneus orbcm, 

Quuin muros arceraque procul ac rara domorum 
Tecla vident, quac nunc Romana polentia coelo 
Acquavi!; tura res inopes Evandrus habcbal. 

Ocius advertunt proras, urbique propinquant. 

Virgilio vol. ciuco 



Porgi solennemente a la gran Grano 
Preghiere e voli; e supplicando vinci 
De rinimica dea l'ira c l'orgoglio; 

Ed a me, poi clic vincilor sarai. 

Paga il dovuto onore. Io sono il Tcbro 
Cerco da te, che, qual tu vedi, ondoso 
Rado queste mie rive, e fendo i campi 
De la fertile Ausonia, al cicl amico 
Sovr'ogni fiume. Quel ciie qui m* è dato 
È 'I mio seggio maggiore; e Ila che poscia 
Sovr’ogni altra ciliade il capo estolla. 

Cosi disse, c influssi. Enea dal sonno 
Si scosse; il giorno aprissi, ed ci col sole 
Sorgendo insieme, al suo nascente raggio 
Si volse umile; e con le cave palme 
De l'onda si spruzzò del fiume, e disse: 
Ninfe l.aurenli, Ninfe, ond'hanno i fiumi 
L’umore e *1 corso; c lu con Tonde tue, 

Padre Tebro sacrato, al vostro Enea 
Date ricetto, e da’perigli ornai 
Lo liberale. Ed io da qual sia fonte, 

Che sgorghi, in qual sia riva, in qual sia foce 
(Poiché tanta di tnc pietà ti siringe) 

Sempre t’onorerò, sempre di doni 
Ti sarò largo. 0 de TEspcrld’ onde 
Superbo regnatore, amico c mite 
Ne sia il tuo nume, e i tuoi delti non vani. 
Così dicendo, desuoi legni elegge 

I due migliori, e gli correda c gli arma 
Di tulio punto. 

Ed ecco d’improvviso 
(Mirabil mostro!) de la selva uscita 
Una candida scrofa, col suo parlo 
Di candor pari, sopra l’erba verde 
Ne la riva accosciata gli si mostra. 

Tosto il pietoso eroe col gregge lutto 
A fallar la condusse; c poiché sacra 
L'cbbe al gran nume Iuo, massima Giuno, 

A le l'uccise. Il Tcbro, quella notte 
Quanto fu lunga, di turbato e gonfio 
Ch’egli era, si rendè tranquillo c quoto 
M, che senza rumore c quasi in d e Irò 
Tornando, come stagno, o come piana 
Palude adeguò Tonde, e tolse a’reinì 
Ogni contesa. Accelerando adunque 

II cammin preso, i ben unti c spalmali 
Lor legni se ne vanno incontro al fiume 
Confa seconda; si che l’onde stesse 
Stavan maravigliose, c ì boschi intorno, 

Non soliti a veder Tarmi e gii scudi, 

E i dipinti navili, clic da lungc 
Facean novella e peregrina mostra. 

Se ne vun notte e giorno remigando 
Di tutta forza, c i seni c le rivolte 
Varcan di mano in mano, ora a l'aperto, 

22 



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deli: exi'.iui: 



ics 



Forte die solemnem ilio rei Arcas honorem 
A m pi i i t ry orli a (la e magno divisque frrebat 
Ante urbcm in iuco. Pallai buie filius una, 

Ina omnes iuvenum primi, pauperquo senatus, 

Tura dabant, lepidusque cruor fu ma bai ad aras. 

Ut cclsas ridere ratea, alque inter opacum 
Allabi nemus, et lacilis incumbcrc remia: 

Terrcntur visu subito, cuncliquc reliclis 
Consurgunl mensia. Audai quos rompere Palina 
Sacra retai, raptoque volai telo obvius ipsc; 

Et procul e tumulo: luvoncs, quac caussa subegit 
Ignolas tentare vias ? quo tendili» ? inquit. 

Qui gcuus ? unite domo ? pacemnc bue ferlis, in arma? 
Tum pater Aencas puppi sic fatur ab alla, 

Pacifcracquc inanu ramum praclendit olitaci 
Troiugenas ac tela vides inimica Latinia; 

Quos illi bello profu gos egerc superbo. 

Evondrum pelimus. Ferie haec et dieite, Icctos 
DardanUc venisse duccs, socia arma rogantes. 
Obslupuit tanto percussus nomine Pallas: 

Egrcdcrc o, quicunquc es, ail, coramque parenlcm 
Alloquere, ac nostris succede Pcnalibus hospes ! 
F.iccpilque manu, deilramque ampleius inbaesit. 
Progressi subcunt luco, fluviumque rclinquunl. 



Tum regem Aencas dictis affatur amicis: 

Optimc Graiugenóm, cui me Fortuna precari, 

Et villa comlos voluit propendere ramosi 
Non equidem citimui, Danaòm quod ductor, et Arcas, 
Quodque ab stirpe forcs gemini! coniunctus Alridis; 
Sed mea me rirlus, et sancla oracula divani, 
Cognatique patres, tua terris didita fama, 

Coniunvcrc libi, et falis egere volcntem. 

Dardanus, Iliacae primus pater urbis et auctor, 

El cetra, ut Graiì perbibent, Atlantide crctus, 

Advehitur Tcucros; Electram maiimus Alias 



Or Ira le macchie occulti, e via volando 
Segan fonde e le selve. Era il Sol giunto 
A mesto il giorno, quando incominciaro 
Da lungc a discovrir la ròcca e 'I cerchio, 

E i rari allor del poverello Evandro 
Umili alberghi, ch'ora al ciclo adegua 
La Romana polenta. Immantinente 
Volser le prore a terra, ed appressimi 
Là 've per avventura il re quel giorno 
Solennemente in un sacralo bosco 
Avanti a la città slava onorando 
Il grande Alcide. Area Fallante seco 
Suo figlio, e del suo povero senato, 

E dc'suoi primi giovani un drappello, 

Clic d'incensi, di vittime e di fumo 
Di caldo sangue empican fare e gli altari. 
Tuslo che di lontan rider le gagge, 

E per entro de'boschi occulte e elicle 
Gir nati esterne, insospettiti in prima 
Si levàr da le mense. Ma Pallente 
Arditamente, non movete, disse, 

Seguile il sacriOcio. E tosto a farmi 
Dato di piglio, incontro a lor si spinse. 
Giunto, gridò da l’ argine : 0 compagni, 
Qual lin v'adduce, oqual v'intrica errore 
Per cosi torta e disusala via ? 

Ov' andate ? Chi siete ? onde venite ? 

Che ne recate voi ? La pace, o F armi? 

Enea di su la poppa un ramo alzando 
Di pacifica oliva, Amici, disse, 

Vi siamo, e siam Troiani, e coi Latini 
Vostri nemici inimicizia avemo. 

Questi superbamente il nostro csiglio 
Perseguitando ne fan guerra ed onta. 
Ricorremo ad Evandro. A lui porgete 
Da nostra parte, che de' Teucri alcuni 
Son qui venuti condottieri eletti 
Per sussidii impetrarne, e lega d'arme. 

Stupì primieramente a si gran nome 
Pollante, indi vèr lui rivolto umile. 

Signor, qual che tu sii, scendi, e tu stesso 
Parla, disse, al mio padre, e nosco alloggia. 
E lo prese per mano, ed abbracciollo. 
Lasciato il fiume e ne la selva entrati. 

Enea dinanzi al re comparve, e disse : 
Signor, che di bontà sovr' ogni Greco, 

E di fortuna sovr' a me ten vai 
Tanto, che supplichevole, e co' rami 
Di benda avvolti a tua magion ne vengo : 

Io, perchè sia Troiano, e tu di Troia 
Per nazion nimico e per Icgnaggio 
A gli Alridi congiunto, or non pavento 
Venirti avanti, chè’l mio puro affetto, 

Gli oracoli divini, il saugue antico 
De' maggior nostri, il tuo famoso grido, 



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UDRÒ OTTAVO 



167 



Edidil, aelherios Rumerò qui suslinct orbes. 

Vobis Mcrcurius pater est, qucm candida Maia 
Cyllenae gelido conccplutn vertice fudit; 

Al Maiam, aoditis si quidquam credimus, Alias, 

Idem Alias generai, coeli qui sidera lollil. 

Sic genus amborum scindi! se sanguine ab uno. 

His frelus, non legatos, neque prima per arlem 
Tentamenta lui pepigi: me, me ipse, meumquc 
Obicci caput, et supplcx ad limino veni. 

Gens cadcm, quae le, crudeli Daunia bello 
Inscquilur; nos si pellant, nihil afore credunt, 

Quin omnem Hesperiam penitus sna sub iuga mittanl, 
Et mare, quod supra, Icneant, quodque alluit infra. 
Accipe, daque Odcm. Sunt nobis fortia bello 
Pectora, sunt animi, et rebus spedata iuvcntus. 



Dixerat Aencas. Die os oculosquc loqucntis 
lamdudum, et lotum lustrabat lumine corpus. 

Tum sic paura refert: Ut te, fortissime Tcucrùm, 
Accipio agnoscoquc libens I ut verba parcntis 
Et vocem Ancliisae magni vultumque recordor ! 

Nam memini Hesionae viscnlem regna sororis 
Laomedontiadem Priamum, Salamina pctentem, 
Proteo us Arcadiac gelidos invisere flnes. 

Tum mihi prima genas vestibat flore iuventa; 
Mirabarquc duces Teucros, mlrabar et ipsum 
Laomedontiadem; sed cunctis altior ibat 
Anchises. Mihi mens iuvcnali ardcbal amore 
Compctlare virum, et dextrae coniungcre deitram. 
Accessi, et cupidus Phcnei sub mocnia duri. 

Ille mihi insignem pharclram Lyciasque sagiltas 
Discedens chlamydemque auro dedit inlerteitam, 
Frenaquc bina, meus quae nunc Label, aurea, Pallas. 
Ergo et, quam pelitis, iuncla est mihi focdcrc delira, 
El, lux quum primum terris se crasiina reddet, 

Ausilio laetos dimiltam, opibusque iuvabo. 

Intcrca sacra hacc, quando huc venislis amici, 

Annua, quae diflcrre nefa«, celebrale favcnles 
Nobiscum, et iam nunc sociorum adsucscilc mensis. 



E T Falò c T mio voler m' bau leco unito. 
Hardano de' Troiani il primo autore 
Nacque d' Elettra, come i Greci han detto ; 
E d' Elettra fu padre il grande Atlante 
Che con gli omeri suoi folce le stelle. 
Vostro progenltor Mercurio fuc. 

Che nel gelido monte di Cillcne 
De la candida Maia al mondo nacquo ; 

E Maia ancor, se questa fama è vera, 

Venne d’ Atlante, e da lo stesso Atlante 
Che fa con le sue spalle al elei sostegno. 
Così d' un fonte lo tuo sangue c T mio 
Traggon principio. E quinci è che sccuro 
Senza opra di messaggi e senza scrìtti. 

Pria ch'io ti lenti, e pria che tu m’ affidi, 
Posto ho me stesso e la mia vita a rischio, 

E supplichevolmente a la tua casa 
Ne son venuto. I Ruttili eli' iufcsli 
Sono anco a te, se de T Italia fuori 
Cacceran noi, gii de l' Italia tutta 
L' imperio si promettono, e di quanto 
Bagna T un mare c l' altro. Or la tua fede 
Mi porgi, c la mia prendi ; di' ancor noi 
Siamo usi a guerra, e cor no' pelli avemo. 

Il re, mentre eh' Enea parlando stette. 

Il volto e gli occhi e la persona tutta 
Gli andò squadrando ; c brevemente al One 
Cosi rispose : Valoroso eroe, 

Come lieto f accolgo, c corno certo 
Raffigurar mi sembra il volto c i gesti 
E la favella di quel grande Anrìiise 
Tuo genitore I Io mi ricordo quando 
Prima per riveder la sua sorella 
Estone c 'I suo regno, in un passaggio 
Che perciò fé' da Troia a Salamina, 

Toccò d’ Arcadia i gelidi contini. 

Ile le prime lanugini fiorito 
Era il mio mento a pena atlor eh’ io vidi 
Quei gran duci di Troia, e de' Troiani 
Lo stesso re. Con molto mio diletto 
Gli mirai, gli ammirai, notai di tutti 
Gli abiti e le fattezze, c sopra tutti 
Leggiadro, riguardevole ed altero 
Sembrontmi Ancbisc. Un desiderio ardente 
Mi prese allor d’ olTrirmi, c d’ esser conto 
A quel signore. Il visitai, gli porsi 
La destra, ospite il fcl, nel mio Fcnco 
Meco l’addussi. Ond’ci poscia partendo, 

Un arco, una faretra c molti strali 

Di Licia prcsenlommi, e d’ oro appresso 

Una ricca intcssuta sopravvesta 

Con due freni indorati, eli’ ancor oggi 

Son di Pallanle mio : si che già ferma 

È tra noi quella fede c quella lega 

Ch’ or ne chiedete. E non Ila il Sol dimane 



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16 » 



DELL,' ENEIDE 



Ilacc ubi dieta, dapes iubel et sublala reponi 
Pocula, gramineoque viros locai ipse sedili; 
Praccipuumque toro el \ illusi pollo lennis 
Accipil Aenean, svlioqtic imitai acerno. 

Tum ledi iuvencs ccrlalim aracquc saccrdos 
Viscera tosta ferunt laurorum, oncronlqiic canistrls 
Dona laboralae Cereria, Bacchumquc ministrane 
Vescilur Acncas, simul et Troiana iuvenlus, 
Perpetui tergo bovis, cl luslralibus ostia. 



Postquam escmla Comes, et amor comprcssus edendi, 
Rei Erandrus ail: Non liaec solcando nohis, 

Mas ci more dapes, Itane tanti numinis aram 
Tana superstitio veterumque ignara deorum 
Imposuii: saevis, liospes Troiane, periclis 
Senati facimus. mcrilosquc novamus honores. 
lam prìmuni sasis suspensam Itane adspicc rupcmi 
Disiectac procul ut moles, deserlaque monlis 
Stai domus, cl scopuli ingcntom travere ruinam. 
ilio spclunca Cui), tasto submola rcccssu, 

Semihominis Caci Cacies qoam dira lenebai, 

Solis inaccessam radii»; semperque recenti 
Cacdc lepcbal humus, foribusque affila superbis 
Ora \ ir dm tristi pcndebanl pallida labo, 
lidie monslro Vulcanus crai pater: illius alros 
Ore vomcns ignes, magna se mole Cerebal. 

Altulil et nobis aliquando optantibus aelas 
Auiilittm adventumque dei. Nam ntaiimus ullor, 
Tergemini noce Geryonae spoliisque stipcrbus, 

Alcides adersi, laurosque hac viclor agebal 
Ingenlcs; vallentque boves antnemque fancbanl. 

Al Curiis Caci mens elTera, ne quid inattsum 
Aut iulraclatum seeleriste dolile fuisset, 

Quatuor a slabulis praestanti corpore lauros 
Averli!, lolidcm Torma superante iuvencas, 

Atque hos, ne qua Corenl pedibus vestigia rectis, 
Cattda in speluncam traclos, versisque viarum 
Ittdiciis raplos, saio occultabat opaco. 

QuacrctUi nulla ad speluncam signa Ccrebanl. 

Interea, quum iam slabulis saturala movcret 
Ampliitryouicdcs armonia, abilumqtte parare), 
Disccssu mugire boves, atque otiinc quereli» 

Intpleri nemus, et collcs clamore relinqui. 

Iteddidil una bount rocent, vasloque sub antro 
llugiit, et Caci spem cuslodila CeCcllit. 



Dal balcon d’ Oriente uscito a pena, 

Che le mie genti e i miei sussidii avrete. 
Intanto a questa Cesta, che solenne 
Facciamo ogni anno, e tralasciar non lece, 

( Già che venuti siete amici nostri ) 
i Nosco restale, e come di compagni 

j Queste mense onorate. 

Area ciò detto, 

Allor cjte nuovi cibi e nuove lane 
Ripor vi Cece, e lor lutti nel prato 
A seder pose ; e sopra tulli linea 
( Di villoso leon disteso un tergo ) 

Seco al suo desco ed al suo seggio accolse. 
Per man de’ sacerdoti c de' ministri 
Del sacrificio, d' arrostile carni 
De' tori, di vin puro, di focacce 
Gran piatti, grati canestri e gran lattoni 
N" amiaro a torno ; c coi suoi Teucri tulli 
Enea Cu de le viscere pasciuto 
Del saginalo a Dio devoto bue. 

Tolte le mense, c T desiderio estinto 
De le vivande, a ragionar rivolli 
Evandro incominciò ; Troiano amico, 

Questo convito e questo sacrificio 
Cosi solenne, c questo a lauto nume 
Sacrato altare, istituiti c posti 
Non sono a caso ; che del vero cullo 
E de gli antichi dei notiiia avemo. 

Per memoria, per merito c per volo 
D' un gran periglio sua mercè scampato, 

Son questi onori a questo dio dovuti. 

Mira colà quella scoscesa rupe, 

E quei rotti macigni, c di quel colle 
Quell’ alpestra ruina, e quel deserto. 

Ivi era già remota e dentro al monte 
Cavala una spelonca, nv' unqtta il Sole 
Non penetrava. Abitatore un ladro 
N' ero, Caco chiamato, un mostro orrendo 
Meno Cera e meri’ uomo, e d’ uman sangue 
Avido si, che ’l suol n' avea mai sempre 
Tepido. Ne grontmnvan le pareli, 

Ne pendevano i teschi intorno affisai, 

Di pallor, di squallor luridi e marci. 

Vulcano era suo padre ; e de’ suoi lochi 
Per la bocca spirando atri vapori 
Già d’ un colosso e d’ una torre in guisa 
Conira si diro mostro, dopo molti 
Dannaggi c molte morti, il tempo al fine 
Ne diede a questo dio soccorso c scampo. 
Egli di Spagna vincilor ne venne 
In queste parli, de le spoglie altero 
Di GcrTonc, in cui tre volle estinse 
In tre corpi una vita, e ne condusse 
Tal qui d' Ibero un copioso armento, 

Ch’ avea picn questo fiume e questa valle. 



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LIBRO OTTAVO 



1f>9 



llic vero Alcidac furns cxarscral atro 
Felle dolor: rapii arma manu nodisque gravatimi 
Hobur; et aerii cursu pehi ardua monlis. 

Tum primum nostri Caconi videro limentem 
Turbatumque oculis. Fugit ilicet odor Euro, 
Speluncamque petit; pedibus timor addidit alas. 

Ut scsc inclusil, ruplisque immane catenis 
Dciecit savum, ferro quod et arte paterna 
Pcndebal, fullosque cmuniil obiice posles: 

Ecce furens animis aderat Tirynlbius, omnemque 
Accessum luslrans, huc ora ferebat et illue, 

Denlibus infrendens. Ter lolum fcrvidus ira 
Lustrai Avenlini montoni; ter saxea tentai 
làmina ncquidquam, ter fessns valle resedil. 

Slabal acuta silex, praecisis undique saiis, 
Spcluncae dorso insurgens, altissima viso; 

Diranno nidis domus opportuna volucrum: 
liane, ut prona iugo laevum ineumbebat ad amnem, 
Dealer in adversum nilens concussi!, et imis 
Avnlsam solvil radicibus; inde repente 
Impuliti impulsu quo mavimus intonai aether; 
Dissultant ripae, refiuitque exterritus amnis. 

At spccus et Caci delecta apparuit ingens 
Regia, et umbrosae penitus patnerc cavernae: 

Non sccus, ac si qoa penitus vi terra dehiscens 
Infcrnas Teserei sedes, et regna recludat 
Pallida, dts invisa; superque immane barathrum 
Cernatur, trepidenlque immisso lumino Mancs. 

Ergo insperata deprcnsum in luce repente, 
Inclusumque cavo saxo, atqnc insuela rudentem 
Desuper Alcidcs telis premi!, omniaque arma 
Advocat, et ramis vastisque mnlaribus instai, 
lite nutem, ncque enim fuga iam super ulta perieli, 
Faucibus ingenlem fumimi, mirabile diclu, 

Evomil, involvitquc domum caligine eaeca, 
Prospcctum eripiens oculis; glomeralqnc sub antro 
Fumiferam noctem commixtis igne lencbris. 

Non tuli! Alcides animis, seque ipsc per ignem 
Praecipiti jniecit sallu, qua plurimus undam 
Fumus agii, nebulaque ingens spccus aesluat atra. 
Ilio Cacum in lencbris incendia vana vomenlcm 
Corripit in nndum complexus, et angit inhaercns 
Elisos oculos, et siccum sanguine guttur. 

Panditur extempio foribus domus atra rcvulsis, 
Abstraclacque bnves abiuratacque rapinae 
Coelo ostcndunlur, pedibusque informe cadavcr 
Protrahitur. Ncqucunt explcri corda luendo 
Tcrribiles oculos, vultum, villosaquc setis 
Pcctora semiferi, alque exstinclos faucibus ignes. 

Ex ilio celebralus lionos, laeliquc minores 
Servavcrc dicm, primusque Potitius auctor, 

Et domus Herculci custos Pinaria sacri. 

Ilanc aram luco statuii, quac Maxima semper 
Dicclur nobis, et crii quac maxima semper. 

Quarc agile, o invencs, tantarum in munere laudum 



Caco ladron feroce e furioso, 

D' ogni misfatto c d’ ogni seelleranza 
Ardito c frodolento esecutore, 

Quattro tori involonnc e quattro vacche, 

Clf cran fior de l’ armento. E perchè Forme 
Indizio non ne dessero, a rovescio 
Per la coda gli trasse; c ne la grotta 
Gli condusse, c oelógli. Eran l' impronte 
De' lor piè volle al campo, e verso P antro 
Segno non si vedea ch‘ a la spelonca 
Il cercator drizzasse. Avea già molli 
Giorni d’ Anfllrion tenuto il figlio 
Qui le sue mandrc, e ben pasciuto e grasso 
Era il suo armento; si che nel partire 
Tutte queste foreste e questi colli 
Di querimonie e di muggiti empierò. 
Mugghiò da F altro canto, e ’l vasto speco 
Da lungc rinlonar fece una vacca 
De le rinchiuse : onde schernita e vana 
Restò di Caco la custodia c T furto, 

Ch' udilla Alcide, e d'ira c di furore 
In un subito acceso, a la sua mazza, 

Ch’ era di quercia noderosa c grave, 

Diè di piglio, c correndo al monte ascese. 
Quel dì da' nostri primamente Caco 
Temer fu visto. Si smarrì ne gli occhi, 

Si mise in fuga, c fu la fuga un volo : 

Tal gli aggiunse un timor le penne a’ piedi. 
Tosto che ne la grolla si rinchiuse, 

Allentò le catene, e di quel monte 
Una gran falda a la sua bocca oppose ; 

CIF a la bocca de F antro un sasso immane 
Avea con ferri e con paterni ordigni 
Di cateratta accomodato in guisa 
Con puntelli per entro e stanghe e sbarre. 
Ecco Tirintio arriva, e come è spinto 
Da la sua furia, va per lutto in volta 
Fremendo, ora a i vestigi, ora a i muggiti, 
Ora a F entrata de. la grotta intento. 

E portalo da F impelo, tre volle 
Scorse de F Aventino ogni pendice ; 

Tre volle al sasso de la soglia intorno 
Si mise indarno; e Ire volte affannalo 
Ritornò ne la valle a riposarsi. 

Era de la spelonca al dorso in cima 
Di selce d' ognintorno dirupala 
Un cucuzzolo altissimo ed alpestre, 

Ch'a i nidi d' avolloife di tali altri 
Augelli di rapina e di carogna 
Era opportuno albergo. A questo intorno 
Alfin si mise; e siccom' era al (lume 
Da sinistra inchinato, egli a rincontro 
Lo spinse da la destra, lo divclsc, 

Col calce de la mazza a leva il pose, 

E gli diè volta. A quel fracasso il ciclo 



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DELI/ ENEIDE 






Cingilo fronde comas, et pocula porgile deitris, 
Communemque vocale deum, et date vina volcnles. 
Diicral: Hcrculda bicolor quum populea umbra 
Velavìlquc comas foliisquc inncia pepcndil; 

Et saccr implcvil dcxlram scjphus. Ocius omnes 
In mensam lacll libant, divosque prccantur. 



Rintonò tulio, si crollar le ripe, 

E 'I (lume impaurito si ritrasse. 

Allor di Caco fu lo speco aperto : 

Scoprissi la sua reggia, e le sue dcnlro 
Ombrose e formidabili caverne. 

Come citi de la terra il gioito aprisse 
A viva fona, e de l' inferno il centro 
Discovrissc in un tempo, e clic di sopra 
De l' abisso vedesse quelle oscure 
Dal cielo ahbominale orride bolge ; 

Vedesse Pluto a l' improvviso lume 
Restar del sole attonito e confuso ; 

Colai Caco da subito splendore 

Ne la sua tomba abbarbagliato e chiuso 

Digrignar qual mastino Ercole vide ; 

E non più tosto il vide, che di sopra 
Sassi, travi, tronconi, ogni arme addosso 
Folgorando avvcnldgli. Ei clic nè fuga 
Avea, ni schermo al suo periglio altronde. 
Da le sue fauci (meraviglia a dirlo!) 

Vapori e nubi a vomitar si diede 
Di fumo, di caligine e di vampa, 

Tal che miste le tenebre col foco 
Togliean la vista a gli occhi, e T lume a l'au- 
Non però si contenne il forte Alcide, [tro. 
Che d'un salto in quel baratro gillossi 
Per lo spiraglio, e là Vera del fumo 
La nebbia e l’ondeggiar più denso e T foco 
Più roggio, a lui clic ’l vaporava indarno, 
S’addusse, e lo ghermì; gli fece un nodo 
De le sue braccia, e si la gola e T fianco 
Gli strinse, che scoppiar gli fece il petto, 

E schizzar gli occhi; e'I foco e'i fiato e l'alma 
In un tempo gli cslinse. Indi la bocca 
Aprì de l'antro, e la frodala preda, 

E del suo frodatore il sozzo corpo 
Fuor per un piè ne trasse, a cui dintorno 
Corscr le genti a meraviglia, ingorde 
Di veder gli occhi biechi, il volto atroce, 
L'ispido petto, e l'ammorzalo foco. 

Da indi in qua questo dì santo ogni anno 
Da’nostri è lietamente celebralo, 

E ne sono i Potizii i primi autori, 

E i Pinarii ministri. Allor quest'ara, 

Che massima si disse, e che mai sempre 
Massima ne sarà, fu consccrata 
In questo bosco. Or via dunque, figliuoli , 
Per celebrar lanl’onorata festa. 

Co i rami in fronte e con le tazze in mano 
Il comun dio chiamate, e lietamente 
L'un con l'altro invitatevi, e beele. 

Ciò dello, il divisalo Erculeo pioppo 
Tcssèro altri in ghirlande, altri in festoni, 
Altri in maii ne pianlaro. E di già pieno 
Di sacrato liquore il gran catino, 



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LIBRO OTTAVO 



HI 



Dovevo Interca propior RI Vcspcr Olympo: 
lamque sacerdoles primusque Potitius ibant, 

Pellibus In morem cincli, flaminasquc fcrcbanl. 
Inslaurant cpulas, et mcnsae grata sccundae 
Dona ferunl, cumiilanlquc oncratis lancibus aras. 
Tum Salii ad canlus, incensa aitarla circum, 
Populeis adsunt crincti tempora ramis; 

Uic iuvenum chorus, ilio senum; qui carenine laudes 
Ucrculcas et racla ferunt: ut prima novcrcae 
Alonstra manu geminosque premens eliserit angucs; 
Ut bello egregias idem disicccril urbes, 

Troiamquc Occhaliamque; ut duros mille laborcs 
Regc sub Euryslhco, falis lunonis iniquac, 
Pcrlulcrit. Tu nubigenas, invicle, bimeinbres, 
Ilylaeumquc l’holumque, manu, lu Cresia mactas 
Prodigia, cl «astuto Nemeae sub rupe Iconem. 

Tc Stygii Ircmuerc lacus, te ianitor Orci 
Ossa super reeubans antro scmesa cruento; 

Nec tc ullae facies, non lerruit ipse Typlioeus 
Arduus, arma lenens; non le rationis egentem 
Lernaeus turba capitum circumstctit anguis. 

Salve, vera lovis proics, decus addite divis: 

Et nos, et tua deiler adì pede sacra sccundo. 

Talia carminibus cclebranl: super omnia Caci 
Speluncam adiiciunl, spiranlcmque ignibus ipsura. 
Consonai omne nemus strepilu, collcsque rcsultant. 



Erin se cnncli divinis rebus ad urbem 
Perfcclis referunt Ibat rei obsilus aevo, 

Et comilem Aenean iuila natumque lenebat 
Ingrcdiens, varioque «iam sermone levabal. 

Miralur, facilcsquc oculos ferì omnia circum 
Acncas, capilurque locis; et singula laclus 
Eiquiritquc auditquc virùm monumenta priorum. 
Tum rcx Evandrus, Romanac condilor arcis: 

Ilacc nemora indigeoae Fauni Nymphacque tenebant, 



Tutti a mensa gioiosi s'adagiaro, 

E spargendo c beendo, ai santi numi 
Porser preghiere c «oli. 

Espcro intanto 
Era a l'occidental lito vicino 
Già per tuffarsi, quando i sacerdoti 
Un'altra rolla, e T buon Potizio avanti 
Con pelli indosso e con facelle in mano, 
Com'i costume, a conviver tornare, 

E le seconde mense c Tare sante 
Di grati doni e di gran pjptli empierò. 

I Salii intorno a i luminosi altari 
Givano in tresca, e di populea fronde 
Cingesti le tempie. I vecchi da l'un coro 
Le prodezze cantavano e le lodi 
Del grande Alcide. I giovani da l'altro 
N'atteggiavano i falli: come prima 
Fanciul da la madrigna insidiato 
I due serpenti strangolasse in culla; 

Come al suolo adeguasse Ecalia e Troia, 
Città famose; come superasse 
Mill'allre insuperabili fatiche 
Sotto al duro tiranno, e contro a I fati 
De l'empia dea. Tu sei, diccan cantando. 
Invitto iddìo, che de le nubi i Agli 
Ileo e Foto uccidi; tu che ’i mostro 
Domi di Creta; tu che vinci il Aero 
Neméo Icone; te gl'inferni laghi, 

Tc (inferno custode ebbe in orrore 
Ne l'orrendo suo stesso c diro speco. 

Là 've tra T sangue e le corrose membra 
Ha de la morta gente il suo covile. 

Cosa non è sì spaventosa al mondo, 

Che tc spaventi, non lo stesso armato 
Inconlr' al cicl Tifco, nè quel di Lenta 
Con tanti e tanti capi orribil angue 
Senza avviso ti vide o senza ardire. 

A te, vera di Giove inclita prole. 
Umilmente inchiniamo, a tc del ciclo 
Nuovo aggiunto ornamento. E lu benigno 
Mira i cor nostri e i sacrificii tuoi. 

Cosi pregando e celebrando, in versi 
Canlavan le sue prove. E sopra tutto 
Dicean di Caco, c de la sua spelonca 
E dc'suoi fochi; c i boschi c i colli intorno 
Kispondean riutonando. 

Eran fluiti 

I sacrificii, quando il vcchio Evandro 
Mosse per la citladc; c seco a pari 
Da l'un de' lati Enea, da l'altro il figlio 
Avca, cui s’appoggiava; c ragionando 
Di varie cose, agevolava il calle. 

Enea, meravigliando, in ogni parte 
Volgca le luci, desioso e lieto 
Di veder quel paese, e di saperne 



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DELL' ENEIDE 



Gensquc viròm truncis cl duro roborc nata: 

Quls ncquo mos ncque cultus crai; ncc iungcrc tauros 
Aul coroponcrc opes norant, aul parcere porto: 

Sed rami alquc asper virtù vcnalos alcbal. 

Primus ab aclherio vcnit Saturnus Olympo, 

Arma Iovis fugiens, et regnis ezsul ademtis: 

Is gcnus indocile oc dispersum monlibus allis 
Composuit, legesque dedit, Laliumque vocari 
Moluil, bis quoniam latuissel tulus in oris. 

Aurea quac perhibent, ilio sub rege fuerunt 
Saecula; sic placida pop^los in pace regebat, 

Detcrior donec paullalim oc decolor aelas, 

Et belli rabies, et amor succcssil habendi. 

Tum raanus Ausonia et gentes venere Sicanae, 

Sacpius et nomen posuit Saturnia tcllus. 

Tum reges, asperque immani corpore Tliybris. 

A quo post Itati fluvium cognomine Tliybrim 
Diiimus; amisi! verum vetus Albula nomen. 

He pulsura patria, pclagique estrema sequentem, 
Fortuna omnipotcns et ineluctabilc fatum 
Il is posuerc locis: malrisque cgcrc tremenda 
Carmcntis Nymphae monila, et deus auclor Apollo. 

Vii ca dieta: dehinc progressus monslral et aram, 

Et Carmcnlalem Domani nomine porlam 
Quam memorant, Nymphae priscum Carmenlis honorem, 
Vatis falidicac: cecini! quac prima futuros 
Acneadas rnagnos et nobile Pallanleum. 

Itine lucum ingcnlcm, quem Romulus accr Asytum 
Rclulil, et gelida monslral sub rupe Lupercali 
Parrhasio diclum Panos de more Lycaci. 

Ncc non et sacri monslrat nemus Argileti, 

Testaturquc locum, cl Iclum docci hospilis Argi. 

Dine ad Tarpciam sedem et Capitolia ducit, 

Aurea nunc, olim silveslribus horrida dumis. 

Iam tum relligio pavidos terrebat agrcstes 
Dira loci; iam tum silvani saxumquc tremebant. 

Hoc nemus, Lune, inquit, frondoso vertice collcm, 
Quis deus, inccrtum est, habitat deus, ArcaJes ipsum 
Creduli! se ridisse Iovcm, quum saepc nigrantem 
Aegida concutcrct, delira nimbosque cicret. 

Hacc duo praclcrea disicclis oppida muris, 

Rclliquias vctcrumquc videa monumenta virorum. 
Ilanc lanus pater, hanc Saturnus condidit arcem: 
Ianiculum huic, liti fucrat Saturnia nomen. 

Talibus intcr se diclis ad teda subibant 
Paupcris Evandri, passimque armonia videbant 
Romanoque foro et laulis mugirc Carinis. 

Ut ventum ad sedes: Hacc, inquit, limina victor 
Alcides subiil; haec illuni regia cepit. 

Audc, hospes, contemnerc opes, et te quoque dignum 
Finge dco; rebusque reni non asper egenis. 

Dixil, et angusti subtcr fastigio tedi 
Ingentem Acnoan duiit, slratisque locavi! 

EITultum foliis et pelle Libystidis ursae. 

Noi ruit, cl fuscis tcllurem ampleclitur alis. 



I sili, i luoghi e le memorie antiche. 

Di che spiando, il primo fondatore 
Do la Rumano ròcca in colai guisa 
A dirgli cominciò: Questi contorni 
Eran pria selve; e gli abitanti loro 
Eran qui nati, ed eran Fauni c Ninfe, 

E genti che di roveri e di tronchi 
Nate, nè di costumi, nè di cullo, 

Nè di tori accoppiar, nè di por vili, 

Nè d'allr'arli o d'acquisto, o di risparmio 
Avcan notizia o cura: e T vitto loro 
Era di cacciagion, d'erbe e di pomi; 

E la lor vita, aspra, innocente e pura. 
Saturno il primo fu che in queste parli 
Venne, dal cicl caccialo, c vi s’ascose. 

E quelle rozze genti, che disperse 
Eran per questi monti, insieme accolse, 

E diè lor leggi; onde il paese poi 
Da le latebre sue Lazio nomossi. 

Dicon che sotto il suo placido impero 
Con giustizia, con pace e con amore 
Si risse un seco! d'oro, in Un che poscia 
L’età, degenerando, a poco a poco 
Si fe'd'allro colore e d'altra lega. 

Quinci di guerreggiar venne il furore, 
L'ingordigia d'avere, e le mischiarne 
De l'altrc genti. L'assalir gli Ausonii; 
L'inondàro i Sicani; onde più volle 
Questa, che pria Saturnia era nomala, 

Ila con la signoria cangiato il nome, 

E co'signori. E quinci è che da Tebro, 
Che ne fu re terribile ed immane, 

Tebro fu dello questo fiume ancora, 
Ch’Albula si dicea nc'tempi antichi. 

Ed ancor me de la mia patria in bando 
Dopo molti perìgli e molti affanni 
Del mar sofferti, ha qui l'oonipolenle 
Fortuna, c finvincibit mio destino 
Portalo al line; e qui posar mi fèro 
Gli oracoli tremendi e spaventosi 
Di Carmcuta mia madre, e Febo stesso 
Clic mia madre inspirava. E fln qui dello 
Si spinse avanti; e quell'ara mostrdgli, 

E quella porta, che fu poi di Roma 
Carmcntal detta, onore e ricordanza 
De la Ninfa indovina cb’anzi a tulli 
Del Pallanléo predisse, cdc'Komani 
La futura grandezza. Indi seguendo 
Un gran bosco gli mostra; ove l’Asilo 
Romolo contraffece; c 'i Lupercale, 

Che quale era in Arcadia a Pan Liceo 
Sotto una fredda rupe era dicalo. 

Poscia de l'Argilcto gli dimosha 
La sacra selva; e d’Argo ospite il caso 
Gli conta, e se ne purga c se ne scusa. 



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1.1 B HO OTTAVO 



<13 



I 



At Venus liaud animo ncquidqnam cxtcrrila matcr, 
Laurenlumquc minis et duro mota tumultu, 

Vulcanum alloquilur, thalamoqnc haec coniugis aureo 
Incipit, et dictis dlvinum a Aspirai amorem: 

Dum bello Argolici vastabant Pcrgama roges 
Debita casurasque inimicis ignibus orces: 

Non ullum auxilium miseria, non arma rogavi 
Artis opisque tuae; nec te, carissime conionx, 
Incassumve tuos volili exercere laborcs: 

Quamvis et Priami deberem plurima nalis. 

Et durum Aeneae flevissem saepe laborem. 

None lo'is imperiis Hutulorum constiti! oris. 

Ergo eadetn supplex renio, et sanctum milti numcn 
Arma rogo gcnilrix nato. Te Alia Nerci, 

Te potuit lacrimis Tilhonia flectere coniunx, 

Adspicc, qui coèant popoli, quac moenia clausis 
Fermo acuant porlis in me excidiumquc meorum. 
Dixeral; et nivcis bine atquc bine diva lacerlis 
Cundantem amplexu molli roret. Die repente 
Vincalo voi, tstco. 



A la Tarpeia rupe, al Campidoglio 
Poscia l' addusse ; al Campidoglio or d' oro, 
Che di spini in quel tempo era coverto, 

Un ermo colle da i vicini agresti 
Per la religion del loco stesso 
Disino attor temuto e riverito : 

Ch' a veder sol quel sasso c quella selva 
Si paventava. E qui soggiunse Evandro : 

In questo bosco, e là 've questo monte 
È più frondoso, un dio, non si sa quale. 

Ma certo abita un dio. Queste mie genti 
D’ Arcadia lian ferma fede aver veduto 
Qui Giove stesso balenar sovente, 

E far di nembi accolta. Oltre a ciò vedi 
Qui su quelle rOine c qnci vestigi 
Di quel due cerchi antichi. Una di queste 
Città fondò Saturno, e P altra G ano, 

Che Saturnia c Gianicolo Tur delle. 

Iti colai guisa ragionando Evandro, 

Se ne ginn verso il suo picciolo ostello. 

E ne l’ andar, là V or di Buina ò il Foro, 

Ov' è quella più florida contrada 
De le Carine, ad ogni passo intorno 
Udia greggi belar, mugghiare armenti. 
Giunti clic furo, In questo umile albergo 
Alloggiò, disse, il vincitore Alcide. 

Questa fu la sua reggia. E tu v’alloggia, 

E tu ’l gradisci, e le delitie e gli agi ' 
Spregiando, imita in ciò Tirinxio e Dio, 

E del tugurio mio meco l’ appaga. 

Cosi dicendo, il grand'ospite accolse 
Ne l' angusta magione ; e collocollo 
LA dove era di frondi e d' irta pelle 
Di Libie' orsa atlappczzalo un seggio. 

Venne la notte, e le fosc' ali stese 
Avca di già sovra la terra ; quando 
Venere come madre, c non in vano 
Del suo tìglio gelosa, il gran tumulto 
Veggendo c le minacce de' Laurenli, 

Con Vulcan suo marito si ristrinse 
Con gran dolcezza ; c nel suo letto d' oro, 
Amor spirando, in tal guisa gli disse : 

Caro consorte, inllnchè i regi Argivi 
Furo a’ donni di Troia, clic per fato 
Cader dovea, nullo da te soccorso 
Volli, o da P arte tua : nè li richiesi 
D’ ormi allor, nè di maerhine, nè d‘ altro 
Per iscampo de’ miseri Troiani. 

Le man, l' ingegno tuo, le lue fatiche 
Oprar non volli indarno, ancor che mollo 
Con Priamo c co' tigli obbligo avessi, 

E molto mi premesse il duro alfanno 
D' Enea mio Aglio. Or per imperio espresso 
E de' Fati e di Giove egli nel Lazio 
E Ira’ Rululi è fermo. A le, mio sposo, 

23 



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1 74 



dell' eneide 



Acccpil solitam llnmmam; nolusque mcdullas 
Inlravil calor, cl labcfacla per ossa curami; 

Non sccus alque olim (onilni quum rupia corusco 
Ignea rima mirans pcrcurrit lumino uinibos. 

Sentii, lacta dolis cl formac conscia, comuni. 

Tum palcr aclcrno falur dcvinclus amore: 

Quid caussas polis ci allo ? Fiducia ccssit 
Qiio libi, diva, ilici ? Similis si cura fuissel, 

Tum quoque fas nobis Teucros armare fuisscl; 

Ncc palcr omnipolens Troiam, noe fata vclabaul 
Slarc. dcccmque alios Priamum superasse per annos. 
At nunc, si bollare para*, alque iiacc libi mcns esl: 
Quidquid in arie mea possum promillcrc curae, 

Quod beri ferro liquiduve polcsl dietro, 

Quanlum ignes animacquc «aleni; absislc prccando 
Viribus indubilarc luis. Ea «erba loculus 
Oplalos dedii amplcius, placidumquc pctivil 
Coniugis infusila grumo per membra soporem. 



Inde, nbi prima quics medio iam noclis ahaclae 
Curriculo eipuicral somnum; quum femina primum, 
Cui lolcrare colo vilam lenuiquc Minerva 
lmposilum, cinerem cl sopitos suscitai ignes, 
Noelem addens operi; famulasquc ad lumina longo 
Eiercel penso, castum ul servare cubile 
Coniugis, cl possil parvos cduccre nalos: 
liaud sccus ignipolcns, noe tempore segnior ilio 
Mollibus e slralls opera ad fabrilia surgil. 
insula Sicanium iuila lalus Acoliamquc 
Erigilur Liparcn, fumanlibus ardua savis: 

Quam sublcr spccus cl Cjclopum esosa caminis 
Anlra Aelnaea (onanl, ralidique incudibus ictus 



Ricorro, a le, mio venerando nume ; 

E madre per un Oglio arme li chieggo ; 

Quel clic da le di Nereo la figlia, 

E ili Tìlon la moglie hanno impetrato, 

Mira ’n quaufuopo io le li dileggio, e quanti 
E clic popoli sono, a mia ruma 
E de' mici congregali ; e qual fan d'armi 
A porle chiuse orribile apparecchio. 

Slava a questa richiesta in sé Vulcano 
Riiroso anzi clic no ; quando Ciprigna 
Con la tiepida neve e col vi»’ ostro 
De le sue braccia al collo gli si avvinse, 

E strinseln e baciollo. In un momento 
La consueta fiamma gli s’ apprese, 

E per l’ ossa gli corse a le midolle, 

E per le vene al core ; in quella guisa 
Che di corusca nube esce repente 
l'na lucida lista, e lampeggiando, 

Serpendo, il ciclo lutto empie di foco. 

Senfi la scaltra, che sapea la forza 
Di sua belili, die I’ a>ca preso e vinto; 

E de F inganno si compiacque e rise. 

E 'I buon marito, clic d' derno amore 
Avoa il cor punto, le si volse, e disse: 

A clic sì lungo esordio t 0»' è, consorte, 

Ver me la fila fidanza ? lo fin d’ allora, 

Se l' era a grado, avrei d' arme provvisti 

I Teneri (noi; ne ’l Padre onnipotente. 

Ni i Fali ci ridavano che Troia 

Non si tenesse, e Priamo non fosse 
Resialo ancor per (fiere allr" anni in vita. 

Ed or, s’ a guerra 1' apparecchi, e questo 
| È Ino consiglio, quel che l' arie puole 
0 di ferro o di liquido melallo, 

Quanto i mantici han fiato, e forza il foco , 

Io li promctlo. E lu con questi pricglii 
i Cessa di rivocar la possa in forse 

Del tuo volere, c'I mio de.-ir ciré sempre 
Di far le toglie tue paglie e contente- 
Cosi dicendo, disi'oso in braccio 
La si recò; gioinne, e poscia in grembo 
| Di lei placidamcnlc addormentossi . 

Finito il primo sonno, e de la notte 
Già corso il mezzo, come femminella 
Che eoi fuso, o con l' ago, o con la spola 
La sua vita sostenta e de' suoi figli ; 

Che la nollc aggiungendo al suo lavoro, 

E dal suo focolar pria che dal sole 
Procacciandosi 'I lume, a la conocchia, 

A P aspa, a l’ arcolaio esercitando 
Sla le povere ancelle, onde mantenga 

II rasto Idlo e i pargoletti suoi : 

Tale, in lai tempo, e con lai cura a l'opra 
Surse i) gran fabbro, e la fucina aperse. 

Giace Ira la Sicania da I" un canlo : 



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turno OTTAVO 



175 



Aaditi refcrunt gcmilum, slriduntque cavernis 
Striclurac Chalybum, et fomncibus ignis anhelal; 
Vulcani domus, cl Vutcania nomine Icllus. 

Hoc lune ignipolens coclo dcsccndìl ab alto. 

Perniai eicrcebanl vasto Cyclopes in antro, 
Brontesque, Stcropesque, el nudus membra Pyrac- 

mon. 

Uis informalum manibus iam parte potila 
Fulmen crai, toto genilor quac plurima coclo 
Deiicil in terra*; pars imperfeela manebal. 

Trcs imbris lorli radios, Ircs nubis aquosac 
Addidcrant, rutili tres ignis cl alitis austri. 

Fulgores nunc liorrilicos, sonilumque mclumquc 
Blisccbanl operi, flnmmisque sequa ci bus iras. 

Parte alia Marti currumquc rolasque volucres 
Instabant, quibus ille viros, quibus cxcital urbes; 
Acgidaque liorriferam, turbatne Palladi» arma, 
Cerlatim squami» serpentoni auroque polibant, 
Conncxasquc angue», ipsamque in pectore divoo 
Gorgona, deserto vertentem lumina rollo. 

Toltile cuncta, inquit, roeplosquc auferte labore», 
Àclnaci Cyclopes, et Ime ad veri ile nientem. 

Arma acri facienda viro. Nunc viribus usus, 

Nunc manibus rapidi», omni nunc arie magistra. 
Praccipitatc inoras. Nec plora cffalus; cl illi 
Ocius incubuere omnes, pnrilcrquc laborcin 
Sortili. Fluii aesfivis, aurique melallum, 
Vulnilicusquc chalybs vasta fornace liqucsciL 
Ingctilem clipcum inrorinanl, unum oinnia conlra 
Tela Latinorum; scplenosque orbibus orbes 
Impediunt. Alii ventosi» follibus auras 
Accipiunl rcddunlqtie; alii strideulia lingunl 
Aera lacu; gcmil imposto» incudibus anlrum; 

(Ili inter scsc multa vi brachia lollniil 
In numerum, vcrsanlquc tenaci forcipe massa m. 



E Lipari da l'altro un' isolctla 
Gli* alpestra ed alla esce de Tonde c fuma. 
Ha sotto una spelonca, c grolle intorno, 
Clic di feri Ciclopi antri c fucine 
Son da* lor fochi affumicati c rosi. 

Il picchiar de T incedi c de* martelli 
Ch* entro si sente, lo slridor de* ferri, 

Il fremere e T bollir de le sue fiamme 
E de le sue fornaci, d’ Elna in guisa 
Intonar s* ode cd anelar si vede. 

Quesla è la casa, ove qua giù s’adopra 
Vulcano onde da lui Vulcania è della : 

E qui per T armi fabbricar discese 
Del grand* Enea. Slavati ne T attiro allora 
Steropc c bronlo e Piracmonc ignudi 
A rinfrescar T aspre saette a Giove. 

Ed una allor n'avcan parie polita, 

Parte abbozzata, con tre raggi attorti 
Hi grandinoso nembo, Ire di nube 
Pregna di pioggia, (re d'acceso foco, 

E tre di vento impetuoso c fiero, 

I tuoni v’aggiungevano c i baleni, 

E di fiamme c di furia c di spavento 
Un colai misto. Altrove erano intorno 
Di Marie al carro, e le veloci ruote 
Accozzavano insieme, ond* egli armalo 
Le gelili c le città scuole e cominovc. 

Lo scudo, la corazza c l’elmo e Tasta 

Avcan ila T altra parte incominciati 

Ih* T armigera Palla, c di commesso 

La fregiavano a gara. Erano i fregi 

Nel petto de la dea gruppi di serpi 

Che d’ oro avean le scaglie, c cento intrighi 

Facenti guizzando di Medusa iulorno 

Al fiero teschio, che così com’era 

Disanimalo e tronco, le sue luci 

Volgca dintorno minacciose c torve. 

Tosto che giunse, Via, disse a’Ciclopi, 
Sgombratevi davanti ogni lavoro, 

E qui meco n guarnir d’arme attendete 
Un gran campione. E s'unqua fu mesliero 
D’arte, di sperienza c di prestezza, 

È questa volta. Or «'accingete a l’opra 
Senz'nitro indugio. E ciò fu dello a pena, 
Clic divise le veci e i magisteri, 

A fondere, a bollire, a martellare 
Chi qua chi là si diede. Il bronzo c Toro 
Corrono a rivi: s’ammassiccia il ferro, 

Si raffina l’acciaio; c tempre c leghe 
In più guise si fan d’ogni metallo. 

Di sette falde in selle doppi unite 
Hicolle al foco c ribatlutc c salde 
Si forma un saldo c smisurato scudo, 

Da poter solo incontro a Tarmi tutte 
Star dc’Lalini. Il fremito del vento 



i 



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176 



DELL* ENEIDE 



llacc palcr Acoliis propcrat doni Lemnius ori*, 
Evandnim ci humili teclo lux suscitai alma, 

Et matulini voliiorum sub culmine canlus. 

Condurgli senior, tunicaquc imlucilur artus, 

Et Tyrrliena pedum circumdal rincula plantis. 

Tum Interi alque liumeris Tcgcacum subligat ensem, 
Domila ab lacva panllicrae terga rclorquens. 

Ncc non et gemini custodes limine ab alto 
Praeredunl prcssumque canes comitanlur hcrilcm. 
llospilift Aeneac sedem cl secreta pctebat, 

Scrmonum mrmor et promissi muneris, heros. 

Nec minus Aenrns se matulinus ngebal. 

Filius Imic Pallas, illi comcs ibal Adiate*. 

Congressi iungunt dextras, mediisque residunt 
Acdibus, et licito tandem sermone rrmmtur. 

Rex prior haec: 

Maxime Teucrorum ductor, quo sospite nunquam 
Rcs equidem Troiae victas nnt regna falebor; 

Nobis ad belli auxilium prò nomine tanto 
Exiguac viro». Mine Tusro claudimur amni, 
llinc Ttululiis premi!, et murnm circumsonat armis. 
Sed libi ego ingenles populos opulcntoque regnis 
lungcrc castro paro, quam fors inopina salulcm 
Ostentai; fatis Ime tc poscontibus after*, 
llaud procul bine saio incolilnr fundala vetusto 
Urbis Agyllinac sedes: ubi Lydia quondam 
Oens, bello pracclora, iugis insedi! Etruscis. 

Itane multos florenlem annos rex demde superbo 
Imperio et saevis tcnuil Mercntius armis. 

Quid mernorem infandas caedes, quid facta lyranni 
E fiera ? DI capiti ipsius generique reservenl 1 
Mortila quin eliam iungebal corpora vivis, 

Componens manibusque manus atquc orìbus ora, 
Tormenti grnus, et sanie taboque fluentes 
Compir xu in misero longa sic morte necabal. 

At fessi tandem cives infamia furenlcm 
Armati circumsislunt ipsumque domumqtir, 
Obtruncanl Melos, ignoro od fastigio butani, 
llle inler caedes Rululorum clapsus in agros 
Confugcre, cl Turni defendicr hospiiis ami». 

Ergo omnis furiis surrexil Elruria iuslis; 

Regem ad supplicium praesenti Marte reposcunt. 
llis ego te. Aenea, ductorem millibus addam. 

Toto namque fremimi condensae lilorc puppes, 
Signaquc ferro iubenl; rctinel longa evus haruspcx 
Fata cancns: 0 Maeoniac dclccla iuvenlus, 

Flos vclerum vlrtusquc virimi, quos iuslus in boslern 



Clic spira da’gran mantici, c le strida 
Clic ne’laghi allunali, o su l’incudi 
Battuti fanno i ferrigni un sol tuono 
Ne l'antro uniti, di tenore in guisa 
Corrispondono a’colpi dc’Ciclopi, 

Ch'ai moto de le braccia or alle or basse 
Con le tenaglie c co’martclli, a tempo 
Fan concerto, armonia, numero c metro. 

Mentre in Eoliu era a quest'opra intento 
Di Lcnno il padre, ecco, sorgendo il sole, 
Sursc al cantar dei mattutini augelli 
Il vecchio E> andrò; e fuori uscio vestito 
Di giubba con le guigge a'picdi avvolte, 
Com'è Tirrena usanza. Avca dal destro 
Omero a la Tegèu nel manco lato 
Una sua Greca scimitarra appesa. 

Avca da la sinistra di pantera 
Una picchiata pelle, clic d'un (ergo 
Gli si volgca su l'altro; e da ta ròcca 
Scendendo, gli venian due cani acanti, 
Come custodi, i suoi passi osservando. 

In questa guisa il generoso eroe. 

Come quei clic lenca memoria e cura 
Di compir quanto avca la sera avanti 
Ragionato c promesso, a le secrctc 
Stanze del padre Enea si ricondusse. 

Enea da l'altra parte assai per tempo 
S'era levalo; e. solo in compagnia 
L'un seco avea Pallunlc, e l’altro Arate. 
Poscia che rincontrati c ’nsieme accolli 
Si salutaro, alibi, tra loro assisi, 

A ragionar si dicro. E prima Evandro 
Cosi parlò: Signor, cui vivo, in vita 
Dir si può che sia Troia, c che del tutto 
Non sia caduta e vinta; in questa guerra 
Quel clic poss’io per tuo sussidio è poco 
À tanto affare. Il mio paese è chiuso 
Quinci dal Tosco fiume, e quindi ha l'armi 
Che gli suonan dc’RuluIi d'inlorno 
Fin sulle porte. Avviso e pcnsier mio 
E per confederali e per compagni 
Darli una gente numerosa e grande 
Con molli regni. In (at qui tempo a punto 
Sei capitato, e tal felice incontro 
Ti porge amica e non pensata sorte. 

È non lunge di qui, su questi monti 
D'Elruria, una famosa c nobil terra 
Cli'è sopra un sasso anticamente ostruita. 
Agillina si dice, ovc^ lor seggio 
Posero (è già gran tempo) i bellicosi 
E chiari Lidi; e floridi e felici 
Vi fur gran tempo ancoro. Or sotto il giogo 
Son di Mczcrizio capitali al fine. 

A che di lui coniar le sccllcranze ? 

A clic In ferità ? Dio le riservi 



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LIBRO OTTAVO 



117 



Ferì dolor, et merita accendi! Mezentius ira; 

Nulli bis Italo tantam subiungere gcnlcin: 

Ezlernos optate duces. Tom Etnisca resedii 
Hoc acios campo, monili* evienila divùm. 
lpse oratore* ad ine regnique coronam 
Cuni sccpiro misi!, mandatquc insignia 'farcito, 
Succedam castris, Tyrrhenaquc regna capessam. 

Sed inibì tarda gelu saeclisquc elTcta sencclus 
Invidei impcrium, s (Tacque ad fortia vircs. 

Nalum evhorlnrer, ni, mutua maire Sabclla, 

Hinc parlcm patriac tralicrel. Tu, cuius et unni* 

Et generi fata indulgcnl, qttcni numina poscunt, 
Ingrederc, 0 TcucrAin alque Halum fortissime ductor. 
llunc libi practcrca, spes et solatia nostri, 

Paltanla adittngam; sub le loierare magislro 
Slililiarn et graie Itlarlis opus, tua cernere facta 
Assucscat, primis et le miretur ab anni*. 

Arcadas buie cquiles bis centoni, robora pubis 
Leda, dabo; lolideinquc suo libi nomine Pallas. 



Per suo castigo c de' seguaci suoi. 

Questo crudele insino a' corpi morti 
Mescolava co' vivi ( odi tormento ) 

Clic giunte mani a mani e bocca a bocca, 

In cosi miserando abbracciamento 
Gli Iacea di putredine c di lezzo 
Vivi ili lunga morte al Un morire. 

1 cittadini afllitli c disperati, 

E falli per paura al Un sccuri, 

Tesero insìdie a lui, fecero strage 
De' suoi, posero assedio, avventàr foco 
A le sue case. Ei de le mani uscito 
De gli uccisori, ebbe rifugio a Turno 
Ch'or l' accoglie c 'I difende. Onde commossa 
E per giusta ragione in furia vòlta 
L’ Elruria tutta incontro al suo tiranno 
Grida che muoia, c già con l' armi in mano 
A morte lo persegue. A questa gente 
Di molte mila condottiero c capo 
Aggiungcrotli. E già d'armate navi 
Son pieni i liti: ognun freme, ognun chiede 
Clic si spieghin l' insegne. Un vecchio solo 
Aruspico c 'ndovino A, che sospesi 
Gli tiene inOno a qui: Gente Meonia, 
Dicendo, fior di gente antica c nobile. 
Delirili' giusto dolor contro a Mczcnzio, 

E degù' ira v’ incenda, incontro a Lazio 
Non movete voi già; cb'a nessun Italo 
Domar d'Italia una tal gente è lecito, 

S' esterno duce a lanf uopo non prendesi. 
Cosi paralo, c per timor confuso 
Del vaticinio stassi il campo Etrusco; 

E già Tarconle stesso a questa impresa 
M’ invila, c già mandalo a presentarmi 
Ha la sedia e Io scettro c l' altre insegne 
Del Tirrcn regno, perch’io re ne sia, 

Ed a l' oste ne vada. Bla la tarda 
E fredda mia vccchicrza, e le mie forze 
Debili, smunte c diseguali al peso 
Fan di' io rifiuti. Esorterei l’aliante 
Mio tìglio a questo impero, se non fosse 
Clic nato di Sabclla, Italo anch’ egli 
È per materna razza. Or questo incarco 
Da gli anni, da la gente, dal destino, 

Dal tuo stesso valore a te si deve. 

E tu prendi, signor, eli’ abile c forte 
Sei più d' ogni Troian, d' ogni Latino, 

A sostenerlo. Ed io Fallante mio, 

La mia speranza c 'I mio sommo conforto, 
Manderò leco; che ’l meslier do l’ arme, 

Che le fatiche del gravoso .Marte 
Ne la tua scuola a tollerare impari: 

E te da' suoi pritn'anni, c i gesti tuoi 
Meravigliando ad imitar s'avvezzi. 

Dugenlo cavalieri , il nervo e 'I fiore 



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178 



DELL’ ENEIDE 



Vii ca falus crai, dcfixiquc ora Icncbaul 
Acncas Anchisiadcs cl fidus Acliates, 

Mullaquc dura suo tristi rum cordo pulabnnt, 

Pii s'gnunj coclo Cytherca dodissot aperto. 

Namquc improviso vibralus ab aclhcrc fulgor 
Cum sonilu venit, cl ruerc omnia risa repente, 
Tyrrhcnusquc lubae mugirc per acllicra clangor. 
Suspiciunt: ilerum atquc iterum fragor increpat ingens. 
Arma iuler nubem, coeli in regione serena, 

Per sudum rutilare tident, cl pulsa tonare. 

Obstupuerc aniinis alii; sed Troius beros 
Agnovil sonituin cl divac promissa parenlis. 

Tum memorai: Ne vero, hospcs, ne quaere profeclo, 
Quem casum portmta ferant; ego poscor Olympo. 

Hoc signum cecini! missuram dita rrealrii, 

Si bcllum ingrucrcl; Vulcaniaquc arma per auras 
Laturam auiilio. 

■leu quantae miseris cacdes Laurcnlibus inslant I 
Quas pocnas mihi, Turno, dabis ! quam multa sub 

undas 

Scula tirOtn galeasque et forlia corpora volvcs, 

Tliybri pater ! Poscant acies, et fuedera rutnpanl. 



Ilare ubi dieta dedit, solio se tollil ab alto; 

Et primum Ilcrculcis sopilas ignilms aras 
Escila!, hestcrnumquc Larcm parvosque Pcnales 
Laclusadil: maclant Icctas de more bideutes 
Evandrus paritcr, paritcr Troiana iuventus. 

Post bine ad naics gradirne, sociosque resisi!: 
Quorum de numero, qui sesc in bella sequanlur, 
Praestanlcs sirlule Icgil; pars celerà prona 
Ferlur aqua, segnisque secundo defluii amni, 
Piunlia ventura Ascanio rerumque patrisque. 
Dantur equi Tcucris Tyrrbcna pclcnlibus arva: 
Dueunt cisorlem Aeucae; quem futi a Icouis 
Pcllis obil tolum, praefulgens unguibus aurcis. 



De' miei d' Arcadia, spedirò con Ini, 

E dugcnlo altri il min Pollatile slesso 
In suo nome daratli. 

Avea ciò detto 

Etandro appena, clic d' Anchise il figlio 
E 'I lido Acolc stèr co’ volli a terra 
Chinati. E da pcnsier gravi c molesti 
Fòran oppressi, se dal cicl sereno 
La madre Cilerca segno non dava, 

Siccome diò. Citò tal per aria un lume 
Vibrassi d' improvviso e con tal suono, 

Che parve di repente il mondo tulio 
Come scoppiando c rumando ardesse. 

Ed In un lempo di Tirrene tube 
Squillar ne l’aura alto concento udissi. 
Alzaron gli occhi; e la seconda volta, 

E la terza iterar sentirò il luono; 

E vidcr li 've il ciclo era piò scarro 
E più tranquillo, una dorata nube, 

E d’ armi un nembo, che Ira lor percosse 
Scintillando facean fremili e lampi. 

Stupiron gli altri. Ha il Troiano eroe 
Clic il cenno riconobbe c la promessa 
De la diva sua madre, Ospite, disse. 

Di saper non li caglia quel eh' importi 
Questo prodigio: basta di’ ammonito 
Soli io dal ciclo, c questo ò ’l segno, o ’l tempo 
Clic la mia genitrice mi predisse; 

Clic quantunque di guerra incontro avessi, 
Allora ella dal cicl presta sarebbe 
Con l'armi di Vulcano a darmi aita. 

Oh quanta di voi strage mi prometto, 

Infelici Laurenli 1 c qual castigo. 

Turno, da me n'avrai! quanl'arml, quanti 
Corpi volgere al mar, Tebro, ti veggio ! 

Via, patto c guerra mi si rompa ornai. 

Cosi detto, dal soglio allo levossi: 

E con Evandro c co’ suoi Teucri in prima 
)>' Ercole visitando i santi altari. 

Il sopito carbon del giorno avanti, 

Lieto desta c raccende; i Lari inchina; 

I pargoletti suoi Penali adora, 

E di più scelte agnello il sangue ofTrisce. 

Indi torna a le navi, c de' compagni 
Fatte due parli, la piò forte elegge 
Per seco addurre a preparar la guerra; 

L' altra seconda per lo (lume invia, 

Che pianamente c srnz' alcun contrasto 
Si rivolga ad Ascanio, e dia novelle 
De le cose e del padre. A quei clic seco 
In Etruria addueca, Insto provvisti 
Furo i cavalli. A lui venne in disparte 
Da tulli gli altri un palafreno eletto 
Di pelle di leon lutto coverto 
Che i velli avea di seia e l’ ugna d' oro. 



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LIBRO OTTAVO 



11 » 



Fama volai parvam cubilo vulgata per urbcm, 

Ocius ire cquilcs Tyrrlioni ad lilora regia. 

Vola melu duplicanl malrcs, propiusque pcriclo 
Il limor, el maior Martis iam appare! imago. 

Tum pater Evandrus, doilram complexus cuulis, 
llaerel, incxplelnm laerimans, ac lalia faiur: 

0 mihi praclcrilo» reterai si lupilcr aunos, 

Quali* eram, qiiuin primam ae-iem Pracncslc sub ipsa 
Strati scutorunii|uc incendi viclor acervo;, 

Et regoni bac llerilum destra sub Tartara misi! 
Nascenti cui tres animas Fcronia matcr 
(Horrcudum diclu) dederat. Terna arma movendo, 
Ter leto slemendus orai: cui lune lamen omnrs 
Abslulit liaec animas destra, et tolidcm esuit armis. 
Non ego mine dulci amplesu divellcrcr usquam, 

Nate, tuo; ncque flnilimo Mczcnlius unquam 
lluic capili insullans tot terrò saeva dedissel 
Funere, Iam multis viduasset civibus urbem. 

At vos, o superi, et ditóni tu niasimc reclor 
lupilcr, Arcadii, quaeso, miscrescite regis, 

Et patria; andito prcccs: Si mimimi vostra 
Incnlunieni Pallanla milii. si tata reservant, 

Si visurus cum vivo, et vcnlurus in unum, 
vitam oro; paliar quemvis durare laborcm: 

Sin aliquein intandum casum, Fortuna, minaris, 

Nunc, none o liceat crudelem abrnmpcre vitam, 
l)um curac ambiguae, dum spes incerta futuri, 
iium le, care pucr, mea sola et sera voluplns, 
Complesu tcncn; gratior ne nuntius aures 
Vulnerai. Ilaec gcnitor digressu dieta supremo , 
Fundcbal: famuli coliapsum in teda ferebant. 



lamque adeo esierat porlis equitatus apertisi 
Acneas inlcr primos et fidus Achales; 

Inde olii Troiac proceres; ipsc agaiinc Pallas 
In medio, chlamydc et pie li s conspcclus in armisi 
Quali; ubi Oceani perfusus Lucifcr linda. 

Quelli Veuus ante nlios astrorum diligi! ignes, 
Eslulit os saerum coi to, lenebrasquc rcsolvil. 

Stani pavidae in muris malrcs, oculisquc sequuntur 
l’ultercaiu mibcm el fulgente; aere calcrvas. 



Per la piccola lerra In un momcnlo 
Si sparge il grido eli' a i Tirreni liti 
No va lo stuol de' cavalieri in fretta. 

Le madri paventose a i tempii intorno 
ninnotcllaiio i voli; c già per tema 
Più vicino il periglio, c più P aspetto 
Sembra di Marte atroce. Evandro il figlio 
Nel dipartir teneramente abbraccia; 

Nè divello da lui nè sazio ancora 

Di lagrimar gli dicci o se da Giove 

Mi fosse, tìglio, di tornar concesso 

Ora in quegli anni e ’n quelle forze, ond’ io 

Sullo Preneste il primo incontro fei 

Co' mici nemici, c vincitore i monti 

Arsi de’ scudi; allor eli' Erilo stesso, 

Lo stesso re con queste mani ancisi, 

A cui nascendo avea Fcronia madre 
Date tre vile c Ire corpi, c tre volto 
( Meraviglia a contarlo I ) era mcslicro 
Combatterlo c domarlo; cd io tre volte 
Lo combattei, lo vinsi, c lo spogliai 
D' armi c di vita; se tal, dico, io fossi, 

Mai non sarei da le, figlio, diviso; 

Mai non fura Mezcnzio oso d' opporsi 
A questa barba ; nè per tal vicino 
Vedova resterebbe or la mia terra 
Di tanti cittadini. 0 dii superni, 

0 de' supremi dii nume maggiore, 

Pietà d' un re servo e devoto a voi, 

E d' un padre che padre è sol d' un figlio 
Unicamente amalo. E se da’ Fati, 

Se da voi m' i Pallante preservato, 

E s' io vivo or per rivederlo mai, 

Questa mia vita preservate ancora 
Con quanti unqua soffrir potessi affanni. 

Ma se Fortuna ad infortunio il tragge, 

CU' io dir non oso, ora, or, prego, rompelc 
Questa misera vita, or eh* è la tema, 

Or di' è la speme del futuro incerto; 

E che le, tiglio mio, mio sol diletto 
E da me desiato in braccio io tengo, 

Ami eh' altra novella me ne venga 

Cile 'I cor pria clic gli orecchi mi percuota. 

Cosi 'I padre ne l' ultima partila 

Disse ai suo figlio; e da l' ambascia vinto 

Fu da' sergenti riportato a braccio. 

A la campagna i cavalieri intanto 
Erano usciti. Enea col Odo Acatc, 

E co' suoi primi e>a nel primo stuolo. 
Pallante in mezzo rispleudea no Panni 
Commesse d‘ oro, rispleudea ne l' ostro 
Clic Parme avean per sopravvcsla inlorne; 
Ma via più risplendca ne' suoi sembianti 
CIP cran di licro e di leggiadro insieme. 
Tale è quando Lucifero, il più caro 



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180 



DELL’ ENEIDE 



Olii per dumo?, qua prolima mela viorum, 

Armali I e mi uni. Il clamar, et Ognune laclo 
Quadrupedantc putrcni sonilu qualil ungula campum. 
Est ingens gelidum lucus prope Cacrilis omnem, 
Benignine palrum late saccr; undique colles 
Incluscrc cari el nigra nemns abielc cingimi; 

Silvano faina est veleres sacrasse Pclasgos, 

Arvorum pccorisquc dco, lucumque dieraque, 

Qui primi fines aliquaudo lialmere Latinos. 

Ilaud procul bine Tarclio el Tyrrhcni luta lenebanl 
Castra locis, celsoquc oninis de colle videri 
Iam palerai legio, et lalis tendebai in arvis. 
lluc palar Aeneas el bello leda iuvenlus 
Succedimi, fessique et equos el corpora curanl. 



Al Venus acllterios inlcr dea candida nimbos 
Dona fercns aderiti ; natumque in valle reducta 
DI procul egelido secretimi nuotine lidii, 

Talibus affala est diclis, seque oblulit utlro: 

En perfecta itici promissa coniugis arie 
Menerà: ne mot: aul Laurenlcs, nate, superbo?, 

Aul acrem dubilcs in proelia poscere Turnum. 

Disii, el amplesus nati Cylltcrca pelivi!; 

Arma sub adversa posuil radianlia quercu. 

I le, dcae donis el tanto laelus Itonorc, 

Esplori nequil, atquc oculos per singula volti!, 
Miralurque, interque manus el brachia versai 
Terribilem crislis galcam nammasque vomenlem, 
Faliferumque enscm, loricam e» aere rigenlcm, 
Sanguineam, ingcntcm, qualis quum caerula nubes 
Solis inardcscit radiis longcquc rcfulgel; 

Tum leves ocreas elcctro auroque recoclo, 
Ilaslamque, el clipei non cnarrabile Icitum. 

Illic res llalas, llomanoruntque Iriumphos, 

Ilaud valum ignarus venlurique inscius aevi, 

Fecerat Ignìpotens; illic genus omne futurae 
Slirpis ah Ascanio, pugnataque in ordine bella. 
Fccerat et viridi Tetani Mavorlis in antro 
Procuhuisse lupam: geminos buie ubera circum 
Ludcrc pcndcRlcs pueros, el lambere matrem 
tmpavidos; illam tereti cervice rellesam 
Mulccrc alternos, et corpora fìngere lingua. 

Ncc procul Itine Romani, et raptaa sinc more Sabinas 



Lume di Cilerea, da I' Oceano 
Quasi da l’ onde riforbilo estolle 
Il sacro rollo, a l' aura fosca inalba. 

Slan le timide madri in su le mura 
Pallide atlcntamcnlc rimirando 
Quanto puon lungo il polveroso nembo 
Oc l’ armale caterve; e i luslri e i lampi 
Clic fnccan l' armi, Ira i virgulti e i dumi 
Lungo le vie. Va per la schiera il grido 
Che si cavalchi; e lo squadron già mosso 
Al calpitar de la ferrala forma 
Fa il campo risonar tremante c trito. 

È di Cere vicino, appo il gelalo 
Suo fiume, un sacro bosco antico e grande 
D’ombrosi abcli, che da cavi colli 
Intorno è citilo, venerabil mollo 
E di gran liingc. fi fama clic i Pclasgi, 

Primi del Laido occupato» esterni, 

A Silvàn, dio de' campi e de gli armenti, 
Consccràr questa selva, c con solenne 
Itilo gli dcdicàr la festa c 'I giorno. 

Quinci poco lontano era Tarconle 
Co' Tirreni accampalo ; e qui dal campo 
Giunti a la vista, là 've un allo colle 
Lo scopria tutto, Enea co’ primi suoi 
Fermossi, ovo i cavalli c i corpi loro 
Già slanciti ebbero al fin posa e ristoro. 

Era Venere in ciel candida e bella 
Sovr' un etereo nembo apparsa intanto 
Con l' armi di Vulcano; c visto il Aglio 
Cli’ oltre al gelido rio per erma valle 
Sen già da gli altri solitario e scevro, 
Apertamente gli s' offerse, e disse : 

Eccoli '1 don che da me, Aglio, attendi 
Di man del mio consorte. Or francamente 
Gli orgogliosi Lamenti e 'I fiero Turno 
Sfida a baltaglia, c gli combatti e vinci. 

E, ciò dello, l'abbraccia. Indi gli addila 
D'armi quasi un trofeo, di' appo una quercia 
Dianzi da lei tlcposle, incontro a gli ocelli 
Facean barbaglio, e 'ncontro al sol più soli. 
I)' un latito dono Enea , d' un tale onore 
Lieto, c non sazio di vederlo, il mira, 
L’ammira e’I traila. Or l’elmo in man si prende 
E l’ diritti! ciuticr contempla c ’l foco 
Che d' ogni parie avventa : or vibra il brando 
Fatale; or ponsi la corazza avanti 
Di lino acciaio c di gravoso pondo, 

Che di sanguigna luce c di colori 
Diversamente accesi era splendente : 

Qual sembra di lonlan cerulea nube 
Arder col sole c variar col molo. 

Brandisce l’ asta; gli stinicr vagheggia 
Nitidi e lievi, che fregiali c fusi 
Snn di fin oro c di forbito elettro. 



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LIBRO OTTAVO 



181 



Consessi! caveae, magnis Circcnsihus actis, 
Addidcrat, subitoquc notuni consurgere bcllum 
Romulidis, Talioque seni, Curibusque severi*. 

Posi Idem, iiiler se posilo ccrtamine, reges 
Armati Iovis anle aram, palerasque lenente*, 
Stillarli, el coesa iungebanl fu ed ir a porca, 
llaud procul inde cilae Metum in diversa quadrigai* 
Dislulerant (al lu diclis. Albani 1 , mancres 1) 
Haplabatque tiri mendaci* tiscera Tuilus 
Per silvani, el sparsi rorobant sanguino vepros. 

Ncc non Tarquinium eiectum Porsena iubebal 
Accipcre, ingenlique urbein obsidione prcmebal; 
Aeneadac in ferrimi prò libcrtale ruebanl. 

Illuni indignami simdem, similemque minanti 
Adspiceres, ponteni auderet quod veliere Cocles, 

El lluvium vinclis innaret Cloelia rupiis. 

In summo custos Tarpeiao Manlius arci» 

Slabal prò tempio, el Capilolia celsa lenebal, 
Romuleoque rcrcns horrebul regia culmo. 

Atque lue aurati* volilans argenteus auscr 
Poriicibus, Gallo* in limine adesso, canebat; 

Galli per dunios aderant, arcemque Icticbanl, 
Defunsi tenebri* et dono noctis optiate: 

Aurea cacsaries ollis, atque aureo vesti*; 

Virgalis lucent sagulis; tum lactea colla 
Auro innectuntur; duo quisque Alpina coruscant 
Gaesa marni, sculis proietti corpora longis. 

Hic e.vsullanles Salios, nudosque Lupercos, 
l.anigerosque apices, et lapsa ancilia coclo 
Exluderai; castac ducebanl sacra per urbem 
Pilentis inalres in mollibus. llinc procul addit 
Tarlarcas eliam sedes, alta ostia Ditis, 

Et sceleruin pocnos, el te, Calilina, minaci 
Pendentem scopulo, Furiarumque ora Irenienlem; 
Secrelosque pios; bis dantem lura Caloncm. 

Ilacc inter tumidi late mnris ibat imago 
Aurea: sed (luclu spumabanl caerula cono; 

Et circum argento clari dclphines in orbem 
Acquora verrebant caudis, aestumque secabanl. 

In medio classes aerala*, Aclia bella, 

Cernere eral; toluuique inaimelo Marte videres 
Fervere Leticateli, auroque eiTulgcre fluclus. 
llinc Augustus ageus italo* in proelia Ci» osar 
Cuni Palribus, Populoque. Penolibus et magnis dt>, 
Slans celsa in puppi: geniinas cui (empora flammas 
Laeta vomunt, pairiumquc aperitur vertice sidus. 
Parie alia venlis et di* Agrippa secundis 
Ardutis agmen agcns: cui, belli insigne suporbum, 
Tempora navali fulgcnt rostrata corona, 
llinc opc barbarica variisque Antonius armis, 

Victor ab Aurorae populi* el liiore rubro, 

Aegyptum, viresque Oricmis, el uliima secum 
Borirà vehil; sequiturque, nefas Acgyplia corrioni. 
Ina omnes ruere, ac lolum spumare, reduclis 
Convulsum reniis rostrisque Irideulibus, aequor. 
VlRf.ll.lO VOL. UMICO 



Maravigliando al fin sopra a lo scudo 
Si ferma, e l' indicibile artificio, 

Ond' era intesto, e l' argomento esplora. 

In questo di commesso c di rilievo 
Area fallo de' fochi il gran maestro 
( Como de' vaticini! c del futuro 
Presago aneli' egli ) con mirabil arte 
Le battaglie, i trionfi e i fatti egregi 
D' Italia, de’ Romani c de la stirpe 
Che poi scese da lui. Dal figlio Ascauio 
Incominciando, i discendenti lutti 
E le guerre che fèr di rnano in mano 

V avea del Tebro in su la verde riva 
Finta la marnai nudrice lupa 

In un anlro accosciata, e i due gemelli 
Che da le poppe di s) fera madre 
Lascivelli pendean, senza paura 
Seco scherzando. Ed ella umile e blanda 
Stava col collo ili giro, or I* uno or I’ altro 
j Con la lingua forbendo e con la coda. 

V era poco (olitati Roma novella 

Con una pompa, e con un circo avanti 
Picn di tumulto, ov* era un’ insolente 
(tapina di donzelle, un darsi a l’ orme 
Infra Romolo e Tazio, e Roma e Curi. 

E poscia infra gli stessi regi armali 
Di Giove anzi a l'altare un tener tozze 
In vece d’ armi in mano, un ferir d’ ambe 
Le parli nn porco, c far connubi! e pace. 

Nè di qui (unge, erano a quattro a quattro 
Giunti a due carri otto destrier feroci, 

Che qual Tulio imponea (stato non fossi 
Tu sì mendace c traditore, Albano,) 

III due parti Iraean di Mczio il corpo; 
i E si coni* era tratto, i brani e T sangue 
Ne moslravan le siepi, i carri e 'I suolo. 
Vera, olirà a ciò, Porsenna, il rege Etrusco 
Ctr imperiosamente da I’ esigilo 
Rivocava i Tarquioii, e’n duro assedio 
Ne tenca Roma clic del giogo schiva 
S' avventava nel ferro. Avea nel volto 
Scolpito questo re sdegno e minacce, 

E meraviglia, che sol Code osasse 
Tener il ponte; e Clelia, una donzella, 
Varcar il Tebro, e scior la pairia e lei. 

In cima de lo scudo il Campidoglio 
Era formato, e la Tarpeia rupe, 

E Manlio che del tempio e de la rócca 
Stava a difesa; e la Romulea reggia 
Che 'I comignolo avea di stoppia ancora. 

Tra* portici dorali iva d’ argento 

L’ ali sbattendo e schiamazzando un' oca 

Ch’ aprin de* Galli il periglioso agguato : 

E i Galli per le macchie e per le balze 
De Feria ripa, da la buia notte 

n 



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DELI/ ENEIDE 



1*2 



Alla pelunl: p lago crcdas limare revulsas 
Cycladas, aut moules concurrere monlibus allo*: 
Tania mole viri lurrilis puppilms instarli. 

Sluppea damma marni lelisque volatile fcrruni 
Spargilur; arva nova Nrplunia cacde rubescunl. 
Regina in mediis pairio vocat agmina sislro; 

Necdum ctiam geminos a tergo rcspicil angues; 
Omnigcnfìmquc deòin monstre, et lalralor Anuliis, 
Conira Nopluniim, el Venerem, conlraquc Minervam 
Tela lenenl. Sacvil medio in cerlaminc Mavors 
Caelalus ferro, Irislesque ex aelticrc Dirae; 

Et scissa gaudens vadil Discordia palla; 

Quam oum sanguineo sequilur Bellona dagello. 
Aclius haec cernens arcum inlendebal Apollo 
Desuper: omnis eo lerrore Aegyptus, et Indi, 

Omnia Araba, omnes verlebant lerga Sabaei. 

Ipsa videbalur ventis regina vocatis 
Vela dare, et laxos iam iomquc immilli' re funcs. 
Ulani inler carde* paUcnlrm morie futuro 
Fecerat ignipolens undis et lapygc ferri; 

Conira aulem magno mocrrulem corpore Nilum, 
Pandenlemque siuus, cl loia veste vocauleni 
Caerulcum in gremium lalebrosaquc fluniina vicloa. 
Al Caesar, triplici iitvcclus Romana Iriumplio 
Moenia, db llalis votimi immortale sacrabat, 

Maxima tcrcenlum lolarn delubro per Urbem. 
Laelilia ludisque viae plausuque fremebaul; 
Omnibus in leniplis inalrum eborus; omnibus arac; 
Ante aras terram coesi shavcrc iuvenci. 

Ipse, sedens niveo cuudeiilis limine Phoebi, 

Dona rccognoscil populorum, aplalque superbis 
Poslibus: incedunl vicine lungo ordine genles, 
Quam variae linguis, babilu (ani veslis et armis. 

Ilic Noinadum gcnus et discinclos Muleiber Afros, 
llic l.elrgas Carasque sagitliferosque Gelonos 
Finterai; Euphrates ibal iam mollior undis, 
Evtrcmique hominum Morini Rlienusque bicorni*; 
Indomitique Daliae, et ponlcm indignalus Araxes. 
Talia per clipeum Vulcani, dona parenlis, 

Miralur, rerumque ignarus imagine gaudel; 
Allollens Rumerò faniaiuque el fata nepoluui. 



Difesi, quatti quatti erano in cima 
Ciò de la ròcca ascesi. A venti le chiome, 
Avean le barbe d’oro : aveano i sai 
Di lucid’ ostri divisali a liste, 

E d* òr monili a ► bianchi colli avvolti. 

Di forti alpini dardi nvea ciascuno 
Da la destra una coppia, c ne’ pavesi 
Slavati co i corpi rannicchiali e cimisi. 

Quinci de’ Solii c de’ Luperei ignudi, 

E de’ greggi de’ Flamini scolpilo 
V'avea le tresche e i camici e i Iripudii, 

Ed essi lutti o coi lor fiocchi in lesta, 

0 con gli ancili, o con le tibie in mano : 

Cui le sacre carrette ivano appresso 

Coi santi simulacri e con gli arredi. 

Clic tracan per le vie le madri in pompa. 

E piò lunge nel fondo era la bocca 
De la Tartarea tomba, c del gran Dite 
La reggia aperta : ov' anco orati le pene 
E i castighi de gli empii. E quivi appeso 
Slavi tu scellerato Calilina, 

Sopra d’ un ruuioso acuta scoglio 
A gli spaventi de le Furie esposto. 

E scevri eron da questi i fortunali 
Luoghi de* buoni, a cui *1 buon Calo è duce. 
Gonfiava in mezzo una marina d’ oro 
Con la spuma d’ arginilo, c con delfìni 
D’ argentino color, clic con le code 
Givan guizzando, e cou le schiene in arco 
Gli aurati flutti a loco a loco aprendo. 

E i liti c ’l mare e T promontorio tulio 
Si vedea di Lcucalc a l’ Azia pugna 
Slar preparali ; c d una parie Augusto 
Sovra d' un* alta poppa aver d’ itilo/ no 
Europa, Dalia, Roma c i suoi Quiriti, 

K’I Senato e i Penali e i grandi iddìi. 

Di Ire stelle il suo volto era Incelile, 

Due ne facca con gli occhi, ed una sempre 
Del divo padre ne portava in fronte, 

Ne l’ altro corno Agrippa era con lui. 

Del marittimo stuolo invino duce, 
Ch’alierò, e'I capo alteramente adorno 
De la rostrata sua naval corona, 

1 venti e i numi avea fausti e secondi. 

Da 1‘ altra parie vincitore Anlonio 

Di vèr P aurora c di vèr 1* onde rubre 
Barbari aiuli, esterne nazioni 
E diverse armi dal Calaio al Nilo 
Tulio avea seco P Oriente addotto : 

E l' Egizia moglie era con lui. 

Milizia infame. Ambe ic parti mosse 
Se uè glan per urlarsi, c d* ambe il mare 
Scisso da’ remi c da stridenti rostri 
Lacero si vedea, spumoso e gonfio. 
Prcndean de l’alto i legni in Ionia altezza 



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LIBRO OTTAVO 



183 



Clic Cicladi con Cicladi divelle 
Parean nel mar gir a incontrarsi, o'n Icrra 
Monti con monti : di si ralle moli 
Avvenlavan le grilli c foco c ferro, 

Onde il mar ludo era sanguigno c roggio. 
Slava qual Iri la regina in mezzo 
Col patrio sistro, c co’ suoi cenni il molo 
Dava a la pugna: e non vedea (meschina I) 
Quai due colubri le veniali da tergo. 

L’ abbaiatore Anubi c i mostri ludi, 

CIP cran suoi dii, contra Nettuno e conira 
Venere e Palla armali cran con lei. 

E Marie in mezzo, che nel rampo d* oro 
Di ferro era scolpilo, or questi or quelli 
A la zuffa infiammava : c T empie Furie 
Co* lor serpenti, la Discordia pazza 
Col suo squarciato ammanto, con la sferza 
Di sangue tinta la rrudcl Bellona 
Sgoininavan le genti ; c 1* Azio Apollo 
Saettava di sopra : a gli cui strali 
1/ Egillo c gl' Indi e gli Arabi e i Sobri 
Dava» le spalle E già chiamare ì «enti. 
Scioglier le funi, inalberar le vele 
Si vedea la regina a fuggir «òlla. 

Già del pallor de la futura morte, 

Oik!' era dal gran fabbro il vollo aspersa, 
In abbandono a Tonde, e de la Puglia 
Ne giva al vento. Avea d' incontro il Nilo 
Un vasto corpo, die sman ilo c mesto 
Avvinti aperto il seno c steso il manto, 

I latebrosi suoi ridotti offriva. 

Cesare v'era ollln, clic trionfando 
Tre volle in Roma entrava; e per Irerento 
Gran tempii a'nostri dii voli immortali 
Si vedean ronsccrnti. Eran le strade 
Piene tulle di plauso, di letizia, 

E di feste e di giuochi. Ad ogni tempio 
Concorso di matrone, ad ogni altare 
Villimc, incensi c fiori. Egli di Febo 
Anzi al delubro in inaeslade'assiso 
Riconoscca de' popoli i tributi, 

E la candida soglia e lo superbe 
Sue porle ne fregiava. Iva la pompa 
De le genti da lui domate inlanlo 
Varie di gonne, d'idiomi c d'anni. 

Qui di Nomadi e d'Afri era una schiera 
In abito discinta; ivi un drappello 
Di Lclegi, di Cari e di Geloni 
Con archi e strali. Itifin da i liti estremi 
I ftlorini condoni erano al giogo 
E gl'indomiti Dai. Con meno orgoglio 
Giva TEufrale: ambe le corna fiacche 
Portava il Reno: disdegnoso il ponte 
Nel dorso si scolea TArmenio Arasse. 

A tal da lauta madre avuto dono, 



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DELL’ ENEIDE 



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E d'nn lardo macero Enea mirando, 
Benché il velame del futuro occulte 
(Ili tenesse le cose, ardire e speme 
Prese e gioia a vederle; e de'nepoti 
La gloria e i fati a gli omeri s'imposc. 



LIBRO NONO 



Atipie ca diversa ponilu* dum parte gcrunlur, 
Irlm de coelo misi! Saturnia Inno 
Audacem ad Turnurn. Luco tum forte parentis 
Pilumni Turno* sacrata valle scd»*bat 
Ad quem sic ro*co Tliaumantins ore locuta est: 
Torno, quod optanti divtìm promittere nomo 
A u derei, volvenda dies, en, attulit nitro ! 

Acneas, urbe, et soeiis, et classe rclirln, 

Sceplra Palatini sedemque petit Kvnndri. 

Nec salisi extremai Corythi penctravit ad urbe»; 
Lydorumque mnnnm, collectos armai agrcBtcs. 
Quiddubilas? Nunc tempus equos, nunc poscere 

eurrus. 

Rumpc moras omnes. et turbata orripe castra. 

Disi!, et in coclnm paribus se suslulit alis; 
Ingentomque fuga secuit sub niiliibns arcum. 

Agitovi t iuvenis, dnplicesquc ad sidero palmas 
Suslulit, et tali fugientem est voce secuius: 
tri, dccus coeli, quis te niihi nubibus actnm 
Dciulil in terras ? linde linee tam clara repente 
Tempesta»? Medium video discedere coelum. 
Palanlesquc polo stellas. Seqnor omino Ionia, 
Quisquis in arma vocas. Et sic cITalus od undnm 
Processil, sumnioque limisi! de gorghe lymplias, 
Multa deos orans; oncravitque acltiera volis. 



Mentre cosi da' suoi scevro e lontano, 
Enea fa d’armi c di sussidii acquisto, 
ili uno di concitar la furia c l ira 
Di Turno unqua non resta. Erasi Turno, 

Col pcnsier de la guerra al sacro bosco 
Di Pilunno suo padre nllor ridono, 
die mandala da lei di Taumanlc 
fili fu la figlia in colai guisa a dire: 

Ecco, quel che lu mai chiedere a lingua, 

0 ’mpotrar da gli dei, Turno, poiessi, 

Per se l'occasion li porge e ’l tempo. • 
Enea, mentre da gli altri implora aita, 

Le sue mura, i suoi legni e le sue genti 
Lascia ora a le, se lu ’l conosci, in preda, 
Ki co i migliori al Palalino Evandro 

Se ifè passalo, e quindi è tic l’est remo 
Penetrato d’Klruria. Ora è nel campo 
De* Lidi, c favvi indugio, cd arnia agresti. 

E lu qui baili, or che di carri c d’armi 
E di preslesza è d'uopo? E che non prendi 

1 suoi steccati, che sori or di tanto 
Per l'assenza di lui turbati c scemi? 

Poscia che cosi disse, allo su l'ali 
La dea levossi; c Ira l'opachc nubi 

Per entro al suo grand'arco ascese c sparve, 
Turno che la conobbe, ambe alle stelle 
Alza le palme; c nel fuggir con gli occhi 
Soguilla c con la voce: Iri, dicendo. 

Lume e fregio del ciclo, e chi li spiega 
Or da le nubi? E chi qua giù li manda? 
Ond’è l'aer si chiaro c sì tranquillo 
Cosi rcpenlc? lo veggio aprirsi il cielo, 
Vagar le stelle. 0 qual tu de'cclcsli 



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LIBRO NONO 



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lamquc omnis campis exercilus ibat operila, 

Divcs equum, dives piclai veslis el auri. 

Messa pu s primas acics, postrema coèrcent 
Tyrrhidae iuvenes; medio dui ogminc Turnus, 

[ Verlilur orma lenona, el loto vertice supra csl ] 

Ccu septem surgens sedalis omnibus alius 
Per lacilum Gangcs, aul pingui Rumine Nilus 
Quum refluii campis, el iam se condidil alveo. 

Ilic subitarn nigro glomerari polvere nubem 
Prospiciunl Teucri, ac tenebras insurgerc campis. 
Primus ab adversa conclamai mole Caì'cus: 

Quis glnbus, o rives, caligine volvitur atra ? 

Ferie cili fermai, dote tela, scandite murns ! 

Ilostis adesl, eia. Ingenti clamore per omnes 
Condunl se Teucri porlas, el moenia complent. 
Namque ila discedens proeceperal optimus armi» 
Aencas: si qua inlerea Fortuna fuissel, 

Neu slruere auderent aciem, neu credere campo; 
Castra modo el lulos scrvarenl agrore muro». 

Ergo, elsi con Terre manum pudor iraque monslral, 
Obiiciunl portas lamen, el praecepta facessunl, 
Armalique cavia exspeclanl lurribus hoslem. 

Turnus, ut ante volans lardum praecesserat agmen, 
Vigilili leclis equilum comilatus et urbi 
Improiisus adesl: maculis quem Thracius ni bis 
Portai equus, crislaquc legil galea aurea rubra. 
Ecquis crii, mecum, iuvenes, qui primus in lioslcm ? 
En, ail: el iaculum allorquens cmitlit in auras, 
Principium pugnae, el campo scse arduus inferi. 
Clamore excipiunt sorii, fremituque sequuntur 
Ilorrisono; Teucrùm miranlur incrtia corda; 

Non acquo dare se campo, non obvia Terre 

Arma virus, sed castra fovcre. Hoc lurbidus alque bue 

Lustrai equo rnuros, adilumque per avia quacril. 

Ac velini pieno lupus insidiata* ovili 
Quum fremii ad caulas, ventos perpessus et imbres, 
Nude super media; tuli sub malribus agni 
Ralalum exercenl; ille asper et improbus ira 
Sacvil in abscntes; colicela Alligai edendi 
Ei lungo rabics, el siccae sanguine fauces: 
llaud aliler Itatulo, rnuros el castra luenli, 

Igncscunl irac; duris dolor ossibus artici; 

Qua tentet ralione adilus, et quac via clausos 
E.vculial Tcucros vallo, alque cflundal in acquor. 
Classem, quac latori caslroruni adiuncla latebal, 
Aggeribus scptnm circum el fluviaiibus uiulis. 

Invadi!, sociosque incendia* poscil ovantes: 

Alque munum pino flagranti fervidus implcl. 

Tum vero incumbunl; urge! praesentia Turni; 

Alque omnis faeibus pubes accingitur atris. 



Sii, eira Tarmi m'invili; io lieto accetto 
Un tanto augurio, e lo gradisco e ’l seguo. 
Così dicendo, al fiume si rivolse; 

N'attinse; se nc sparse; e preci c voti 
Molle fiale al cicl porse e riporsc. 

Erari già le sue genti a la campagna, 

E de'cavalli il condollicr Messàpo 
Di ricca sopravvcsla ornato c d'oro 
M»vea davanti. I giovani di Tirro 
Tcnean Tuliime squadre, c Turno in meno 
Con tutto il capo a tutta la battaglia 
Soprawanzando, armalo cavalcava 
Per l'ordinanza. In colai guisa i campi 
Primieramente inonda il Gange, o ’l Nilo 
Con sette fiumi; indi ristretta c quelo 
Correndo, entro al suo letto si raccoglie. 

Qui d’improvviso d’un oscuro nembo 
Di polve il cicl ravvilupparsi i Teucri 
Scorgon da lungo, c ’nlorbidarsi i campi. 
Calco il primo da l'avversa mole 
Gridando, 0, disse, cittadini, un gruppo 
\ér noi di polverìo nc laura ondeggia. 
Ognuno a Tarmi; ognun a la muraglia: 

Ecco i nemici. Di ciò corre il grido 
Per tutta la città: cliiuggon le porle: 

Empiuti le mura. Tale avea partendo 
Dato il sagace Enea precetto e nonna, 

Cb’in caso di rottura a campo aperta 
Senza lui non s’ardisse o spiegar schiere, 

0 far conflitto; c solo a la difesa 
S'attendesse del cerchio. Ira c vergogna 
Gli animava a la ruffii; editto e tema 
Gli ritmica del duce. Ond’eolro armati 
Ne le torri, in su'merli c ne'ripari 
Aspettalo i nembi A lento passo 
Procedca l'ordinanza; c Turno a volo 
Con venti eletti cavalieri avanti 
Si spinse, c d’improvviso appresenlossi. 
Cavalcava di Tracia un gran corsiero, 

Di bianche macchie il vario tergo asperso, 

E ‘I suo dorato 6 luminoso elmetto 
D'alto cimier copria cresta vermiglia. 

Qui fermo: dii di voi, giovani, disse, 

Meco sarà conira i nemici il primo? 

E quel ch’era di pugna indizio c segno, 
L'asta a l'aura avventando, alteramente 
Trascorse il campo, ed ingaggiò bullaglia. 
Con alte grida e con orribil voci 
Fremendo lo seguirò i suoi compagni, 

Non senza meraviglia diesi vili 
Fossero i Teucri a non osar del pari 
Uscirgli a fronte, non moslrarsi in campo, 
Ferir da lungo, e di muraglia armarsi. 

Turno di qua di lù turbalo c fiero 
Si spinge, e scorre il piano, e cerchia il muro. 



* 



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DELL* ENEIDE 



Diripuerc focos; pimiro feri tumida lumen 
Tacda, et commixtam Vulcanus ad astra favillarci. 



Quis deus, o Musar, lam saeva incendia Teucris 
Averti! ? tanlos ratibus quis deputi! ignes ? 

Iiicitc. Prisca fides facto, sed fama pcrennis. 

Tempore quo primum Piirygia formabili in Ida 
Acneas classerò, et pelagi potere alla parabai, 

Ipsa dc&m fertur genilrix Berccyntia magnum 
Vocibus bis affala tovcm: Da, naie, petenti, 

Quod tua cara parrns domilo te poscil Olympo. 

Pitica silva mihi, multos dilecta per anno*: 

Lupus in aree fui! summa, quo sacra ferebant, 

Migranti picea Irabibusque obsrurus accrnis: 

Has ego bardanio imeni, quum classis cgercl, 
bacia dedi; nunc sollicitam timor anxius urget. 

Solve melus, alque hoc precibus sinc posse parcntem, 
Ne cursu quassalac ulto neu turbine venti 
Vincaulur. Prosit noslris in montibus ortas. 

Filius buie conira, lorquet qui sidcra mundi: 

0 genctrix, quo fata vocas ? aut quid polis istis ? 
Blorlalinc manu faclac immortale carinae 
Fas babeunt ? ccrtusque incerta pericula Udirci 
Acneas ? Cui tanta dco permissa polestas? 

Immo, ubi defunclac finem porlusquc tenebunl 
Ausonios olim, quaecunque evaseril undis, 
bardaniumque ducem Laurcntia vexerit arva, 

Moriuletn eripiam formam, magnique iubebo 
Acquoiis esse deas: qualis NercTa bolo 
Et Galaica secant spumantem pectore ponlum. 

Divorai: idquc ralum Slygii per ilumiiia fratria, 

Per picc lorrenlcs alraque voragine ripas, 

Adnuil, et nutu lotum tremefecil Olympum. 



E d’entrar s'argomcnla ov’ancbc è chiuso. 
Come rabbioso ed affamalo lupo 
Al pieno ovile insidiando, freme 
La notte, al vento ed a la pioggia esposto; 

Quando sotto le madri i puri agnelli 
Rclan sccuri, ed ei la fame e l'ira 
Incontro a lor, che gli son lungo, accoglie; 
Cosi gli occhi di foco e *1 cor di sdegno 
Il llutulo infiammato, anelo e Doro 
Va de’ nemici agli steccali intorno. 

Ogni loco, ogni astuzia, ogni sentiero 
Investigando, onde o co* suoi vi salga, 

0 lor ne sbuchi, e ne gli tiri al piano. 

Al fin l’ armala assaglie, eh* a' ripari 
Da l’ un canto cotigiunla, entro un canale 
U’ onda e d* argini cinta, era nascosta. 

Qui foco esclama, e foco di sua mano 
Con un ardente pino a’ suoi seguaci 
Dispensa, e lor con la presenza accende : 
Ondo (osto c le faci e i legni appresi. 

Fumo, fiamme, faville c vampi e nubi 
E volumi di pece al ciel li* andaro. 

Bluse, ditene or voi qual nume allora 
Scampò de* Teucri i legni, e come un lanlo 
De la novella Troia incendio estinse. 

Fama di tempo in tempo e prisca fede 
IN' avvera il fallo, e voi conto ne ’l Tate, 
bicon clic quando a navigar coslrello 
Enea primieramente i suoi navilii 
A formar cominciò nel bosco Ideo ; 

D* Ida di Bcrecioto e de gli dei 
La madre, al sommo Giove orando, disse : 
Figlio, che sei per me de I* universo 
Monarca eterno, a me tua cara madre 
Fa quel eli’ io cliieggio, e lu mi devi, onore. 
E nel Gargara giogo un bosco in cima 
Da me diletto, cd al mio nume addillo 
Già di gran tempo. Era d abeti c d’aceri 
E di pini c di peci ombroso c denso : 

Ma quando de l'armata ebbe uopo in prima 
Il giovine Troiano, al magistero 
Volenlicr de suoi legni il concedei. 

Quinci uscir le sue navi ; e come figlie 
Di quella selva, a me son sacre c care 
SI eli’ or nc temo ; c del timor clic n’ aggio 
Priego che m' associmi ; c ’l priego mio 
Questo possa appo a le, che lanlo puoi, 

Clic nè da corso mai, nò da fortuna 
Sian di venti, o di flutti^ c di tempesto 
Squassale o vinte ; e lor vaglia ohe nato 
Son ne' miei monti. A cui Giove rispose : 
Madre, a che stringi i Fati ? E qual, per cui 
Cerchi lu privilegio ? A mortai cosa 
Farò dono immortale ? E mortai uomo 
Non sarà sottoposto a' risolti umani ? 



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LIBRO NONO 



187 



Ergo adorai promissa dies, et tempora Parcae 
Debita complerant: quum Turni iniuria Malrcm 
Admonuil, ratibus sacris depcllere lacdas. 

Hic primum nova lux oculis ofTulsil, et ingens 
Visus ab Aurora coelum transcurrere uimbus, 
Idaeiquc chori; lum vox borrendo per auras 
Excidit, et Trouro Rultilorumque agniino compiei. 
Ne trepidale meas, Teucri, derendere uatea: 

Ne\e armate manus; maria ante cxurere Turno, 
Quam sacras dabitur pinus. Vos ite aolulac, 

Ile, deac pelagi ! Genelrix iubet; et sua quaeque 
Continuo puppcs abrumpunt vincula ripis, 
Delpliinumque modo demersis aequora roslris 
Ima pclunt. (line virgineae ( mirabile monstrum ), 
Quol prius aeratae sleleranl ad lilora prorae, 
Heddunl se tolidem facies, ponloque ferunlur. 



Obslupucre animis Rutuli; contcrrilus ipse 
Turbalis Messapus equis; cunctatur et amnis 
Rauca sonans, revocolquc pedem Tiberinus ab allo. 
Al non audaci cessi! fiducia Turno; 
llltro animos tollit diclis, atque increpat ultro: 
Troianos haec monslra petunt; bis lupitcr ipse 
Auxilium solilum eripuii; non tela, ncque ignes 
Ex speda ni Rululos. Ergo maria invia Teucris, 

Ncc spes ulta fugar; rcrum pars altera adcmta est: 
Terra aulem in nostris manibus; tot millia gentes 
Arma ferunl llalae. Nil me fatalia terreni, 

Si qua Phryges prae se iactant, responsa deorum. 
Sai fatis Venerique dalum, tcligere quod arva 
Fertili* Ausoniae Trocs. Suoi et mea contro 
Fata mihi, ferro scclcratam exseindero gentem, 
Coniuge pracrcplu; ncc solos tangil Atridas 
Iste dolor; solisque licei capere arma Mycenis. 

Scd pcrilsse semel salis est. Peccare fuissel 
Aule satis, pcnilus modo non gcnus onine perosos 
Fcmineum. Quibus hacc medii fiducia valli, 



Eil a qual de gli dei Ionio è permesso ? 

Piti tosto allor clic saran giunte al (ine, 

E che in porlo saranno, a quelle tutte 
Clte scampale da I* onde il Teucro duce 
Avrati ne* campi di Laurento esposto, 

Torrò la mortai forma, e dee farollc, 

Che qual di Néreo e Dolo e Cubica 
Fendali co’ petti c con le braccia il mare. 

Così detto, il torrente c la vorago 
E la squallida ripa e 1* atra pere 
D* Acheronte giurando, abbassò 'I ciglio, 

E fé* tutto tremar col conno il mondo. 

Or questo era quel dì, quest’ era il Uno 
Da le Parche dovuto a i Tourri legni : 

Onde lo madre Idèa conira V oltraggio 
Si fé* di Turno, e gli sottrasse al foro. 
Primieramente inusitata luce 
Balenando rifulse. Indi un gran nembo 
Di Coribanli per lo ciel trascorse 
Di vèr l’Aurora ; ed una voce udissi 
Gir empiè di meraviglia e di spavento 
L’ uno esercito c 1’ altro : 0 miei Troiani, 
Dicendo, non vi caglia a' miei novilii 
Porger soccorso ; nè perciò nel campo 
Uscite a rìschio. Arderà Turno il mare 
Pria che le sacre a ntc dilette navi. 

K voi, mie novi, itene sciolte; e dee 
Siale del mare. Io genitrice vostra 
Lo vi comando. A questa voce in quanto 
Udissi a pena, s* allentar le funi 
De* lor ritegni; c di delfini in guisa 
Co i rostri si lufTaro. Indi sorgendo 
( Mirabil mostro ! ) quante a riva in prima 
Eran le navi, tante di donzelle 
Si vider per lo mar sereni aspetti. 

Sgomentanti i Rutuli; e Messàpo 
Co* suoi cavalli attonito fermossi. 

Il padre Tibcriu roco mugghiando 
Dal mar fuggissi. Nè perciò di Turno 
Cessò I’ audacia, anzi via più feroce. 

Gli altri esortando e riprendendo, Ah, disse. 
Di che temete ? Incontro a i Teucri stessi 
Vengon questi prodigii; e loro ha Giove 
De le lor forze esausti. Il ferro e *1 fuoco 
Non aspellan de* Rululi : han del maro 
Perduta e de la fuga ogni speranza. 

Essi del mare infino a qui son privi ; 

E la terra è per noi : tante son genti 
D' Italia in arme. Nè lem' io de* vanti 
Che de’ lor vaticinii e de’ lor fati 
Da lor sì dànno. Assai de' Tati, assai 
È l’ intento di Venere adempito, 

Che son nel Lazio. E ’nconlro a i futi loro 
Son anco i miei, clic lor del Lazio iodeggia, 
Anzi del mondo questi scellerati, 



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DELL' ENEIDE 



18S 



Fossarumquc inorar, Ioli discrimina parva, 

Daul anintos. Al non viderunt inocnia Troiuc 
Arpioni fu brini In marni considero in ignes? 

Sod vo.% o lodi, ferro quis scindere valium 
Apparai, et mcrum invadil iropidanlia castra ? 

Non armis milii Vulcani, non mille carini* 

Est opus iu Teucros. Addant se protenus omnos 
Finisci socio*. Tenebras cl inerita furia 
| Palladii, caesis summac rustodibus aicis) 

Ne limoanl; nec equi cacca condemur iu alvo, 

Luce, paloni, corlum osi igni ci re umd a re inuros. 

I lami .-ibi rum Danais rein favo d pube Pelasga 
Esse piitent, dccinium quos dislulil llcclor in annum. 
None adco, melior quoniam pars acla dici, 

Quod superesl, Indi bone geslis corpora rebus 
Procurale, viri, el pugnain sperale parali, 
lulerea vigilimi cxcubiis obsidcre porlas 
fura dalur HI essa po, ol moenia cingere llammis. 

Ilis seplcm, Rullilo muro* qui milite ameni, 

Deledi; ast illos ccnleni quemque sequuuiur 
Purpurei crislis iuvenes auroque corusei. 

Disdimmi, varianlquc vice», fnsique per licrbam 
Imlulgeut vino, d verlunt craleras acnos. 

Collucenl ignes: nodem custodia ducil 
lusonmeni ludo. 

Ilare super e vallo prospeclanl Troes, el armis 
Alla lenoni: ncc'non trepidi formidiuc porlas 
Fxploraul, poulesque et propugnando iungtinl, 

Tela gerunt. Inslanl Mneslhcus acerquc Scrcstus: 

Quos pater Aenras, si quando ndversa vocarent, 
lleclores iuvenum et rerum dedii esse magislros. 
Omnis per muros legio, sortila pcriclum, 

Excubal, exereelque ficea, quoti cuique luendum csl. 



De Palimi donne usurpatori e drudi : 

Gilè obli solo gli Atridi, c non solo Argo 
N*hon duolo e sdegno. Oli ! basta ch'uni volta 
Ne son periti. SI, se lor bastasse 
D' aver in ciò sol una volta erralo. 

Nuovo error, nuova pena. Or non aranuo 
Ornai quest* infelici in odio afTallo 
Le donne tutte, a (al di già condoni, 

Clic non bau de la vita altra fidanza, 

K questo poco e debile steccalo 
Clic da lor ne divide ? E (auto a pena 
Son lungc dal morir, quanto s* indugia 
A varcar questa fossa. In ciò riposto 
llan la speme e l'ardire. 0 non bau visto 
Le mura anco di Troia, che costrutto 
Pur per man di Nettuno, a terra sparso 
E ’n cenere converse ? Ma chi meco 
Di voi, guerrieri eletti, i che s' accinga 
D’ assalir queste mura e queste genti 
G*à di paura offese ? A me lor conlra 
l>* uopo non son nc Farmi di Vulcano, 

Nè mille navi. E vengane pur tutta 
L* Elruria insieme. E non furtivamente, 

Pi non di notte, coinè fanno i vili, 

Il Palladio involando, e de la ròcca 
I custodi uccidendo, assalirgli ; 

Nè del cavallo ne P oscuro ventre 
Mi appiatterò. Di giorno apertamente 
I)' armi e di foco ringerogli iu guisa 
Ch* altro lor sembri, ebe garzoni e cerne 
Aver di Greci c di Pelasgi intorno, 

Di cui P assedio inlino al decim' anno 
Eltor sostenne. Or poscia clic del giorno 
S* è buona parte inaino a qui pas-ala 
Felicemente, il resto che n* avanza 
Attendete a posarvi e ristorarvi, 

A disporvi a P assalto; e ne sperale 
Lieto successo. Indi a Mcssàpo incarco 
Si dà, che sentinelle e guardie e fochi 
Disponga anzi a le porle e 'nlorno al muro. 

Ei selle e selle capitani egregi, 

Hululi lutti, a quest* impresa elesse, 

Con cento che n* avea ciascuno appresso 
Di purpurei cimieri ornali c d* oro. 

Questi, le mule variando c Poro, 

Scorrevano a vicenda ; e ’ntorno a* fochi 
Desti in su V erbe, infra le lazze c V urne 
Traean la notte in gozzoviglie e ‘n giuochi. 
Slavano i Teucri il campo rimirando 
Da la muraglia ; e per timore armali 
Visitavan le porle, e ’n su' ripari 
Pacean bertesche e sferraloie c ponti. 

Era Mneslco lor sopra e 'I buon Sereslo, 

Che fur dal padre Enea nel suo partire 
A guerreggiar, se guerra si rompesse, 



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A 



LIBRO NONO 



180 



Nisus crai porlac cuslos, accrrimus armis, 
llyrlacides; comilem Aencae quem miserai Ida 
Venatrix, iaculo cclcrcm ievibusque sagiliis: 

£l iuxta comcs Euryalus, quo pulchrior allcr 
Non fuit Aeneadtim, Troiana ncque induil arma; 

Ora pucr prima signans intonsa iuvcnla. 

His amor unus croi, pariicrque in bella ruebonl; 

Tum quoque communi portam stallone tenebanl. 
Nisus ail: Dine hunc ardorem mcnlibus addimi, 
Euryatc, an sua cuìque deus (il dira cupido ? 

Ani pugnam aut aliquid iamdudum invadere magnum 
Mcns agitai mihi; nec placida contenta quiete est. 
Cernis, quae Rutulos habcal fiducia rerum. 

Lumina rara micant; sonino vinoque scpulli 
Procubucrc; silent late loca. Percipe porro, 

Quid dubitem, et quae nunc animo sententia sorgo!. 
Aencan occiri omnes, populusqiie patresque, 
Exposcunl, miltìque viros, qui certa rcporlent. 

Si t'bi, quae posco, promittunt, (narri mihi facli 
Fama sai est); tumulo videor reperire sub ilio 
Posse viam ad muros et mocnia Pallantea. 

Obslupuil magno taudum pcrcussus amore 
Euryalus; simul bis ardentem afTatur amicum: 

Mene igilur socium summis adiungere rebus, 

Nise, fugis ? solum le in tanta pericula mitlam ? 

Non ita me genitor, bcllis assuelus, Ophelles, 
Argolicum tcrrorem inter Troiacquc lubores 
Sublalum erudii!: nec lecum (alia gessi, 

Magnanimum Aenean et Tata extrema sccutus. 

Est bic, est animus lucis contemlor, et istuni 
Qui vita bene credal emi, quo (endis, honorem. 

Nisus od liacc: Equidcm de tc nil tale vcrebar; 

Nec fas; non. Ila me rererat libi magnus ovantem 
Iupiter, aut quicunquc oculis hacc adspirit aequis. 
Scd si quis (quae multa vides discrìmine tali), 

Si quis in adversum rapini casnsve deusve, 

To supercsse velim; tua vita dignior oetas. 

Sii, qui me raptum pugna, prclioTe rcdemtum, 
Mandcl burno solita; aut si qua id Fortuna vetabit, 
Absenli feral inrerias, decorclque sepulcro. 

Neu mairi miserac tanti sim cSussa doloris: 

Quae te, sola, pucr, raultis e malribus ausa, 
Persequilur, magni nec mocnia curat Acestae. 
file autem: Caussas nequidquam ncclis inancs, 

Ncc mea iam mutala loco sententia cedit. 
Acccleremus, ait. Vigile* simul cxcital. liti 
Succedunt, servantque viccs; stalione rclicla 
Jpsc comcs Niso graditur, regemque requirunt. 



Vi ne i no voi. ciuco. 



Per condollieri c per macslri eletti. 

Già sulle mura, ovunque o da periglio, 

0 da la voce eran disposti, ognuno 
Tcnca il suo luogo. 

Un de’ più fieri in arme, 
Niso d* (rtaco il figlio, ad una porta 
Era preposto. Da le cacce d’ Ida 
Venne costui mandato al Troian duce, 

Gran feritor di dardi c di saette. 

Eurìalo era seco, un giovinetto 

Il più bello, il più gaio c *1 più leggiadro, 

Che nel campo Troiano arme vestisse, ; 

Gli' a pena avea la rugiadosa guancia 
Dei primo fior di gioventute aspersa. 

Era tra questi due solo un amore 
Ed un volere ; e nel meslier de V ormi 
L'un sempre era con l'altro, ed ambi insieme 
Stavano attor veggliiando a la difesa 
Di quella porta. Disse Niso in prima : 
Eurìalo, io non so se Dio mi forza 
A seguir quel eli* io penso o se *! pensiero 
Stesso di noi fassi a noi forza c Dio. 

Un desiderio ardente il cor m* invoglia 
D* uscire a campo, c far conira i nemici 
Un qualche degno c mcmorabil fatto : 

Sì di star pigro c neghittoso abborro. 

Tu vedi là come sccuri ed ebbri 
E sonnacchiosi i Rutuli si stanno 
Con rari fochi e gran silenzio intorno. 
L’occasione è bella, ed io son fermo 
Di porla in uso : or in qual modo, ascolta. 
Asconio, i consiglieri e'I popol lutto, 

Per richiamare Enea, per avvisarlo, 

E per avvisi riportar da lui, 

Cercati messaggi, lo, quando a te promesso 
Premio ne sia ( eh' a me la fama sola 
Basta del fallo ) di poter m’ affido 
Lungo a quel colle investigar sentiero, 

Onde a Palladio a ritrovarlo io vada 
Securamentc. Eurìalo a tal dire 
Stupissi in prima ; indi d' amore acceso 
Di tanta lode, al suo diletto amico 
Cosi rispose : Adunque ne l’ imprese 
Di momento e d' onore io da te, Niso, 

Son cosi rifiutato ? E te poss' io 
Lassar sì solo a si gran rischio andare ? 

A me non diè questa creanza Oreltc 
Min genitore, il cui valor moslrossi 
Ne gli affanni di Troia, c nel terrore 
De l’Argolica guerra. Ed io tal saggio 
Non f ho dato di me, lece seguendo 
li duro fato e la fortuna avversa 
Del magnanimo Enea. Questo mio coro 
É spregiatore, è spregiatore aneli’ egli 
Di questa vita, e degnamente spesa 
25 



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IOO 



DELI' ENEIDE 



Celerà per lerras omnes animali» somno 
Laxabanl curas cl cordo oblila labornm: 

Duclores TeucrAm primi, delecla iuventus, 

Consilinm summis regni de rebus habebanl, 

Quid facerenl, quisvu Acneae ioni nunlius ossei; 
Stani iongis adniii hostis, el scula lencnles, 
Caslroruin el campi medio. Tum Nisus et una 
Euryalus confcslim alacre? admillicr oranl; 

Rem magnani, pretiumque morse foro. Primus lulus 
Accepil,lrepidos, ac Nisum dicere iussit. 

Tum sic Ilyrlacides: Nudile o menlibus aequis, 
Acneadae, nere haec noslris speclentur ab annis, 
Quae ferimus. Ruttili somno tinoque soluli 
Coniicuere; locum insidiis conspcximus ìpsi, 

Qui palei in bivio porlae, quae proxima pomo; 
Inlcrrupli ignes, alerque ad sidera fumus 
Erigilur; si Fortuna pcrmitlilis uti, 

Quaesilum Aencan ad moenia Pallantca 
Mot hic cum spoliis, ingenti caede persela, 

Afrore ccrnelis. Nec nos via fallii eunles; 

Vidimus obscuris primam sub valli bus urbcm 
Venalu assiduo et totum engnovimus amnem. 

Hic annis gravis alque animi maturus Aleles: 

Di pairii, quorum seinper sub numine Troia est. 

Non (amen omnino Teucros delerc paralis, 



La tiene allnr die gloria se ne merchi, 

E quel die cerchi ed a me nieghi, onore. 
Soggiunse Niso : altro di le concetto 
Non ebbi io mai, ni tal sci tu eh' io deggia 
Averlo in altra guisa. Cosi Giove 
Vittorioso mi ti renda e lido 
Da questa impresa, o qual alleo sia nume 
Clic propizio e benigno ne si mostri. 

Ma se per caso o per desiino avverso 
( Come sovente in questi rischi avviene ) 
io vi perissi, il mio contento in questo 
È elle lu viva, si porcili di vita 
Son più degni i tuoi giorni, e >1 perch'io 
Aggia chi dopo me, se non con I 1 arme, 
Almen con l' oro il mio corpo ricovre, 

E lo ricopra. E s" ancor ciò m’ è tolto, 

A I fi n sia chi d' esequie c di sepolcro 
Lontan m' onori. Oltre di ciò, cagione 
Esser non deggio a tua madre infelice 
D‘ un dolor tanto : a tua madre clic sola 
Di tante donne ha di seguirli osalo, 

I comodi spregiando e ia quiete 
De la città d' Accstc. A ciò di nuoio 
F.urialo rispose : Indarno adduci 
SI vane scuse ; ed io già fermo e saldo 
Nel proposito mio pensier non muto. 
AfTrelliamci a l' impresa. E, così detto, 
Destò le sentinelle, e le ripose 
In vece loro ; c I' uno e l' altro insieme 
Se ne partirò, e ne la reggia andaro. 

Tutti gli altri animati avean dormendo 
Sovra la terra oblio, tregua e riposo 
Da le fatiche e dagli affanni loro. 

1 Teucri condottieri e gli altri eletti, 

Clie de la guerra avean l' imperlo c 'I carco 
S' erano c de la guerra e de la somma 
Di lutto T regno a consigliar ristretti ; 

E nel mezzo del campo altri a gli scudi. 
Altri a Faste appoggiati, avean consulta 
Di che far si dovesse, e ehi per messo 
Ad Enea si mandasse. I due compagni 
D‘ essere ammessi e ’ncontanentc uditi 
Feccr gran ressa, e di poter sembiante 
Cosa di gran momento, c di gran danno 
Se s’ indugiasse. A Questa fretta il primo 
Si fece Ascanio avanti ; e vólto a Niso 
Comandò che dicesse. Egli altamente 
Parlando incominciò : Troiani, udite 
Discretamente : e quel che si propone 
E si dice da noi, non misurate 
Da gli anni nostri. I Ruttili sepolti 
Se ne stan da la crapula c dal sonno ; 

E noi stessi appostalo avemo un loco 
Da quella porla che riguarda al mare, 

Atto a le nostre insidie, ove la strada 



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LIBItO NONO 



191 



Quum tiiles animos iuvenum et Iam corta tulìblis 
Declora. Sic memorans, liumeros deilrasque lenebai 
Amborum, et vullum lacrimi» atque ora rigabai: 
Quae vobis, quac digna, viri, prò laodibus islis 
Pracmia posse rcar solvi ? Pulcherrima primum 
1)1 tnoresque dabunl veslri: tum celerà reddel 
Actutum pius Aencas, atque inlegcr oevi 
Ascanius, meriti tanti non immemor unquam. 

Immo ego vos, cui solo salus genitore reducto, 
Excipit Ascanius, per magnos, Nise, Pcnates, 
Assaraciquc Larefn, ei canae penetrali.! Yeslae 
Obtestor (quaccunquc mihi fortuna fidesque est, 

In vcslris pono gremiis): revocale parcnlem, 

Ilcddile conspeclum; mini ilio triste receplo. 
liina dabo argento perfecta atque aspera signis 
Pocula, devicta genilor quae cepit A rialto; 

Et tripodas geminos, suri duo magna talenta; 

Cratera antiquum. quem dal Sidonia Dido. 

Si vero capere Italiani sceptrisquc potiri 
Conligerit victori, et praedae ducere sortem: 

Vidisti, quo Turnus equo, quibus ibat in armis 
Aureus; ipsum illum, clipeum cristasque rubcnlcs 
Excipiam sorti, iam nunc tua proemia, Nise; 

Praelcrca bis sex gcnltor lectissima matrum 
Porpora, caplivosque dabil, suaque omnibus arma, 
Insuper bis, campi quod rev habet ipse Lalinus. 

Te vero, mea quem spatiis propiorìbus netas 
Insequilur, venerande pucr, iam pectore loto 
Accipio, et coinitem casus compleclor in omnes. 

Nulla mcis sinc le qiiaerelur gloria rebus; 

Seu pacem scu bella gcrain; libi maxima rerum 
Vcrborumque fides. Conira quem talia fatur 
Kuryalus: Me nulla dies tam fortibus ausis 
Dissimilem arguerìl; tantum: Fortuna sccunda 
Aul adversa cadal. Sed le super omnia dona 
Unum oro: gcnetrix Priami de gente vetusta 
Est mihi, quam miserami lenuit non llia tellus 
Mecum excedcntem, non moenia regis Arestac. 
liane ego nunc ignaram huius quodcunqnc perieli est 
Inquc salutatam linquo; Nox et tua lestis 
Devierà, quod ncqucam Incrimos perferre parenti». 

Al tu, oro, solare inopem, et succurre relictac. 
liane sine me spem ferro lui: audentior ibo 
In casus omnes. Percossa mente dederunl 
Dardanidae lacrima»; ante omnes pulclter lulus; 

Atque animum palriac strinsi ( pictatis imago. 

Tum sic effatur: 

Spondeo digna luis ingcnlibus omnia coeplis 
Namque crii isla mihi genctrix, nomcnqoe Creusac 
Solum dcfucrit, ncc partum grafia totem 
Parva mane!. Casus factum quicunque sequentur: 

Per caput hoc iuro, per quod pater ante solebai: 

Quae libi polliceor reduci, rebusque secundis, 

Hacc eadem matrique* tuae gcncriquc mancbunl. 

Sic ait illacrimans; huroero simul cxuit cnsem 



Più larga in due si parie. Intorno al campo 
Sono i fochi interrotti : il fumo oscuro 
Sorge a le stelle. Se da voi n’ è dato 
D’ usar questa fortuna, c quest’ onore 
Ne si fa di mandarne al nostro duce ; 

Al Pallantéo n* andremo, e ne vedrete 
Assai tosto tornar carchi di spoglie 
De gli avversari nostri, e tutti aspersi 
Del sangue loro. E non fia che la strada 
Nc gabbi : chè più volle qui d’intorno 
Cacciando, avemo e tutta questa valle 
E lutto il fiume attraversato e scorso. 

Qui d’anni grave e di pcnsier maturo 
Alcte al cicl rivolto, 0 pairii dii, 

Disse esclamando, il cui nume fu sempre 
Propizio a Troia, pur del tutto spenta 
Non volete che sia mercè di voi, 

Poscia che questo ardire e questi cori 
Ne’ petti a’ nostri giovani ponete. 

E stringendo le man. gli omeri c ’l cotto 
Or de l’ uno or de l’ altro, ambi onorava, 

Di dolcezza piangendo. E qual, dicea, 

Qual, gcnorosi figli, a voi darassi 

Di voi degna mercede? Iddio , cb’è il primo 

De gli uomini e supremo guiderdone, 

E la vostra virtù premio a sè stessa 
S o primamente. Enea poscia useravvi 
Sua largitale, e questo giovinetto 
Che d’un tal vostro morto avrà mai sempre 
Dolce ricordo. Anzi io, soggiunse luto, 

Che, senza il padre mio, la mia salute 
Veggio in periglio, per gli dei Penati, 

Per la casa d’Asséraco, per quanto 
Dovete al sacro e venerabil nume 
De la gran Vesta ( ogni fortuna mia 
Ponendo, ogni mio affare in grembo a voi ) 
VI prego a rivocare il padre mio. 

Fate ch’io lo riveggia; c nulla poi 
Sarà di ch’io più tema. E già vi dono 
Due gran vasi d’argento, che scolpiti 
Sono a figure; un dc’più ricchi arnesi 
Che del sacco d’Arisba in preda avesse 
Il padre mio; due tripodi; due d’oro 
Maggior talenti, cd un (azione antico 
De la Sidonia Dido. E se n’è dato 
Tener d’Italia il destato regno, 

E che preda sortirne unqua mi tocchi, 

Quello stesso deslrier, quelle stesse armi 
Guarnite d’oro, onde va Turno altero, 

E quel suo scudo, e quel cimier sanguigno 
Sottrarrò da la sorte; e di già Niso, 

Gli li consegno; c li prometto in nome 
Del padre mio, che largiralti ancora 
Dodici fra mill’allri delti corpi 
Di bellissime donne, c dodici altri 



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192 



DELL’ ENEIDE 



Aur.iluiu, mira quem feeeral allo i;raon 
(ìmtsins, alquc liabilom vagina aplar.il diurna. 

Dal Niso Mneslheus pollcm liorrcnlisqiic leonis 
Evuvias; galcam fidus perinulal Aiolo*. 

Protenns armali incedimi: quus immis ornilo* 
Prlmorum manna ad porla* iuienumqnc scnumqiic 
Prosequilur votis. Noe non cl pulclier ili in., 

Aulo anno* onimtimquc gerens ouramque virilern. 
Multa patri mandala dabal portami*. Scd aurae 
Oinnia disccrpunl, cl nubibus irrita donarli. 



. Di giovani prigioni, c l'armi loro 
Con essi insieme, e di Lalino slesso 
l.a regia villa. Or le, mio venerando 
Fanciullo, abbraccio, a gli cui giorni i miei 
Van più vicini, lo le con lutto il core 
Accetto per compagno c por Ira le I lo 
In ogni caso; c nulla o gloria o gioia 
Procurcrommi in pace unqua od in guerra. 
Che non sii meco d'ngni mio pensiero 
E d’ogni ben partecipe c consorle; 

E ne le lue parole e ne' tuoi falli 
Somma speme avrò sempre e somma fede. 
Eurialo rispose: 0 fera, o mito 
Che forluna mi sia, non sarà mai 
Ch'io discordi da me: mai non uguale 
Lo mio cor non vedrassi a questa impresa: 
Ma sopra a gli altri tuoi promessi doni 
Questo solo bram'lo. La madre mia 
Che dal ceppo di Priamo è discesa, 

E che per me seguire ha, la meschina I 
Non pur di Troia abbandonalo il nido, 

Ma 'I ricovro d'Acesle, c la sua vita 
Slcssa ( a tanti per me l'ha rischi esposta ) 
Di qucslo mio periglio, qual eli' ei sia, 

Nulla ha notizia; cd io da lei mi parlo 
Senza clic la saluti, e che la veggia. 

Per questa man, per questa nolle io giuro, 

J Signor, che nè vederla, nè la picla 
Soffrir de le sue lagrime non posso. 

Tu questa derelitta poverella 
Consola, le ne priego, e la sovvieni 
In vece mia. Se lu di ciò m'sflldi, 

Andrò con questa speme ad ogni rischio 
Con più baldanza. Si commosser lutti 
A lai parole, c lagrimaro i Teucri; 

E più di lulli Ascanio, a cui sovvenne 
De la pietà ch’ebbe suo padre al padre; 

E disse al giovincllo: Io mi li lego 
Per fede a tulio ciò che la grandezza 
Di questa impresa c 'I tuo valor richiede. 

E perchè mia sia la lua madre, il nome 
Sol di Crei) sa, nuH’altro le manca. 

Nè di picciolo merlo è ch'un lai figlio 
N’aggia prudono; segua che che sia 
Di questo fallo. Ed io per lo mio capo 
Ti giuro, per lo qual solca pur dianzi 
Giurar mio padre, cli'a la madre lua, 

A tutta la lua stirpe si daranno 
I doni slessi che serbar mi giova 
Pur a le nel felice luo ritorno. 

Cosi disse piangendo; c la sua spada, 

Clic di mau di Licàonc guarnito 
Avea d'avorio il fodro, c l’elsa d’oro, 
Dislaccossi dal fianco, e lui ne cinse. 

Mncstco al tergo di Niso un (ergo impose 



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LIBRO «orso 



193 



Egressi superarli fossas, noclisque per umbram 
Castra inimica pelunl, mullis tamen anle futuri 
Exilio. Passim somno vinoque per licrbam 
Corpora fusa videnl, arrcclos lilore currus, 
fnter lora rolasque viros, sirnul arma tacere, 

Yina sirnul. Prior lljrrtacidcs sic ore loculus: 

Euryalc, audendum dcxlra. Nunc ipsa vocat rcs. 

Uac iler est. Tu, nc qua manus se allollcrc nobis 
A tergo possit, custodi, et consulc lungo. 

Haec ego vasta dabu, et lato te limite ducam. 

Sic memorai, vocemque prendi; simili cnsc suporbum 
Rbamnetcm aggreditur, qui forte lapelibus allis 
Exstruclus loto profiabal pectore somnum; 

Bei idem, et regi Turno gralissimus auguri 
Sed non augurio potuil depellere pesiere. 

Trcs iuxta famulos temere intcr tela iacenlcs, 
Armigerumquc Remi premi!, aurigamque sub ipsis 
Cactus equi*; ferroque secai pcndenlia colla. 

Tum caput ipsi aufert domino, truncumquc rclinquit 
Sanguine singultantcm; atro tepefucta cruore 
Terra torique madent. Ncc non Lamyrumque La- 

mumque, 

Et iuvenom Serranum, illa qui plurima nocte 
Luserat, itisignrs facie, mulloquc iacebat 
Membra dco victus; felix, si proleous illuni 
Aequasset noeti ludum, in luccmque tutissct. 

Impastila ceu piena leo per ovilia lurbans; 

Suadel cnim vesana fames; mandilque Iraliitquc 
Molle pccus mulumque inelu; fremii ore cruento: 

Nec minor Euryali caedes: incensila ci ipsc 
Perfurit; ac multam in medio sine nomine plcbcin, 
Fadumquo, Ucrbesumquc subii, lUioetumquc, Aba- 

rimque, 

Ignaros; Rhoclum vigilantcm, et cuncla videnlcm; 

Sed magnum mcluens se post cratcra tcgebal: 

Pectore in adverso lotum cui comminus unsero 
Condidit assurgenti, et multa morte recepii 
Purpurcum: vomii illc animam, et cum sanguine mista 
N ina refcrl moriens: hic furto fervidus instai, 
tamque ad Mcssapi socios tendebat, ubi ignem 
Dcficere extremum, et religalos rite videbat 
Carperò gramen cquos: brcviier quum lalia Nisus 
(Scnsil enim nimia caede atque cupidine ferri) 



I Di villoso leone; c 1 fido Alclc 

Gli scambiò l'elmo. Così tosto armati 
Se n’uscir de la reggia; e i primi tulli 
Giovani e vecchi in vece d'onoranza 
j Fino a la porla con prcconii e voti 
Gli accompagnaro. Il giovinetto Inlo 
Con viril cura c con pensicr maturi 
Innanzi agli anni, ragionando in mezzo 
Giva d'cnlrambi; ed or l'uno ed or l'altro 
Mollo avvertendo, molle cose a dire 
Mandava al padre: le quai lutto al vento 
Furon commesse, c dissipale a l'auro. 

Escono al fine. E già varcalo il fosso, 

Da le notturne tenebre coverti 
Si mcllon per la via che gli conduce 
Al campo de'ncmici, anzi a la morte. 

Ma non morranno, clic macello c strage 
Faran di molli in prima. Ovunque vanno 
Veggion corpi di genti, che sepolti 
Son dal sonno c dal vino. I curri vóti 
Con ruote e briglie intorno, uomini cd otri 
E tazze c scudi in un miscuglio avvolti. 
Disse d'irlaco il figlio: Or qui bisogna, 
Eurialo, aver core, oprar le mani, 

E conoscere ìl tempo. Il cammin nostro 
È per di qua. Tu qui ti ferma, c l'occhio 
Gira per tutto, che non sia da tergo 
Chi n'impedisca; cd io tosto col ferro 
Sgombrerò 'I passo, c l'aprirò ’l sentiero. 
Ciò cheto disse* Indi Rannctc assalse , 

Il superbo Rannctc, che per sorte 
Entro una sua trabacca avanti a lui 
In si* tappeti a grand'agio dormìa, 

E russava altamente. Era costui 
Al re Turno gratissimo, ed anch’egli 
Regc e indovino; ma non seppe il folle 
Indovinar quel ch'a lui slesso avvenne. 

Tre suoi famigli, che dormendo appresso 
Giaccan fra l'armi rovesciati a caso, 

Tutti in un mucchio uccise, ed un valletto 
Ch'era di Remo, c sotto i suoi cavalli 
Lo stesso auriga. A costui trasse un colpo 
Che gli mandò giù ciondolone il collo: 

Indi al padron di netto lo ricino 
Sì, che 'I sangue spicciando d'ogni vena, 

La terra, lo stramazzo c 'I desco intrise. 
Lamiro cstinse dopo questi c Larno, 

E '1 giovine Serrano. Un bel garzone 
Era costui, gran giocatore, e ’n gioco 
Insino allora nvea sempre veglialo. 

Felice lui per lo suo vizio stesso, 

Se giocato c perduto ancora avesse 
Tutta la notici Era a veder tra loro 
Il fiero Niso, qual, da lame spinto, 

Non pasciuto Icone, un picco ovile 



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DELL' ENEIDE 



191 



Absistamus, ait; nani lui inimica propinqua!. 
Pocuarum eihausluin salii esl; via racla per husles. 
Multa virflm solido argento perfeela relinquunl 
Armaque, cralcrasquc simili, pulclirosque lapelas. 
Eoryalns plialeras Rliamnrlis et aurea bulli» 

Cingala, Tiburli llemulo dilissimus olim 
Quac niitlit dona, liospilio quum iungerelabscns, 
Cacdicus; lite suo morien* dal habcrc in poli; 

[ Posi inorleni bello Rullili puguaque pelili ]: 

Jlaec rapii, alque humeris nequidquani fortibus apiat 
Tuni galeam Messapi habilem crislisque decoram 
induil. Eircdunl castri», et luta capcssunt 



Interca praemissi equites ex urbe Latina, ~ 

r.clera dom legio campi» inaimela moralur, 

Ibanl, et Turno regi responso ferebant, 

Tercenlum, sculali omnes, Volscenlc magislro. 
lamque proplnquabanl castri», niuroque subibant, 
Quum procul lios larvo llectcìilcs limile cernunl; 

El galea Euryalum subluslri nodi» in umbra 
Prodidii immemorem, radiisque adversa refulsil. 

Hauti temere esl visum. Conclamai ab agminc Volsecns: 



Imbelle e per Umor già mulo assaglie, 

Clic d'unghie armalo, c sanguinoso il dcnlc 
Traendo c divorando ancidc e rogge. 

Nè fe’slragc minor da l'altro canlo 
EurValo, ch'acceso c furioso 
Tra molla plebe molli sema nome, 

E quasi sema vita a morte Irasse; 

SI dal sonno erari violi: e de'nomati 
Uccise Erboso, Fndo, Abari c Reio. 

Onesto Reto era desio: onde reggendo 
Con la mnrlc de gli altri il suo periglio, 

Per la paura appo d'un'urna ascoso 
Quatto e quelo si slava. Indi sorgendo 
Gli fu T giovine sopra, c ’l ferro lutto 
Entro al peno gl'immcrsc , c con gran parie 
De la sua vita indietro lo ritrasse; 

SI clic Ira'l vino e’I sangue, ond'era involta. 
Gli usci l'alma di porpora vestila. 

Con questa occasìon di buia none 
E di furtivo agguato, il buon gorzonc 
Fervidamente instava. E già rivolto 
S’era contro la schiera di Mcssàpo, 

Là’ve 'I foco velica del tulio estinlo, 

E là 're i suoi cavalli a la campagna 
Pasccan legali; allor clic Niso il vide 
Clic da l'occisione c da l'ardore 
Trasporlar si lasciava. E brevemente, 

Non più, gli disse, chè’l nimico sole 
Ne sorge incontra. Assai di sangue ostile 
Fin qui s'è sparso; assai di largo avemo. 
Moll'armi, moll'argenli c molfarnesi 
Casinaro in dietro. I guarnimenti soli 
Del cavai di Hanucte c le sue borchie 
Euriato si prese, con un cinto 
Rollalo d'oro, un prezioso dono 
Clic Cedieo, un ricchissimo tiranno 
A Remolo Tiburlc ospite assente 
Fece in quel tempo. Remolo al nipote 
Lo lasciò per Telaggio: e questi in guerra 
Nc fu poscia da’ Rutuli spoglialo: 

Quinci gli ebbe Rannelc, c quinci preda 
Fur d'Eurialo al line: egli gravonne 
I farli omeri indarno. Appresso in capo 
S'adallA di Mcssàpo un lucid'clmo 
D'allo cimiero adorno; e 'n questa guisa 
Se nc parlian vittoriosi e salvi. 

Intanto di Uurcnlo cren le schiere 
Uscite a campo, e i lor cavalli avanti 
Prcrorrcau l'ordinanza, cd al re Turno 
Nc porlavano avviso. Eran trecento 
Tutti di scudo armati; e capo c guida 
N'ora Votante. Già vicini al campo 
Scorgean le mura; quando fuor di strada 
Videro da man manca i due compagni 
Tener sentiero obliquo. Era un barlume 



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LIBRO NOMO 



495 



Sialo, viri; quae caussa viac ? quive cstis in artnis ? 
Quove tenclis iter? Nitrii illi tendere contro; 

Scd celcrare fugam in silvos, et fiderò nodi. 

Obiiciunt equiles sese ad divortia noia 

Hinc alquc Itine, otnnemqnc abilitili custode coronanl. 

Silva fuit, late dumis atque ilice nigra 

Horrida, quatn densi romplcrant undiqne sentes; 

Rara per occulto* lucebai semila callcs. 

Euryalum tenebrae ramorum onerosaque praeda 
Impediunt, fallilque timor regione viarum. 

Nisus abil: iamque imprudens evasero! hosles, 

Alque locos, qui post Albae de nomine dirli 
Albani: lum rex stabula alla Latinus habebat. 

Ut sletit, et frustra abscntem respexit amicum: 
Euryalc, infelix qua le regione reliqui 7 
Quave seqnar, rursus pcrplexum iter omne revolvcns 
Kullacis -.iliae ? simili et vestigio retro 
Observata legil, dumisque silentibus errai. 

Audii cquos, audii slrcpilus et sigila sequentum. 

Nec longum in medio lempus: quutn clamor ad aure* 
Pervenil, ac videi Euryalum; quem iam manus omnia 
Fraudo loci et noclis, subito turbante lumullu, 
Oppressimi rapii, et conanicm plurima frustra. 

Quid facial ? qua vi iuvenem, quibus audeat armis 
Eripere ? An sese medio* morilurus in cnses 
Infera!, et pulchram properet per vulnera mortem ? 
Ocius adducto torquens bastile tacerlo, 

Suspiciens altam Lunam, sic voce precatur: 

Tu, dea, tu praesens nostro succurrc labori, 

Aslrorum dccus, et nemorum Latonia custos; 

Si qua luis unquam prò me pater Hyrtacus aris 
Dona lulil, si qua ipse meis venatibus auxi, 
Suspendive titolo, aut sacra ad fastigia fixi: 

Unric sine me turbare globum, et rege tela per auras. 
Dixerat, et loto connixus corpore fcrrum 
Coniicit: basta volans noclis divcrbcrat umbra*, 

Et venit aversi in tergum Sulmonis, ibique 
Frangitur, ac fisso Iransil praecordia tigno. 

Volvitur ille vomens calidurn de peclorc flnrncn 
Frigidus, et longis singullibus ilia pulsai. 

Diversi circumspiciunt. Hoc acrior idem 
Ecce aliud stimma lelum librabat ab aure. 

Dum trepidarli , iil basta Tago per lempus utrumque 
Slridcns, traiecloque hacsit lepefacla cerebro. 

Saevit atrox Volscens, ncc (eli conspicil usquam 
Àuctorcm, ncc quo se nrdens immittcrc possi!. 

Tu lamen interea calido mihi sanguine poenas 
Persolvcs amborurn, inquii: simul ense recluso 
Ibat in Euryalum. Tum vero cxlcrrilus, amens 
Conclamai Nisus; nec se celare tenebria 
Amplius, aul tantum poluil perferre dolorem: 

Ale, me, adsum. qui feci, in me convertite ferrum, 

0 Ruiuli, mea fraus omnis; nibil iste nec ausus, 

Nec poluil; coclum hoc et conscia sidcra testor; 
Tantum iufelicem nitnium dilexit amicum. 



LA 'v'era l'ombra, c là Y era la luna, 

A gli avversi suoi raggi la celata 
Del mal accorto Furialo rifulse. 

Di colai vista insospcltl Volscente, 

E gridò da la squadra: Olà fermale. 

Chi viva? A che venite? Ove n’andate? 

Chi siete voi? La lor risposta incontro 
Fu sol di porsi in fuga, c prevalersi 
De la selva e del buio. I cavalieri 
Ratto chi qua chi là corsero a'passi, 
Circondarmi il bosco, ad ogni uscita 
Posero assedio. Era la solva un'ampia 
Macchia d'elei c di pruni orrida c folta, 

Che avea rari i sentieri, occulti e stretti. 

E gl’intrichi de* rami e de la preda. 

Ch'era pur grave, c '1 dubbio de la strada 
Tenean sovente Eurialo impedito. 

Niso disciollo e lieve, e del compagno 
Non s'accorgendo, ch'era in dietro assai, 
Oltre si spinse. E già fuor de'ncmici 
Era ne'campi che dal nome d'Alba 
Si son poi detti Albani. Allor le razze 
E le stalle v’avea dc’suoi cavalli 
Il re Latino. E qui poscia ch'un poco 
Ebbe il suo caro amico indarno atteso, 
Gridando, Ab, disse, Eurialo infelice, 

U' sei rimaso? U' più ( lasso I j ti trovo 
Per questo labirinto? E tosto in dietro 
Rivolto, per le vie, per Torme slesse 
Di tornar ricercando, si rimbosca. 

Erra pria lungamente, c nulla sente: 

Poscia sente di trombe c di cavalli 
E di voci un tumulto; e vede appresso 
Eurialo fra mezzo a quelle genti, 

Qual caccialo leone. E già dal loco 
E da la notte oppresso si travaglia, 

E si difende il poverello in vano. 

Clic farà? Con clic forze, e con qual armi 
Ha che lo scampi? Avvenlcrasri in mezzo 
De’nemici a morir morte onorata? 

Cosi risolve: e prestamente un dardo 
S'adatta in mano; e vólto in vèr la Luna, 
CITallor alto splcndca, così In prega: 

Tu, dea, tu della notte eterno lume, 

Tu regina de boschi, in tanto rischio 
Ne porgi aita. Es'lrtaco mio padre 
Per me de le sue cacce, io de le mie 
Il dritto unqua TofTrimmo; e se l’appesi, 

E se t’affissi mai teschio nò spoglia 
l)i fera belva, or mi concedi ch’io 
Questa gente scompigli, c la mia mano 
Reggi c i miei colpi. E, ciò dicendo, il dardo 
Vibrò di tutta forza. Egli volando 
Fendè la notte, e giunse ove a rincontro 
Era Sulmone; e rinvestì nel tergo 



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DELL’ ENEIDE 



Talia dieta dobal: sed viribus cnsis adaclus 
Trnnsabiil costa», et candida pcctora rumpit. 
Voliilur Euryalus lelo, pulchrosquc per arili» 

It cruor, inque Immeroa cervia collapsa rccumbil: 
Purpureus voluti quinti llos, succisus aratro, 
Languescil moriens: laasove papavera collo 
Dcmiscrc caput, pluvia quum Torte gravaulur. 

At fiisusiriiit in medio», solumque per omnes 
Volsccntem petit; in solo Volscenle moratur. 

Quem circum glomerali liosles, hinc comminus at 

que itine 

Prolurbanl. Instai non sccius, ac rolat enscm 
Fnlminenm; donec Rululi clamanti» in oro 
Condidil adverso, et raoricn» animom abslulil liosli. 
Tum super eianimcm scsc proiecit amicum 
Coufossus, placidiiquc ibi demum morte quievit. 



Fortunali ambo I si quid mea carmina possunt, 
Nulla ilies unquam memori vos eiirnct aeio, 
bum domus Aeneac Capitoli immobile savum 
Accolet, impcriumquc pater Romanus iiabebit. 



.Là 've pendei la larga: c ’l Terrò c l'asta 
Passagli al petto, c gli trafisse il core. 
Cadde Treddo il meschino; c con un caldo 
Fiume di sangue, die gli uscio davanti 
Fini la vita, c col singhiozzo il fiato. 
Guardansi l'uno a l’altro; c tulli insieme 
Miran d'intorno di slupor contusi 
E di timor d'insidie. E l'uso intanto 
Via più si studia: ed ecco un altro fiero 
Colpo, ch'alea di già libralo, e dritto 
Di sopra gli si spicca da l'orecchio, 

E per l'aura ronzando in una tempia 
Si conficca di Togo, c possa a l'altra. 
Volscenle acceso d'ira, non leggendo 
Con chi stogarla, al gioì ine rivolto, 

Tu me ne pagherai per ambi il fio, 

Disse, c strinse la spada, c vèr lui corse. 
Niso a tal vista spaventalo, c Tuori 
Escilo de l'agguato c di sé stesso 
(Chè soffrir non poleo tanto dolore ) 

He, me, gridò, me, Rululi, uccidete, 
lo son che 'I Teci: io son che questa Troda 
Ilo prima ordito. In ine l'armi volgete; 
Chè nulla ha contro a voi questo meschino 
Osalo, nè potuto. Io lo vi giuro 
Per lo eie! che n’è conscio e per le stelle, 
Questo tanto di mal solo ha commesso, 
Clic troppo amato Iva l'Infelice amico. 
Mentre cosi dicea, Volscenle il colpo 
Già con gran forza spiuto, il bianco petto 
Del giovine trafisse. E già morendo 
Eurialo cadea, di sangue asperso 
Le belle membra, c rovescialo il collo, 
Qual reciso dal vomero languisce 
Purpureo fiore, o di rugiada pregno 
Papavero ch'a terra il capo inchina. 

In mezzo de lo stuol Niso si scaglia; 

Solo a Volscenle, solo conira lui 
Pon la sua nera. I cavalicr che intorno 
Stavano a sua difesa, or quinci or quindi 
Lo tenevano a dietro. Ed ei pur sempre 
Addosso a lui la sua fulminea spada 
Rotava a cerchio. E si fc' largo in tanto 
Ch’alfin lo giunse ; e mentre clic gridava, 
Cacciógli il ferro ne la strozza, c spinse. 
Cosi non morse, che si vide avanti 
Morto il nimico. Indi da cento lance 
Trafitto addosso a lui, per cui moriva, 
Giltossi ; c sopra lui contento giacque. 

Fortunali ambiduel Se i versi miei 
Tanto han di forza; nè per morte mai, 

Nè per tempo sarà che 'I valor vostro 
Glorioso non sia, finché la stirpe 
D' Enea possederà del Campidoglio 
L' imraobil sasso, finché impero c lingua 



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Viclores praeda Bululi spoliisque politi, 
Volsccnlem oxanimum flentcs in castra fcrebanl. 
Nec minns in caslris luctus, lthnmnrte reperto 
E.xsangui, et primis una lol cacdc perenni*, 
Serranoque Numaquc. Ingerì* concursus ad ipsa 
Corpora, scmincccsque viros, tepidaque recentem 
Cacdc locuin, cl plenos spumanti sanguine rivos. 
AgnosGunt spoiia inler se, galeamque nilentem 
Messapi, et multo phaleras sudore receplas. 



Et iam prima novo spargebat lamine terras 
Tithoni croccum linquens Aurora cubile: 

Iam sole infuso, iam rebus luce relectis, 

Turnus in arma viros, armi* circumdalus ipse, 
Suscilal; aeratasque acies in proclia cogil 
Quisque suas, variisque aruunt rumoribus iras. 

Quin ipsa arreclis (visu mirabile) in Iiaslis 
Prodigarli capila, el multo clamore sequunlur, 
Euryali et Nisi. 

Aencadae duri murorum in parte sinistra 
Opposucre acicm, (nam dexlcra cingitur amni), 
Ingentesque lencnt fossa*, el lurribus allis 
Stani moesti; simnl ora virùm praefixa movebant, 

Nota nimis miseris, alroquc fluentia tubo 
Interra pavidam volitans pennata per urbem 
Nuntia Fama ruit, malrisqne allabitur aures 
Euryali. At subitus miserae calor ossa reliquil; 

Excussi manibus radii, revolulaque pensa. 

Evolsi infelix, et, femineo ululalu, 

Scissa comam, muros nmens atque agmina cursu 
Prima petit: non illa virùm, non illa perieli, 
Telorumque memor: coelum dehinc queslibus implei: 
Hunc ego le, Euryale, adspicio? lune, illa senectae 
Sera meae requics, potuisli linquerc solam, 

Crudelis ? nec le, sub tanta pcriculo missum, 

Affari extremum miserae dalB copia mairi? 

Ileu, terra ignota canibus date praeda Latini* 
Àlitibusquc tace. I nec te tua funere matcr 
Produxi, pressivc oculos, aut vulnera lavi, 

Veste legens, libi quam noctcs festina diesque 
Urgebam, cl tela curas solabar aniles. 

Quo sequar ? aut quae nunc artus, avulsaque membro, 
El funus lacerum tcllus habet ? Hoc mihi de le, 

Nate, refers ? hoc sum tcrraque marique secuta ? 
Figite me, si qua est pietas; in me omnia tela 
Coniicite, o Rutuli; me primam absumilc ferro: 

Aut tu, magne pater divùm, miserere, tuoque 
Invisum hoc deirude caput sub Tartara telo: 

VlftClLIO VOL. calco 



unno nono m wi 

Avrà Y invitta e fortunata Roma. 

I Rutuli con l'armi c con le spoglie 
Pei due compagni uccisi il morto corpo 
ÀI campo nc porlàr del duce loro : 

Lacrimosa vittoria ! E non meno anco 
Fu nel campo di lagrime e di lutto, 

Allor che di Rannele di Sarrano 
E di Numa la strage si scoverse, 

E di tanl* altri ch* erari morti in prima. 

Corse ognuno a veder ; citò parte spenti. 
Parte eran mezzi vivi ; e caldo c pieno 
E spumante di sangue era anco il suolo 
Ove giacean quegl* infelici estinti. 
Riconobbe tra lor le spoglie e I* cimo 
E *1 cirnicr di Messàpo, e I guarnimcnti 
Che con tonto sudor ricoverati 
S’ erano a pena. 

Era vermiglio e rancio 
Fatto già de la notte il nero ammanto, 
l.asciando di Titon I* Aurora il letto ; 

E comparso era il Sole, e discoverto 
Già *1 mondo lutto allor che Turno armalo 
A I* arme, a V ordinanz a, a la battaglia 
Concitò ’l campo ; c diede ordine e loco 
Ciascuno a* suoi. Vendella, ira e desio 
D'assalir, di combatter, di far sangue 
Vedcansi in lutti. A due grand’ aste in cima 
Conflccaron le teste ( orribil mostra I ) 

D* EurTalo c di Niso, c con le grida 
Ne féro onta e spettacolo a* nemici. 

I Teucri arditamente in su le mura 
Da la sinistra incontra si mostraro; 

Cliè la destra dal fiume era difesa. 

E chi dalle trincee, chi da le torri 
Slaian dolenti rimirando i teschi 
Ne I* aste affissi polverosi c lordi, 

Ch* ancor sangue gocciando eran pur troppo 
Così lungo da’ miseri compagni 
Raffigurati a le fallczze conte. 

Sp cgò la fama le sue penne intanto, 

E la trista novella in ogni parto 
Sparse per la città, si ch* a gli orecchi 
De la madre d’ Burraio pervenne. 

Corse subitamente un gel per I* ossa 
A la meschina ; e de le man le uscirò 
Le sue tele e i suoi fili. Indi, rapila 
Dal duolo c da la furia, forsennata 
E scapigliata ne la strada uscio ; 

E per mezzo de I* armi c de lo genti 
Correndo, mugolando, senza tema 
Di periglio e di biasmo, andò gridando, 

E di questi lamenti il ciclo empiendo : 

Ahi così concio, Euri'aio, mi torni ? 

EurTalo sei tu ? Tu sei ’l mio figlio, 

Ch’ cri la mia speranza e ’l mio riposo 
’ 2G 



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DELL’ ENEIDE 



Quando aliter nequeam erudelcm abrumperc vilam. 
Hoc flclu concussi animi, moeslusquc per omnes 
Il gemitus; torpenl infraclac ad proelia vires. 
lllam inccndenlem luctus Idacus et Actor, 
llionci moniti) el multum lacrimautis luli, 
Corripiunl, inlerquc manus sub lecla rcponunl. 



Al tuba lerribilem sonilum procul aere canoro 
Increpuil; sequilur clamor, coelumque rcmugil. 
Acceleranl acla pariler testudine Votoci; 

El fossas implere paranl, ac rellere valium. 

Quaerunl para aditum, cl scalis adscendere muros, 
Qua rara est acies, intcrlucelque corona 
Non lam spissa viris. Telorum efTundcre conira 
Omne genus Teucri, ac duris delrudere conlis, 

Assueti longo muros defendere bello. 

Saia quoque infesto volvebanl pondero, si qua 
Possenl icctam acicm perrumpcre: quum (amen omnes 
Fcrrc iuvat subter densa lesludinc casus. 

Nec iam sufDciunt; nam, qua globus imminel ingens, 
Immanem Teucri raolem volvunlque ruuntquc; 

Quae slravil Hululos late, armorumque resoli!! 



Nc l’ estreme giornale di mia vita ? 

Ahi come cosi sola mi lasciasti. 

Crudele ? E come a cosi gran periglio 
N’ andasti, ansi a la morie, clic tua madre 
Non li parlasse, oimè 1 1' ultima rolla, 

Nè clic pur li vedesse ? Ali ! di' or li veggio 
In peregrina terra esca di cani, 

D' avolloi e di corvi. Ed io tua madre, 
lo cui l’ esequie eran dovute e *1 duolo 
D' un colai tiglio, non t'ho chiusi gli occhi, 
Nè lavate le piaghe, nè coperte 
Con quella veste che con tanto studio 
T’ ho per trastullo de la mia vccchieira 
Tessuta io stessa e ricamalo in vano. 

Figlio, dove li cerco ? Ove ti trovo 
SI diviso da te ? come raccolto 
Le lue cosi sbranate c sparse membra ? 

Sol questa parte del tuo corpo rendi 
A la tua madre, che per esser teco 
T' ha per terra e per mar tanto seguilo, 

E seguiralli dopo morte ancora ? 

In me, Rululi, in me lutti volgete 
I vostri ferri, se pur regna in voi 
Pielade alcuna. A me la morte date 
Pria di' a nuli' altro. 0 tu, Padre celeste, 
Miserere di me. Tu col tuo tèlo 
Mi trabocca nel Tartaro e m' ancidi, 

Poiché romper non posso in altra guisa 
Questa crudele e disperata vita. 

Da questo pianto una mcslitia, un duolo 
Nacque ne’ Teucri, c tale anco ne l’ armi 
Un languore, un timore, una desidia, 

Che grami, addolorali e di già vinti 
Sembravan tutti. Onde Attore ed Idèo, 

Con quel di lei togliendo il pianto altrui, 

Per consiglio del saggio llionéo, 

E per compassion del buono lùlo 
Che mollo amaramente nc piangea, 

Tosto a braccia prendendola, ambedue 
La porlaro a I* albergo. 

Ed ecco intanto 

Squillar s' ode da lunge un suon di trombe , 
Un dare a l’ arme, ed un gridar di genti 
Tal, che ne tuona e ne rimugghia il cielo. 

E veggonsi in un tempo i Volaci '.ulti 
Sotto pavesi consertati c stretti 
In guisa di testuggine appressarsi, 

Empier le fosse, dirupare il vallo. 

E tentar la salita, e por le scale 
Là dove la muraglia era di sopra 
Con minor guardia, e là 've raro il cerchio 
Tralucea de la gente. Incontro a loro 
I Teucri sassi, travi ed ogni télo 
Awcnlaron dal muro ; e con le picche 
Risospingendo, come il lungo assedio 



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LIBRO NONO 



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Tegmina. Nec curaul caeco contendere Marie 
Amplius audaccs Rulull, seti pellere vallo 
Missilibus cenoni. 

Parte alia horrendus visti quassabat Elruscain 
Pinum et fumiFfros in Tt-rt Meientius ignes; 

At Messapus, cquòtn dotnitor, Neplunia prole», 
Reseindil vallimi, et scalas in moenia poscil. 



Vos, o Calliope, precor, adspirate caiicnti, 
Quas ibi lune ferro strages, quae funcra Tiirnus 
Edideril; quem quisque viruin deniiscrit Orco; 

Et mecum ingente» oras evolvile belli. 

Et meministis enim, divae, et memorare polcstis. 



Turni crai vasto suspcclu, et ponlibtis alti», 
Opportuna loco; summis quam virihus omnes 
Espugnare Itali, summaque evertere opum vi 
Ccrlabant: Trocs conira tlcfendere sasis, 

Perquo cavas densi tela inlorquere fenestras. 
Princeps ardentem coniceli lampada Turuus, 

Et ilammam affisi! laleri; quae plurima vento 
Corripuil tabulas, et postibus Itami adesis. 

T urbali trepidare inlus, fruslraquc malorum 
Velie fugam. Dum se glomcranl, relroquc residuili 
III parlcm, quae peste caret: lum pondero lurris 
Procubuil subilo, et coclum tonai omne fragore. 
Semincces ad tcrram, immani mole secula, 
Confìxique suis teiis, et pectora duro 
Transfossi tigno, veniuni. Vis unus Helenor, 

Et Lycus clapsi; quorum priraaevus Helenor, 
Maconio regi quem serva Licymuia furtim 
Sustulcral, vctilisque ad Troiani miserai armis, 
Elise levis nudo, parmaque inglorius alba. 

Isque ubi se Turni media inlcr millia vidil. 

Dine acics atquc bilie acies adslare Latina»; 

Ut fera, quae, densa vcnanliim sepia corona, 
Contra tela furi), seseque Itaud nescia morti 
Iniicit, et sallu supra venabula fcrlur: 

Hauti alitcr iuvenis medio» morilurus in liostes 
Irruil; et, qua tela videi densissima, tendit. 

Al pedibtis longc mclior Lycus, inler et liostes, 
Inter et arma, fuga muros tenet, altaquc certa! 
Prendere teda manti, sociAmque attingere destras. 
Quem Turuus, parilcr cursu leloque seculus, 
Inerepal bis victor: Nostrasnc evadere, dcmciis. 



Insegnò lor di Troia, a la difesa 
Si fermàr de' ripari ; e le pareti 
E i pilastri e le torri addosso a loro 
E sopra la testuggine gillando. 

Gli scudi dissiparono e le genti, 

Si che più di combattere al coverto 
Non si curaro. Ma d' ogni arme un nembo 
Lanciando a la scoperta, i bastioni 
OfTcndcan de' Troiani. E d' una parte 
Meteniio, formidabile a vedere, 

Sen già con un gran pino acceso in mano 
Lo sleccato infocando. Iva da l' altro 
Il Ber Nessipn, di Nettuno il Aglio, 
■lomalor de' corsieri; e scisso il vallo. 
Scale, scale gridava, e per lo muro 
Rampicando saliva. 

Or qui m’è d' uopo, 
Calliope, il tuo canto, a dir le prove, 

A dir loccision, che di sua mano 
Eem Turno in quel di; chi, quali, e quanti 
A l'Orco ne mandasse. Ogni successo 
Spiega di questa guerra in questa parte. 
Tutto a voi. Muse, è conto; e voi la possa 
E l'arte avete di contarlo altrui. 

Era una torre di sublime alleila 
Con bertesche e con ponti un sopra l'altro, 
Loco opportuno. A questa eran d'intorno 
Ili fuor gl'italiani, c dentro i Teucri; 

K quei facean per espugnarla ogni opra, 

E questi per tenerla. Avanti a tulli 
Si spinse Turno; ed uno face ardente 
Lanciovvi da l'un flanro, ove s'apprese 
Con molla damma; cosi Aero il vento, 

Cosi secchi e disposti erano i legni. 

Ardca la torre da quel cauto, e Uentro 
La gente per timor cercava indarno 
Di ritrarsi dal foco: onde a la parte 
Da l'incendio remota in un sol mucchio 
Si ristrinsero insieme; c per quel peso 
Da quel loto in un subito la torre 
Quasi spinta incliinossi, aprissi e cadde. 

Il cicl ne rintonò; la gente infranta, 
Storpiata, sfracellata, infra i suoi legni 
Da l’armi proprie inlissa, e lin ne l'aura 
Moria c sepolta a terra se ne venne. 

Soli due vivi, e per ventura intatti 
Dal nembo della polvere, e dal fumo 
Uscir nel campo: Elenorc fu l’uno, 

Lieo fu l’altro. Elenore un garzone 
Di prima barba, di Licinnia serva 
E di Meonio re nato di furto, 

E sotto Troia a militar mandalo 
Furtivamente. E' si trovò com’ era 
Pria nella terra lievemente armalo 
Col brando ignudo, e con la targa al collo 



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DELL' ENEIDE 



Sperasti le posse inaiius ? Simili ampi! ipsum 
Pendenlem, el magna muri cum parie rcvellil: 

Qualis ubi aut leporem, aul camlenii Torpore cycnum, 
Sustulil alla petcns pedi bus lovis armiger uncis; 
Quaesilum aul mairi imillis balalibus ognuni 
Marlius a stabuli* rapili! lupus, l’ndique clamor 
Tollilur. Invadimi, el fossas aggere complenl; 
Ardcntes laedas alii ad fasligia iactant. 
lliotieus saio atque ingenti rragminc monlis 
Lucetium, portac snbeuntem iguesquc ferenlem; 
Emalhiona Ligcr, Coryuaenm slernil Asilas: 

Ilio iaculo bonus, hic longe fallenlc sagilta; 

Orlygium Caencus, victorem Carnea Turnu*; 

Turnus liym, Cloniumquc, Dioxippum Promolumquc 
El Sagarim, et summis slanlem prò lurribus Idan; 
Privcrnum Capys. Dune primo levi* liasla Themillac 
Slrinxerot: ille manum proieclo legni ine demens 
Ad vulnus Yulit; ergo alis allapsa sagii la, 

El laevo alliba csl lateri manus; abditaque intus 
Spiramenta animnc letali valnerc rupi!. 

Slabai in egregiis Arccnlis filius armis; 

Pictus acu chlamydcra, el ferrugine clarus (libera. 
Insigni» facie; genitor quem miserai Arcens, 

Educlum malris luco, Symaclhia circum 
Flumina, pinguis ubi el placabilis ara Palici. 
Slridcntem fundam, posili» Mozcnlins linstis, 

Ipsc ter adducla circum caput egil iiabrna; 

Et media adversi liquefaclo tempora piombo 
Diflìdil, ac multa porrccluni exlendil arena. 

Tum prirnum bello cctcrcm inlendissc sagittali» 
Dicilur, ante feras solilus lerrerc fugaees, 

Ascanius, forlcinque monu (udisse Numanum, 

Cui Perniilo cognomcn crai; Turniquc minorem 
Gcrmanam nupcr limiamo sociatus habebat. 

Is primam ante arimi digna atque indigna relalu 
Vociferans, lumidusque novo praecordia regno 
lbat, el ingcntem scse clamore fcrcbal: 

Non pudcl obsidionc ilcrum valloquc teneri, 

Bis capti Phrygea, el morii praelenderc muros ? 

Eli, qui nostra sibi bello connubia poscunl 1 
Quis deus Italiani, quae vos demenlia adegil ? 

Non hic Alridae, nec fonili ficlor Ulixes. 

Durum ab stirpe genus, nalos ad (lumina primum 
Deferimus, saevoque gclu duramus el undis; 

Venalu invigilarti pueri, silvasqne faliganl; 

Fleclere ludus cquos, el spicula tendere corno. 

Al paticns operum parvoque assuefa iuvenlus 
Aut raslris Icrram domai, aul qualil Ofipida bello. 
Oinne acYum ferro lerilur, versaque iuvcncùm 
Terga faligamus basla: nec larda seneclus 
Debilitai vires animi, niulalquc vigorem. 

Canilicm galea premimus; semperque recentcs 
Comportare iuval praedas, el vivere rapto. 

Vobis picla croco et fulgenti murice vestis: 

Dcsidiac cordi; iuval indulgere chorcis; 



Bianca del ludo, come non dipinta 
D’alcun suo fallo glorioso ancora. 

Questi, vistosi in mezzo a laute genti 
Di Turno e de' Lalini, come fera 
Cb'aggia di cacciatori un cerchio intorno, 
Muove incontro a gli spiedi, inconlr’a Panni; 
Mosse là 've più folle cran le schiere, 

E certo di morire a morie corse. 

Ma Lieo in su le gambe assai più deslro 
Infra l'armi e i nemici a fuggir vólto, 

Giunse 8 le mura, ed aggrappossi in guisa 
Che stcndea già le mani a' suoi compagni, 
Quando Turno e co’ piedi c con la spada 
Lo sopraggiuusc, c come vincitore 
ltampognando gli disse: E clic, pensasti, 
Folle, uscirmi di mano? E le man (osto 
Gli pose addosso, c siccome dal muro 
Petulca, col muro insieme a Icrra il trasse, 

In quella guisa che gli adunchi ugnoni 
Conira una lepre, o conira un bianco cigno 
Stende l'augel di Giove, e'I marzio lupo 
Da le reti rapisce un agncllcllo, 
die dalia madre sia belalo invano. 

Si rinnovàr le grida, c lutti insieme 
0 le faci avventando, o 'I fosso empiendo, 
Binfonavan l'assalto. Ilionéo 
Con un pezzo di monte, a cui la pinta 
Diè giu da’ merli, sovra al ponte infranse 
Lut ezio eh’ a la porla era col fuco. 

Ligcro uccise Einatione; Asilao 
Uccise Corinéo, buon feritori 
L’ uno di dardo, c I* altro di saetta. 

Ortigìo da Ccnéo trafitto giacque; 

Ccnéo da Turno: ammazzò Turno ancora 
Ili c Promolo c Ctonio e Dfosippo, 

E Sigari con Ida: Ida clic in allo 
Stava d'un torrione a la difesa. 

Capi aucise Priverno. Avea costui 
Pria nel fianco una piccola ferita 
Anzi una graffiatura, che passando 
Fe* l’asta di Tendila: e’I male accorto, 

Per su p»rri la mano, abbandonalo 
Avea lo scudo; quando ecco volando 
Venne una freccia die In mano c '1 fianco 
Insieme gli confisse; e via passando 
Penetragli al polmone, il mortai colpo 
Sì lo spirar de l’anima gli tolse, - * 

Clic non mai più spirò. Slavasi Arccnte, 

D* Arconte il figlio, in $u* ripari ardilo 
Egregiamente armalo, c sopra l’arme 
j D una purpurea cotta era addobbato 
Di ferrigno color, di drappo Ibero; 

Un giovine leggiadro, clic dal padre 
Eu nel bosco di Marie a l'armi avvezzo 
Lungo al Simeto, u’ l’ara di Paiico 



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LIBRO NONO 



201 



Et lunicac manicns, cl Imbonì rcdiinicula milrac. 

0 vere Plirygiac, ncque cnim Pbrygcs, ile per alla 
Dindyrna, ubi assuclis biforcai dal tibia ranium. 
Tympaua vos buiusque vocat Bcrecynlia Matris 
Idacac, sinilc arma viris, et cedile ferro. 



Tinta non come pria disangue umano, 

Più pingue c più placabile si mostra. 
Mczenzio it vide; e l’altro armi deposte 
Prese la Tromba, c con Ire giri intorno 
Se ravvolse a la testa. Indi scoppiando 
Allentò *1 piombo, che dal molo acceso 
Squagliossi, e con gran rombo in una tempia 
Il garzon percoiendo, ne l'arena 
Morto quanto era lungo lo distese. 

Ascanio che fin qui solo a la caccia 
Ave» l’arco adopralo, or primamente 
Oprollo in guerra, c col primiero colpo 
Il feroce Nuotano a terra stese. 

Remolo era costui per soprannome 
Chiamato; e poco avanti avea per moglie 
Presa di Turno una minor sorella. 

Ei di questo favor, di questo nuovo 
Suo regno insuperbito, altero e gonlio 
Slava ne l’antiguardia, e con le grida 
Si ringrandiva; c di lontano i Teucri 
Schernendo, in colai guisa atlodicca: 

Questo è l'onor che voi, Frigi, vi fate 
D’un altro assedio? Un’altra volta in gabbia 
Vi riponete? E pur col vostro muro, 

E co i vostri ripari or da la morte 
Vi riparate? E voi, che fate guerra 
Per usurpare a noi le donne nostre? 

Qual dio. qual infortunio, qual follia 
V'ha condotti in Italia? E che pensate 
Di trovar qui? Quei profumati Atridi, 

0 ’l ben parlante Ulisse? In una gente 
Avete dato che da stirpe è dura. 

1 nostri figli non son nati a pena, 

Che si tufTan ne’fiumi. A fonde, al gelo 
Noi gfinduriamo, c gl’incalliamo in prima ; 
Poscia per le montagne e per le selve 
Fanciulli se ne van la notte c T giorno. 

Il lor studio è la caccia; e ‘1 lor diletto 
È’I cavalcare, c ’l trar di Tromba c d’arco. 

La gioventù ne le fatiche avvezza, 

E contenta del poco, o col bidente 
Doma la terra, o con l’aratro i buoi, 

0 col ferro i nemici. Il ferro sempre 
Avcmo per le mani. Una sol* asta 
Ne fa picca e pungclto. A noi vecchiezza 
Non toglie ardire, e de le forze ancora 
Non ci fa, come voi, debili e scemi. 

Per canute che siati le nostre leste, 

Veston celate, e nuove prede ogn’ora 
Quando da’ boschi c quando da’ nemici 
Addur ne giova, c viver di rapina. 

Voi con l’ostro e co’fregi e co’ricami, 

Con le colle a divisa c con le giubbe 
Immanicatc c co i fiocchetti in testa 
A che valete ? a gir cosi dipinti 



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DELL* ENEIDE 



202 



Talia iaclanlem (licite, ac dira cancnlcm, 

Non tulit Ascanius; ncrvoque obversus equino 
Contcmiit (cium, divcrsaque brachia duccns 
Oonstilii, anlc Iovem supplcx per rota precatus: 
Jupiler omnipolcus, audacibus adnue cocplis. 

Ipse libi ad tua tempia ferarn solcmnio dona, 

Et staluam ante aras aurata fronte iuvencum 
Candenlcm, parilerque caput cum maire ferentem, 
Iam corno pelai et pedibus qui sparga! arenarli. 
Audiil et codi Gcnilor de parte serena 
Intonuil laevum; sonai una falifer arcus. 

EfTugit horrcndum stridens addurla sagitla; 

Pcrque caput Remuli venit, et cava tempora ferro 
Traiicil. I, verbi* virtulem illude superbis. 

Bis capti Pliryges liaec Kutulis responsi! remittunt. 
Hoc tantum Ascanius. Teucri clamore sequuntur, 
Lacliiiaque frcmunl, animosque ad sidcra lollunt. 
Aclberia Inni forte plaga crinitus Apollo 
Desuper Ausonias acies urbemque vldebat, 

Nube sedens, atque bis viclorcm alTalur (ulurn: 
Macie nova virlulc, puer; sic itur ad astra, 

Dls genite, et geniture deos. Iure omnia bella 
Gente sub Assaraci fato ventura residenl; 

Ncc te Troia capit. Simul, haec cflalus, ab alto 
Actbcrc se mittil, spirantes dimovet auras, 
Ascaniumque petit. Formam tum vertituroris 
Antiquum in Bulen. Ilic Dardanio Anchisae 
Armiger ante fuit, fidusque ad limina cuslos; 

Tum comilein Ascanio pater addidil. Ibat Apollo, 
Omnia longaevo simili», vocemquc, coloremquc 
Et crines albos, et saeva sonoribus arma; 

Atque bis ardcnlem diclis a ITatur lulum: 

Sit satis, Aenide, telis impune Numanum 
Oppctiisse tute; primam banc libi magnus Apollo 
Concedii laudcm, et paribus non invidet armi*; 
Celerà parce, puer, bello. Sic orsus Apollo 
Mortales medio odspcctus sermone reliquil, 

Et procul in tenucm ex oculis evanuit auram. 
Agnovere deum proceres divinaque tela 
Dardanidae, pbarelramquc fuga sensere sonanlcm. 
Ergo avidum pugnac, diclis ac numine Plioebi, 
Ascanium prohibenl; ipsi in ccrlamina rursus 
Succcdunt, animasque in aperta pcricula millunt. 



E così neghittosi ? A far balletti 
Da donnicciole. 0 Frigi, o Frigiesse 
Più tosto I In questa guisa si guerreggia 7 
Via ne’ Dindimi monti, ove la piva 
Vi chiama c *1 tamburino e 'I zufoletto. 

E con quei vostri galli, anzi galline 
Di Bcrccinto, ile saltando in tresca; 

E V armi c*l ferro, che non fan per voi, 
Lasciate a quei clic son prodi e guerrieri. 

Non potè tanto orgoglio c tanto oltraggio 
Soffrir d’ un folle il generoso Iulo, 

| E leso l’ arco con la cocca al nervo, 

Rimirò 'I cielo, e disse : Onnipotente 
Giove, tu l' ardir mio, tu la mia mano 
Fomenta e reggi. Ed io sacri e solenni 
Ti farò doni : io condurrolti a l’ ara 
Un candido giovenco che la fronte 
Aggia indorata, e de la madre al pari 
Erga la testa, e già scherzi c già cozzi 
Con le -coma, c co’ piè sparga l’arena. 
Giove, mentre dicea, tonò dal manco 
Sinistro lato; e col suo tuono insieme 
Scoccò I* arco mortifero di Iulo. 

Volò l’ orribil télo, c per le tempie 
Di Remolo passando, le trafìsse. 

Or va’, t* Insuperbisci; or va’, deridi, 
Scempio, 1* altrui virtù. Queste risposte 
Mandano i Frigi che son chiusi in gabbia 
A i Rutuli signor de la campagna. 

Questo sol disse Ascanio; ed al suo colpo 
Le grida i Teucri c gli animi in un tempo 
Al cielo alzaro. Era il crinito Apollo, 

Quando ciò fu, ne la celeste piaggia 
Sovra una nube assiso, e d* allo il campo 
Scorgendo de* Troiani c de gli Ausonii, 

Come vede ogni cosa, visto il colpo 
Del vincitore arderò, in vèr lui disse : 

Ahi buon fanciullo, in cui virtù s’ avanzo I 
Così cassi a le stelle. Or ben tu mostri 
Che da gli dii sei nato, e eh' altri dii 
Nasceranno da te. Tu sci ben degno 
Ch* ogni guerra, che *1 Fato ancor minacci 
A la casa d‘ Assàraco, s* acqueti 
Per tua grandezza, a cui Troia è minore, 

SI che già non ti cape. E, cosi detto, 

Si fendè l’ aura avanti, c vèr la terra 
Calossi, trasmutossi, c come fosse 
Il vecchio Buie, al giovine accostossi. 

Fu Buie in prima del Dardanio Ànchise 
Valletto d’ arme e camerieri» c paggio, 

E poscia per custode e per compagno 
L* ebbe Ascanio dal padre. A questo vecchio 
Mostrassi Apollo di color, di voce, 

D’andar, di canutezza e d’ armatura 
Simile in tutto; cd a 1* ardente Iulo 



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LIBRO NONO 



203 



Il clamor lolis per propugnatila murisi 
Inlentlunl aerea arcua, anienlaque torquent. 

Sternilur ornile aolum lelis; lum acuta covaeque 
Dant sonitum fliclu galcac; pugna aspera aurgit 
Quanlus ab occasu veniens, pluvialibua Ilaeilis, 
Vcrbcral imber humum; quam multa grandine nimbi 
In vada praecipitanl, quum iupiter horridus aualris 
Torquel aquosam hiemem, et coelo cava nubila rum- 

pii. 

Pondarus et Bitias, Idaeo Alcanore creli, 

Quos lovis eduiit luco silvestri» laera, 

Abielibus iuvenes palriis et montibus acquos, 
Portoni, quae ducii imperio commiasa, recludunt 
Frati armis, ultroque in > ila n L moenibus bosletn. 

Ipai intus delira ac laeva prò turribus adstant 
Armali Terrò, et cristi» capila alla coruaci; 

Quales acriae liquenlia (lumina circum, 

Sire Padi ripis, Alhesim seu propler amoenum, 
Conaurgunt geminae quercua, intonsaque coelo 
Atlollunt capila, et sublimi vertice nulanl. 

Irrumpunl, aditus Rululi ut ridere palentes. 

Continuo Quercens, et pulcher Aquicolus armis, 

Et praeceps animi Tmarus et Mavortius Ilacmon, 
Agminibus lotis aul versi terga dcderc, 

Aul ipso portae posurre in limine vilam. 

Timi magis incrcscunt animis discordibus irae. 

Et iam coliceli Troes glomerantur eodem, 

Et conferre manum et procurrere longius audcnl. 



Fallo vicino, in tal guisa gli disse : 

Bastili aver, d' Enea preclaro figlio, 

Sema alcun rischio tuo Numano ucciso, 

Di questa prima lode il grande Apollo 
Ti privilegia, e non l' invidia il colpo, 

Nè 'I paraggio de I* arco. Or da la pugna 
Riiraggili. E, ciò dello, da la vista 
De’ circoslanli si ritrasse anch’ egli, 

E sormontando dissipossi e sparve. 
Rassembrarono in Buie i Teucri Apollo, 

E riconobber la faretra e l' arco, 

Che ruggendo sonar anco s' udirò. 

E fér al con le preci e col precello 

D’ un tanto iddio, ch'Ascanio ancor clic vago 

Fosse di pugna, se ne tolse al fine ; 

Ed essi apertamente a ripentaglio 
Misero in vece suo le vile loro. 

Spargesi un grido per le mura in tanto 
Per tutte le difese ; e tutti a gli archi, 

Tulli a tirar, tutti a lanciar si diero 
D' ogni sorte arme, c d' ogni parte il suolo 
N* era coverto, quando altro conflitto 
Cominciossi di scudi e di celale, 

Una mischia di picche, una battaglia 
Che erescea tuttavolla, rinforzando 
Con quella furia die di pioggia un nembo 
Vien da l' occaso allor che d’ oriente 
Fan sorgendo i capretti a noi tempesta : 

0 quando orrido e (orbo c d' austri cinto 
E ’n grandine converso irato Giove, 

D'alto precipitando, si devolve 

Sopra la terra, e'I cicl rompendo inluona. 

Pandoro c Bilia d' Alcanórc Ideo, 

E d’ Idra sabatica sua moglie 
Figli, in Ida acquistali, e d' Ida usciti 
L' uno a F altro simile, ed ambldue 
A quegli abeti ed a quei monti uguali 
Ond’ cran nati, avean dal Teucro duce 
Una porta in custodia. E confidali 
Ne le forze e ne l' armi, a bello studio 
La lasciaron aperta, ed a' nemici 
Fér da le mura marziale invito. 

Essi armati di ferro, un da la destra, 

L' altro da la sinistra, a due pilastri 
Sembianti, anzi a due torri che nel mezzo 
Tengan la porla, con le teste in alto 
E co' raggi de gli elmi i campi Intorno 
Folgorando, squassavano i cimieri 
Fin sovr’ ai merli. In colai guisa nate 
Ne le ripe si veggon di Lequezio, 

De l' Adige, o del Po due querce altere 
Sorgere al cielo, e sventolarsi a l' aura. 

Visto l' adito aperto, incontanente 
Vi si spinsero i Butuli. E Quercento 
Ed Aquicolo i primi armati e fieri, 



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20 i 



DELL’ ENEIDE 



Duclori Turno, diversa in parie furenti, 
Turbantique viros, perfertur nunlius, hoslcm 
Fervere cacdc no^a, et porlas praebcrc palenlcs. 
Deseri l inceplum, atque immani concitus ira 
Dardaniam ruil ad portam frolresque superbos; 

El primum Antiphaien. is cnim se primi» agebat, 
’Jhcbann de maire nolhum Snrpedonis alti. 

Conicelo sternil iaculo; volai Itala cornus 
Aera per lenerum, slomaclioque india sub altum 
Pcctus abil; reddil specus airi vulneris undam 
Spumanlcm, et lino fcrrum in pulmone lepescil. 
Tum Meropem alquc Erymanla manu, tum slcrnit 

Àphidnum; 

Tum Bilian ardenlem oculis, animisque frcmenleni, 
Non iaculo; ncque cnim iaculo viiam illcdedisscl; 
Scd magnino slridcns conlorla phalarica venit, 
Fulmini» acla modo; quam nec duo laurea terga, 
Nec duplici squama lorica fldelis et auro 
Suslinuil; collapsa ruunt immania membra. 

Dal tellus gemitum, cl clipcum super intanai ingens. 
Talis in Euboico Baiarum litore quondam 
Saica pila cadil; magnis quam molibus ante 
Consirurtam ponlo iaciunt; sic illa ruinam 
Prona Irahil, penilusque vadis illisa rccumbit; 
Misccnl se maria, cl nigrae atlolluntur nrenae: 

Tum sonilu Procbyla alla tremit, durumque cubile 
Inarime lovis impcriis imposta Typhoco. 



Ilio Mars armipolens animum viresque Lalinis 
Addidii, et slimulos acrcs sub peclore verlit; 
Immisilque Fugam Tcucris alruraque Timorem. 
Undique conveniunt, quoniam data copia pugnae, 
Bt llalorque animo deus incidit. 

Pandarus, ut fuso germanum corpore cernii, 

Et quo sii fortuna loco, qui casus agat res: 



1/ ardito Tmaro e 'I bellicoso Enione 
Tulli co’ lor compagni impelo fero ; 

E tulli o Tur da' Teucri in fuga vólti, 

0 ne l’ entrar di quella porla ancisi. 

Giunto a gli animi infesti il sangue sparso, 

S’ accrcbber P ire ; c de’ Troiani in lanlo 
Tale un numero altronde vi concorse, 

Clic prender zuffa, c tener campo osaro. 

Turno sfogava il suo furore altrove 
Conira i nemici ; quando un messo avanti 
Gli comparve dicendo, che di Troia 
Erano usciti, e slavan con le porte, 

Quante cran larghe, a far strage c macello 
De le sue genti. Ei tosto da quel canto 
Lasciò r impresa ; c contro i due fratelli 
A la Dardania porta irato accorse. 

E primamente Aulitale ; che primo 
Gli venne avanti, un giovine bastardo 
I)i Sarpedontc, e di Tcbana madre, 

Con un colpo di dardo a terra stese. 

Colpillo ne lo stomaco, e passogli 
Oltre al polmone, onde di caldo sangue, 
Quasi d' un antro, dilagossi un fonte. 
Meropc, Afldno cd Erimanto appresso 
Uccise con la spada, un dopo I* altro 
Come a caso iucontrógli. Atterrò Bizia 
Dopo costoro, ma non già col dardo, 

E men col brando ; eh* altro colpo er’ uopo 
A si gran corpo. A costui, mentre infuria, 
Mentre stizza per gli occhi avventa e foco, 
Infocalo, impiombato c grave un télo 
Scaricò di falarica, che in guisa 
Di fulmine stridendo e percolendo 
Lo giunse sì che nò lo scudo avvolto 
Di due bovine terga, nè la fida 
Lorica di due squame e d'òr contesta 
Non lo sostenne. Barcollando cadde 
La smisurata mole, e tal diè crollo 
Che ’l lerren se ne scosse, c*l gran suo scudo 
Gli tonò sopra. In tal guisa di Baia 
Su l'Eiiboica riva il grave sasso, 

Ch’è sopra Tonde a fermar Copre eretto, 

Da Tallo ordigno ov’era dianzi appeso, 

Si spicca c piomba, e fln ne Timo fondo 
Rumando si tuffa, e frange il mare, 

E disperge l'arena: onde ne trema 
Precida cd Ischia, c il gran Tiféo se n'ange, 
Cui si duro covile ha Giove imposto. 

Qui Marte il suo potere e 'I suo favore 
Volse verso i Latini. Animi e forze 
Aggiunse loro, gl’incilò, gli accese; 

E di tema e di fuga e di scompiglio 
Diè cagione a'Troiani. E già ch’a pugna 
S'era venuto, e de la pugna il nume 
Era con loro, accolti d’ogni parte 



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I.IRRO N0.\0 



20.1 



Portam vi mima converso meline (orqnel, Si ristringono i Ruttili, e fan testa. 

Obnixtis latis humcris, multosqne suorum Pandoro, poi clic 'I suo fratello estinto 

Mocnibus exclusos duro in certamine linquil; Si vide avanti, e la fortuna avversa, 

Ast atios sccum includil recipitquc ruentes, A la porla con gli omeri appunlossi: 



Demens, qui Rutulùm in medio non agniine regem 
Videril irrumpentem, ultrnque incluscrit urbi: 
Immanem velini pecora inler incrtia ligrim. 

Continuo nova lux oculis rifulsi!, et arma 
llorrendum sonuerc; tremunt in vertice cristae 
Sanguincae, clipcusquc micantia fulmina mitili. 
Agnoscunl far.lcm invisam atquc immania membra 
Turbali subito Aeneadae. Tum Pandarus ingcns 
Emicat, et morlis fraternac fervidus ira 
Elfalnr: Non haec dotalis regia Amalac; 

Nec muris cohibel patriis media Ardea Turnum. 
Castra inimica vides: nulla hinc exire potestas. 

Olii subridens sedato pectore Turnus: 

Incipe, si qua animo virtus, et consere dexlram, 
llic etiam inventum Priamo narrabis Achillcm. 
Diierat. Illc rudem nodis et corticc crudo 
Inlorquet summis adnixus viribus haslam. 

Excepcre attrae vulnus; Saturnia lutto 
Detorsit veniens; porlaeque inflgitur basta. 

At non hoc tclum, mea quod vi dextera versai, 
Elfugies; neque enim is teli nec vulneris auctor. 

Sic ait, et sublalum alle consurgit in ensem. 

Et mediam ferro gemina intcr tempora frontem 
Dividi!, impttbesqne immani vulnere maias. 

Kit sonus; ingenti concussa est pondere teliti,. 
Collapsos artus atque arma cruenta cercbro 
Sternit humi morlens; atque illi partibus aequis 
lluc caput atque illue huntero ex utroque pependit. 
DifTugiunt versi trepida forntidinc Troes. 

Et, si continuo victorcm ea cura subissel, 

Rumpere clauslra manu sociosqne immiltere portis, 
Ullimus ille dics bello gentique fuisscl. 

Sed furor ardentem caedisque insana cupido 
Egil in adversos. 

Principio Pltalerim et, succiso poplilc, Gygcn 
Excipit; hinc raplas fugientibus ingerii haslas 
In tergum: luno vircs animumque ministrai. 

Addi! Uri ly m comitem, et confila Pltegea parma; 
Ignaros deinde in muris Marlemquc cicntes, 
Alcandrumque Haliuntque Noemonaquc Prytanimque 
Lyncea lendenlem conira, soclosque vocantem, 
Vibranti gladio connixus ab aggere dealer 
Occupai; buie uno tleieclum comminus iclu 
Cum galea longe iacuil caput. Inde ferarunt 
Vaslatorent Amycum, quo non felicior alter 
Ungere tela manu, ferrumque armare veneno; 

Et Clylium Acoliden, et amicom Crcthea Musis, 
Crclhea Musarttm comitem, cui carmina seroper 
Et citharae cordi, numerosque intendere ncrvis; 
Semper equos, atque arma virùm, pugnasque canebai 

Vinsmo voi csico. 



E si com'era poderoso e grande. 

Con molla forza la respinse e chiuse, 

Molli esclusi dc'suoi, che per la fretta 
Rimaser nc le peste, e molti inclusi 
Clt'eran nimici: c non s'avvide il folle, 

Che dei nimici in quella calca ancora 
Era lo slcsso re da lui raccolto 
A far de' suoi, qual tra le greggi imbelli 
Ircana tigre immane. Ei non più tosto 
Fu centro, che raggiò da gli occhi un lume 
Spaventevole c Acro, e farmi sue 
Fieramente soDaro. Il suo cimiero 
Me l'aura ondeggiò sangue, e dui suo scudo 
Uscir fulgori c lampi. Incontanente 
La sua faccia odiata e 'I suo gran fusto 
Raffigurando, i Teucri si lurbaro. 

1’aiidaro allor de la fraterna morte 
Fervidamente irato, avanti a tulli 
Oli si fc ’nconlro, e disse: E’ non è, Turno, 
Questa la reggia clic Rassegna in dote 
La tua regina; c non hai d'Ardea intorno 
Le patrie mura. Me le forze entrato 
Sci dc'nimici, onde scampar non puoi. 

Or via, Turno ghignando gli rispose 
Placidamente, via. se tanto ardisci, 

Meco ti prova; citò ben tostamente 
A Priamo dirai ch’ili questa Troia, 

Come ancor ne la sua, trovossi Achille. 

Ciò dello, gli avventò Pandaro un dardo 
Di tutta forza noderoso e grave, 

E di ruvida ancor corteccia involto. 

L'aura lo prese, c la Saturnio Giulio 
Deviò 'I colpo si che do la mira 
Si torse, c nc la porta si confisse. 

Non si cadrò questa mia spaila in fallo, 
Disse allor Turno; tale è chi la vibra, 

E tal fa colpo. Ed a ferire alzalo 
L'invcst) nc la fronte, c gli divise , 

Le tempie, le mascelle e 'I mento ignudo 
Ancor di barba, infili là’ ve s'appicca 
Il collo al petto. Al suon de la percossa. 

Al fracasso de farmi, a la rflina, 

Che fòr cadendo quelle membra immani, 
Tremò la terra, e nc fu d'atro sangue 
E di cervella aspersa. Egli morendo 
Giacque rovescio, e dechinò la testa 
Parte a l'omero destro, e porle al manco. 

Al cader di costui tal prese i Teucri 
Tema c spavento, che dispersi in fuga 
Sen giro. E s’era il vincitore accorto 
D'aprir la porla c ili por dentro i suoi, 

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DELL' ENEIDE 



Tandem duclores, nudila caede suortim, 

Conrcniunl Teucri, Mncstlicus acerque Sereslus; 
Palantesquc riderli socio*, hostemque reception. 

Et Mnrslheus: Quo deinde lugani? quo tenditi*? inquil. 
Quo* alio* muro*, quae iani ultra moenin habetis? 
Dnus limilo, cl ventri*, o cives, undique sacplus 
Aggeribus, lantas strage* impune per urbem 
Eilidcrit ? iuvenum primo* tot miseri! Orco ? 

Non infelici* polriae, veterumque deorum, 

Et magni Aeneac segnes miscretque pudelque ? 
Talibus acccnsi tirmanlur, et agmine denso 
Consistimi. Turno* paullalim eieedere pugna, 

Et iluvium potere, ac parlcm, quae rlngitur amni. 
Acrius hoc Teucri clamore incombere magno. 

Et glomerarc manum. Ceti saevum turba leonem 
Quum teli* premil infensi*; al territus ille, 

Aspcr, acerba tuens, retro redii; et neque terga 
Ira dare aut virtù* palitur, lice tendere conira, 
lite quidem hoc cupiens, polis est per tela virosque: 
Haud aliler retro dubbia vestigio Turnus 
Improperata refcrl, et mens eiacstuat ira. 

Quii) ctiam bis tum medio* invaserai liostcs; 

Bis confusa fuga per muros agmina vcrtit. 

Sed mnnus e castri* properc coil omnis in unum. 

Nec contro vires audel Saturnia Iuno 



Fora stalo quel giorno e de la guerra 
E de'Troinni il line. Sla la furia 
E l’ardor di combattere, c l'insana 
Ingordigia di sangue nc'l distolse. 

Onde seguendo, in Falari ed in Gigc 
S'abbattè prima. A l'uno il petto aperse; 
Sghcrretlò l'altro. A quei cli'erano in fuga 
Con l'oste di color ch'cran caduti, 

Feria le terga; c nuova occasione 
Gli ponea tuttavia nuov'armi in mano : 
Siccome ancor Giunon nuovo ardimento 
Gli dava e nuove forze. Ali tra questi 
Mandò per terra, c Fégea confisse 
Con lo suo scudo. Derise in su le mura, 
Mentre a'ncmici cren di fuori intenti, 

Alio ed Alcandro e Prilanc c Nomonc 
A Linceo, ch'osò di stargli a fronte 
E chiamare i compagni, con un colpo. 

Che di rovescio con gran forza diegli, 
Uccise il capo, c l'avventò con l'elmo 
Lunge dal busto. Dopo questi ancisc 
Amico, un cacciator ch'era in campagna 
Gran dislruttor di fere, e gran maestro 
D'armar di tosco le saette e'I ferro : 

E Clizio ancisc d'Eòlo il buon figlio, 

E Crcléo de le Muse il caro amico 
E 'I dilcllo compagno; che di versi 
E di cetre c di numeri c di corde 
Era sol vago; c di cantar mai sempre 
0 d armi, o di cavalli, o di battaglie. 

I condolticr dc'Tcncri udita al fine 
De' suoi la strage, insieme s'adunaro 
Mncstco e Scrcslo. E visti i lor compagni 
Dispersi, c già 'I nimico in salvo addursi, 
Gridando, Oh, disse Mneslco, ove fuggite? 
Ove n'andate? E qual ridotta avelo 
0 di mura o di silo altro clic questo? 
Dunque un sol uomo, e d'ogui parte chiuso 
In poter vostro, avrà, miei cittadini. 

Senza alcun danno suo fallo di noi 
N'e la nostra città s) gran macello? 

Tanti dc'nostri giovani sotterra 
Avrà mandati? E noi, noi non avremo 
(SI codardi saremo) o de la nostra 
Infortunata patria, o de gli antichi 
Nostri Penali, o del gran nostro Enea 
Nè pietà, nè rispetto, nè vergogna ? 

Da questo dire accesi e rincorati 
Si ristrinsero insieme. E Turno intanto 
Da la pugna allentando in vèr la parie 
Che dal fiume era cinta, a poco a poco 
Apprcssossi a la riva, onde i Troiani 
Con impelo maggior, con maggior giida 
Gli furon sopra. E qual fiero Icone 
Che da la moltitudine c da farmi 



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LIBRO NONO 



207 



SufDccrc; aeriam coelo nani lupiter Inni 
Demisil, gcrmanae hauti inolila lussa ferentem, 
Ni Turnus ccdal Tcucrurum moenibus allis. 
Ergo nec clipeo iuvenis subsislere tantum, 

Noe delira vaici: inìeclis sic undique telis 
Ohruitur. Slrepil assiduo cava tempora circum 
Tinniti! galea, et saiis solida aera faliscunt, 
Discussaeque iubae capiti; nec sudicit umbo 
Ictibus; ingeminant haslis et Troes et ipsc 
Kulmincus Hnesthcus. Tum tolo corpore sudor 
Liquilur, et piccum ( nec respirare potestas ) 
Flumen agii; fessos quatil aeger anliclilus arlus. 
Tum demum praeceps saltu sesc omnibus armis 
In duvium dedil. Ilio suo cum gurgitc davo 
Acccpit vcnicnlcm, ac mollibus exlulit undis, 

Et laclum sociis ablula caede remisi!. 



Si vede oppresso, Ira Rerczza e tema 
Torvamente mirando, si ritira ; 

Chè nè ’l valor, nè l’ ira gli consente 
Volgere il tergo, ni de‘ cacciatori, 

Nè di spiedi spuntar puole il rincontro : 
Cosi Turno dubbioso o di ritrarsi, 

0 di spingersi avanti, irato e lento, 
Guardigno e minaccioso se n’ andava : 

E due volte avventandosi nel mezzo 
Si cacciò de* nemici ;ed altrettante 
Gli ruppe, e salvo in dietro si ritrasse. 

Al fine in un drappello insieme accolte 
Le Teucre genti incontro gli si fero, 

E di Saturno non osò la dglia 
Di piò forza prestargli : chè dal cielo 
Giove a la sua sorella area mandato 
Iri a farne richiamo, c minacciarle, 

Se Turno immantinente da le mura 
Non uscia de’ Troiani. Or non potendo 
Piò 7 giovine supplire o con la destra, 

Ch’ era a ferir già stanca, o con lo scudo 
Che di dardi c di frecce era coverto ; 

L' elmo già spennacchialo, e l' armi tutte 
Smagliale c fesse, con un nembo addosso 
Di sassi per le lempie, e d' aste a' fianchi, 
Già da Memmo incalzato, aifln cedette. 

E come di sudor colava, ansava, 

E quasi rifiatar piò non potea, 

Con tutte l’ armi in dosso un salto prese, 

E nel Tebro avventossi. Il biondo Tebro 
Placido lo raccolse : c salvo e lieto, 

E da l' occasion purgato e mondo, 

Su l’altra riva a' suoi lo ricondusse. 




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LIBRO DECIMO 



Pandilur ih lecca domus omnipotcntis Olympi, 
Conciliumquc vocìi divftm pater atque hominutn rex 
Sidcream in sedem: terras unde arduus omnes, 
Caslraquc Dardanidùm adspcctat, populosque Latino». 
Considunt tcctis bipatentibus. Incipil ipso: 



Coclicolae magni, quianam sentcnlia vobis 
Ver$a retro, tanlumque animi» cerlatis iniquis ? 
Abnucram bello Ilaliam concurrere Teucris. 

Quae conira velilum discordia ? quis roclus aul hos 
Ani Dos arma sequi, ferrumque lacessen* suasil ? 
Advcnict iustum pugnae, no arcessite, tempus, 
Quum fera Carthago Romani» arcibus olim 
Exìtium magnum atque Alpes immiltet apcrlas: 
Tum ccrtarc odiis, tum res rapuissc liccbit. 

Pinne sinite; el placidum laeti componile foedus. 



lupiter baec paucis; al non Venus aureo conira 
Pauca refcrl: 

0 pater, o Dominimi divùmquc aelerna poleslas ! 
(N'amquc aliud quid sit, quod iarn implorare queamus?) 
Ccrnis ut insultcnl Rutuli, Turnusque feralur 
Per medios insigni» equis, tumidusque secundo 
Marie rual ? Non clausa tegunt iam moenia Teucros. 
Quin intra porlas alque ipsis proelia misccnl 
Aggeribus moerorum; cl inundanl sanguine fossac. 
Acncas ignarus abest. Nunquarane levati 
Obsidionc sinrs ? Muris ilerum immincl hoslis 
Nasccnlis Troiae; lice non cxcrcitus alter, 

Alque ilerum in Teucro» Aduli» surgil ab Arpis 



Aprissi la magion celeste iutanto ; 

E del cielo il gran Padre in cima ascese 
Del suo cerchio stellalo. Indi mirando 
La terra, e de’ Troiani e de’ Latini 
Visio il conflillo, a sè degli altri dei 
Chiamò 'I consiglio. E com'era da l'orlo 
E da l' occaso la sua reggia aperta, 

Hallo lutti adunali, assi»! e cheti, 

Disse egli in prima : 

Cittadini eterni, 

Qual ?’ ha cagione a distornar rivolti 
Quel eh' è già stabilito ? A che Ira voi 
Con tanta iniquità tanto contrasto? 

Non s' è da me già proibito c fermo 
Che non deggian gli Ausonii incontro a'Teucri 
Sorgere a farmi ? Che discordia è questa 
Contro al divieto mio ? Qual ha timore 
A la guerra incitati o questi, o quelli ? 

Tempo vi si darà ben degno allora 
Di guerreggiar ( non f affrettate or voi ) 

Che la fera Carlago aprirà l'Alpi, 

Grave a Roma portando esizio e strage. 
Allora a gli odii, al sangue, a le rapine 
Larga vi si darà licenza e campo. 

Or lietamente la tenzone e l’ armi 
Fermate ; e sia tra voi concordia e pace. 

Tal fece ragionando il gran monarca 
Breve proposta. Ma non brevemente 
Venere in questa guisa gli rispose : 

Padre c re de’ celesti, c de* mortali 
Eterna possa ( e qual altra maggiore 
S' implora altronde ? ) ecco tu stesso vedi 
L’ arroganza da' Rutuli, c quel fasto 
Cou che Turno cavalca ; e vedi il vampo 
E la ruina che si mena avanti, 

Da la sua tracotanza e dal successo 
Di questa pugna insuperbito c gonfìo. 

Vedi i Teucri infelici, eh’ ancor chiusi 
Non son securi ; e ’nlln dentro a le [►urte 



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unno DECIMO 



Kl9 



Tjdides. Equidcm, credo, mea vulnera rcslanl; 

El lua progenie? morlalia demoror arma t 
Si sine pace lua, alque invilo numine, Troes 
Italiani pcticre: luanl peccala; ncque illos 
luveris ausilio. Sin lol responsa seculi, 

Quae Superi Mancsque dakanl: cur nunc Ina quisquam 
Vertero iussa polesl, aul cur nova conderc fata ? 

Quid rcpelam ciuslas Erycino in lilore classes ? 

Quid lempeslatum regem, venlosque furenlcs 
Aeolia eveitos ? aut actam nubibus Irim f 
Nunc ctiam Manes (haec internala manebat 
Sora rerum) mosci: et supcris immissa repente 
Alicelo, medias IlalAm bacchata per urbes. 

Nil super imperio moveor: spcravimus iste, 

Dum fortuna fuit: «incanì, quos vincere matis. 

Si nulla esl regio, Teucris quam del lua conium 
Dura: per eversac, gcnilor, fumanlia Troiac 
Excidia obteslor: liceal dimillcrc ab armis 
Incolumem Ascanium, liceal superessc nepolem. 
Aeneas sane ignotis iactelur in undis, 

El, quameunque viam dederil Fortuna, scqualur: 
dune legcre, el dirae valeam subdueerc pugnae. 

Est Amalhus, esl celsa mihi Paphus, alque Cvìliera, 
Idaliaeque doinus: posilis mglorius armis 
Eligai bic acumi Magna dilionc iubelo 
Carlhago premal Ausoniam: nihil nrbibus inde 
Obslabil Tyriis. Quid pcslem evadere belli 
luvit, el Argolicos medium fugisse per ignee; 

Tolque maria vaslaeque ezhausta pericula lerrae, 

Dum Lalium Teucri reridivaque Pcrgama quaerunt? 
Non satius, cineres patriae insedissc suprernos, 

Alque solum, quo Troia fui! ? Xanlhum el Simoènta 
liedde, oro, miscris; ilerumquc rosoliere casus 
Da, pater, iliacos Teucris. Tum regia Inno 
Acla furore gravi: Quid me alla silenlia cogis 
Rumpcre, el obductum verbis vulgarc dolorcm ? 
Aencan hominum quisquam divAmque subegil 
Bella sequi, aul lioslom regi se inferre Lalino ? 

Ilaliam fatis pelli! auclorìbus, rslo, 

Cassandrae impulsus furiis: num liaqucrc castra 
llorlati sumus, aul vilam commillere venlis? 

Num pucro simun, mi belli, num credere murosf 
Tvrrhcnamve fldem «ut genlcs agitare quielas f 
Quis deus in fraudem, quae dura poteotia nostri 
Egil ? Ubi hic Inno, demissave nubibus tris ? 

Indignum est, Dalos Troiam circumdare Hammis 
Nascenlem, el patria Turnum consislerc terra, 

Cui Pilumnus avus, cui diva Venilia mater: 

Quid, face Troianos atra vini Terre Lalinis ? 

Arva aliena iugo premere, alque avertere praedas? 
Quid, soceros logore, el gremiis abdueere paclas? 
Pacem orare manu, praeflgere puppibus arma ? 

Tu poles Aencan omnibus subducere GraiAm, 

Proque viro nebulam el ventos oblondere inanes; 

El pules in lolidem classeui convcrlcre Nymphas: 



E 'n su' ripari e ’n su le lor difese 
Son combattuti : e la lor propria fossa 
E di lor sangue un lago Di ciò nulla 
Il mio figlio non sa: tanto n’ è lungo. 

Or non ila eh' una volta esca d' assedio 
Questa misera genie? Ecco hsn le mura 
De P altra Troia altri nimici attorno ; 
Altro esercito in campo; un' altra volta 
D' Arpi vico Diomede a' danni suoi. 

Resta, crcd' io, eh' un' altra volta ancora 
l i sia da lui ferita, e che di nuovo 
Sia la tua figlia a mortai ferro esposta. 
Signor, se conira la lua voglia i Teucri 
Son vcnuli in Italia, è ben ragione 
die sian puniti, e del tuo aiuto indegni : 
Ma se traili vi sono, e s’è lor dato 
Da gli oracoli lutti e de' celesti 
E de gl’ inferni; qual può senno o forza 
A Giove opporsi, e far nuovo destino ? 
Cb’ io non vo' dir de le combuste navi 
Su la spiaggia Ericina, nè de' venti 
Che 'I re spinse d' Eolia a tempestarlo, 
Nè d‘ Iri clic di qui fu già mandata 
Per darle al foco. Infin da l’ Acheronte 
Tratte Ita le Furie ( questa sol mancava 
Parie de l‘ universo non tentala 
A loro offesa ), d’ Acheronte, dico, 

Ila tratta Alello a suscitar T Italia 
Inconlr' a loro. Or, signor mio, non curo 
Più d’ altro imperio. Io lo sperata allora 
Ch'era più fortunata. Imperi e vinca 
Or chi V aggrada. E s' anco non £ loco 
Nel inondo, ove a la tua dura consorte 
Piaccia che sian quest’ infelici accolli, 

Per l’ incendio, Signor, per la rùina, 

E per la solitudine ti prego 
De la mia Troia, che ritrar mi lasci 
Salvo da questa guerra Ascanio almeno. 
Lasciami, padre mio, questo nipote 
Mantener vivo; e se ne vada Enea 
Ramingo, ovunque il mare o la fortuna 
Lo si tramandi, lo lo terrò da l'aruii 
Remolo ne' mici lochi, o d' Amatunla, 

0 d' idalio, o di Pafo, o di Citéra, 

A menar vita ignobile e privata, 

Pur che sicura. E lu, come a te piace, 
Comanda eh' a l’ Ausonia il giogo imposto 
Sia da Cartago, si che più non l’ osti 
In alcun tempo. Or che, padre, ne giova 
Che da l' occisioni e da gl' incendi 
De la lor patria e da lant' altri rischi 
Sian già dei mare e de la terra usciti ? 

E clic vai che da le sia lor promessa, 

Da lor tanto ricerca, c già Dovala 
Questa Troia novella, se di nuovo 



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210 



DELL’ ENEIDE 



N'os aliquid Rullilo* conira iuvisse, nefandum est ? 
Acneas ignarus abusi: iguaru* cl absil. 

Est Paphus, Idaliumque libi, suol alla Cylhcra: 

Quid graiidam belli* urbcm cl corda aspcra Itola* ? 
Nosne libi fluias Phrygiac rea venere fundo 
Conamur ? nos ? an miseros qui Troas Achilli 
Obiccil ? Quac causa Tuil, cousurgerc ili arma 
Europanique Asiamque, el foedera solvcrc furio T 
Me duce Daulanius Sparlam espugnavi! aduller ? 
Aut ego tela dodi, fovivc Cupidinc bella ? 

Tuoi dccuil mctuissc tuis; nunc sera quereli* 
llaiid iuslis assurgi*, el irrita iurgia iaclas. 



Convien che cagglaf Assai meglio sarebbe 
Che fosser Ira le ceneri e nel guasto, 

Dove fu l'allra. A Xanlo, a Simòenla 
Fa’ li prego, signor, che si radduca 
Questa genie infelice, e che ritorni 
A passar d'ilio i guai. Giunone allora 
Infuriala, A che, disse, mi lenii. 

Perdi' io rompa il silenzio, e mostri il duolo 
Ch' ho portalo nel cor gran lempo ascoso ? 
Qual è mai per lua fé sialo uomo, o dio, 

Ch' Enea sfuriasse a cercar briga ? a farsi 
Nemico il re Latino 7 Oh 'I Falò addotto 
L’ ha ne l' Italia I Si, ma da le furie 
C'è spinto di Cassandra. E chi gli Ita dato 
Consiglio, io forse 7 ch* abbandoni i suoi ? 
lo, clic dia la sua vita in preda a' venti 7 
Io, che la cura e'I carco de la guerra 
Lasci in man d’ un fanciullo 7 e che sollevi 
I popoli Tirreni, e l’ altre genti 
Clic si stavano in pace ? E quale iddio, 

Qual mia durczia de’lor danni è rea 7 
Qui die rileva o di Giunon lo sdegno, 

0 d' Iri il ministero! Indegna cosa 
È certo che da gl' Itali s' infesti 
Questa tua nuova Troia. E degno e giusto 
Sarà che Turno non si stia sicuro 
Ne la sua patria terra? un tal nipote 
Di Pilunno eh’ è divo, un tanto figlio 
Di Venllia eh' è ninfa 7 E degna cosa 
Ti par che muova Enea la guerra a Lazio ? 
Ch' assalga, che soggioghi, che depreda 
Le terre altrui? che l' altrui donne usurpi ? 
Ch’ in man porli la pace, e che per mare 
E per terra armi ? Tu potrai tuo figlio 
Scampar da' Greci; tu riporre invece 
Di lui la nebbia c 'I vento; tu la forma 
Cangiar delle sue navi in altrettante 
Ninfe di mare; ed io cosa nefanda 
Forò se porgo a' Bululi un aiuto, 

Per minimo che sia? Non v’ è tuo figlio 
Presente; non vi sia : non sa; non sappia. 
Sci regina di Pafo, d' Amatunla, 

Di Citerò e d' ldalio : e che vai dunque 
Provocando con l’ armi una contrada 
Non tua, pregna di guerre? e stuzzicando 
SI bellicosa gente? Ed io son quella, 
lo, che l' afflitte lor fortune agogno 
Di porre al fondo ? E perchè non piò tosto 
Chi de' Greci a le man gli pose in prima ? 
Chi prima fu cagion eh' a guerra addusse 
L’ Europa c l’ Asia ? Chi commise il furto 
Che fu de la rottura il primo seme ? 
lo condussi l' adultero pastore 
A l’ impresa di Sparla ? Io fui eli’ a l' armi, 
lo di' a l' amor l' accesi. Allora il tempo 



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LIBRO DECIMO 



211 



Talibus orabai Iuno: cunclìquc frcmcbanl 
Coelicolac asscnsu vario; ccu fiamma prima 
Quum deprensa frcmunl silvia, ci cacca volulant 
Murmura, venturos naulis prodentia vcnlos. 

Tum pater omnipolens, rerum cui somma potcslas, 
Infit. Eo diccntc deflm domus alta silescit, 

Et tremefacta solo tellus; siici arduus aelher; 

Tum Zcphyri posucre; prcmil placida aequora ponlus. 
Accipilc ergo, animi* alque liacc mea figile dieta. 
Quandoquidcm Ausonios coniungi foedere Teucris 
Ila ud licilum, ncc vostra capii discordia flneni: 

Quac cuiquc est fortuna bodie, quam quisque sccat 

spem, 

Tros Rutulusvc fuat, nullo discrimine habebo; 

Scu falis llalùm castra obsidionc Icnenlur, 

Sivc errore malo Troiae monilisquc sinistris. 

Nec Rululns solvo. Sua cuiquc ciorsa laborcm 
Forlunamquc ferenl. Re* lupiler omnibus idem. 

Falò viam invenient. Siygii per flumina fratris, 

Per pice lorrenles alraquo voragine ripas 
Adnuit, cl lolum nulu Iremefecit Olympum. 

Hic linis fandi. Solio lum lupiler aureo 

Surgil, coelicolac medium quem ad limina ducimi. 



Inlerea Rutuli porlis circum omnibus inslant 
Stemerc cacdc viros, el moenia cingere flammis. 
At legio Aencadum vallis obscssa tcnelur; 

Ncc spes ulta fugac. Miseri stani lurribus allis 
NYquidquam, el rara muros cinvcre corona: 

Asius Imbrasides, Ilicelaoniusquc Thyinoeles, 
Assaraciquc duo. el senior cum Castore Thymbris, 
Prima acies. Ilos permani Sarpcdonis ambo, 

Et Clarus cl Tlicmon, Lycia comilanlur ab alta. 
Feri ingcns lolo connixus corpore sa x uni, 

Ilaud partem exiguam monlis, Lyrnesius Acmon, 
Noe Clytio genitore minor, nec fralre lleneslheo. 
Ili iaculis, illi cerlanl defendere saxis, 

Molirique ignem, nervoque aplarc sagillas. 

Ipsc inicr medio». Veneri» iustissima cura, 
Dardanius capul, ecce, puer delcclus honcslum, 
Qualis gemma, micat, fulvum quac dividii aururu, 
Aul collo decus, aul capili; vcl quale per arlem 
Inclusum buio, aul Oncia lircbinlbo, 



Fu d'aver tema e gelosia de* tuoi, 

Non or che le querele c le rampogne 
Che ne fai, sono ingiuste c Iarde c vane. 

Così Giuno dicca; quando fremendo 
Gli dei tulli mostràr, che chi con questa 
Consenlian, chi con quella. In guisa tale 
S’ odono i primi venti entro una selva 
Mormorar lungc, c non veduti ancora 
Porgere a' marinai indizio e tema 
Di propinqua tempesta. Allor del ciclo 
Il sommo, eterno, onnipotente Padre 
Riprese a dire. Al suo parlar chetossi 
La celeste inagion; chctàrsi i venti, 

E l' aria c P onde; e sola inflno al centro 
Tremò la terra. Ei disse : Or clic gli Ausonii 
Confederar co* Teucri nc si toglie, 

E voi tra voi non v* accordale, udite 
Quel eli* io vi dico, e i mici detti avvertite. 

| Quella stessa fortuna quella speme. 

Qual eli* ella sia, che i Rutuli o i Troiani 
Oggi da lor faransi, io vi prometto 
| Aver per rata, e non punto inchinarmi 
Più da quei che da questi : c sia P assedio 
| De* Teucri o per destino, o per errore, 

0 per false risposte. E ciò dico anco 
De' Rutuli. Il successo c buono e rio 
Fia d’ una parte e d’ altra qual ciascuna 
Per sè lo s’ordirà; Giove con ambi 
Si starà parimente, e ’1 Palo in mezzo. 

Cosi detto, il torrente c la vorago 
E la squallida ripa e P atra pece 
D* Acheronte giurando, abbassò *1 ciglio, 

E tremar fé* col cenno il mondo lutto. 

Finito il ragionar, suso lev ossi 

Dei seggio d* oro; e gli fór tutti intorno 

Corona c compagnia fino a P albergo. 

L* esercito ile* Rululi stringendo 
L' assedio, intanto, in su le porte c ’nlorno 
Facca de la muraglia incendi c stragi ; 

E i Teucri assediali, entro a i ripari 
E sopra a i torrioni a la difesa 
Siavan, miseri ! indarno; e senza speme 
Di fuga un raro cerchio avean disteso 
Su per le mura. Era de' primi Àso 
D' Imbrasio il tìglio, e ’l figlio d'icclónc 
Dello Timcle, e ’l buon Castore insieme 
Col vecchio Tembro, ed ambi dopo questi 
Di Sarpedonte i frati : e Chiaro, c Temo 
Onor di Licia, c di Lirncsso Aminone. 

Questi con un gran sasso era venuto 
Su la muraglia, clic ’l maggior estollo 
Era d’ un monte; cd egli era non punto 
Minor del padre Clizio c di Mcncslo 
Suo famoso fratello. Altri con sassi, 

Altri con dardi, c chi con le saelle, 



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212 



DEM: ENEIDE 



Lucei ebur; fusos cervi* cui laelea crincs 
Accipit cl molli subneclens circulus auro. 

Te quoque magnanimae viderunt, Ismare, gentcs 
Vulnera dirigere el calamo* armare veneno, 
Maconia generose domo: ubi pinguia culla 
Excrccnlque viri, Pactolosque irrigai auro. 

Ad Tu il el Mnesthcus, quem pulsi pristina Turni 
Aggcrc mocrorum sublimcm gloria lollit, 

Et Capys: bine nomcn Ganipanac ducilur urbi. 



Pandite nunc llclicona, deae, canlusque movele; 



E chi col foco a guardia eran elei muro. 

In mezzo de lo schiere il vago Iulo, 

Gran nipote di Dnrdano c gran cura 
De la bella Ciprigna, il volto e ’l capo 
Ignudo, risplendca qual chiara gemma 
Che in òr legata altrui raggi dal petto 
0 da la fronte; o qual da dotta mano 
In ebano commesso, o in terebinto 
Candido avorio a gli occhi s* appresenla. 
Sovra al collo di latte il biondo crino 
Avea disteso, e d* oro un lento nastro 
Gli facea sotto e fregio insieme e nodo. 
Isniaro, e tu fra si famosa gente 
Con l’ arco saettar ferite e tosco 
Fosti veduto, generosa pianta 
Del Meonio paese, ove fecondi 
Sono i campi di biade, e i fiumi d* oro. 
Mnesteo v’ era ancor egli, a cui la fuga 
Dianzi di Turno avea gloria acquistata, 

Ond’ era fino ot ciel sublime e chiaro. 

Eravi Capi, onde poi Capua il nome 
E l' origine ha presa. 

Avcan costoro 
Tra lor diviso il carico e*l periglio 
Di si dura battaglia. E 'n questo mentre 
Solcava Enea di mezza notte il mare. 

Egli, poiché d’ Evandro ebbe lasciato 
L* amico albergo, e che nel campo giunto 
Fu degli Elrusci, al rege appresontossi. 

E cou lui ristringendosi, il suo nome, 

Il suo legnnggio, la sua pairia, in somma 
Chi fosse, die chiedesse, che portasse 
Gli espose; e qual Mcienzio appoggio avesse, 
E l'orgoglio di Turno, c l’ apparecchio 
K l’ incostanza de I' umane coso 
Gli pose avanti. A le ragioni aggiunse 
Esempi e preci si, eh 1 immantinente 
Tarcontc acconsentì. Slrinser la lega, 

Unir le forze, cd appreslàr le genti 
In un momento. Di straniero duce 
Provvisti i Lidii, e già dal Fato sciolti 
Salir sovra l'armata. E pria di tutti 
Uscio d* Enea la capitana avanti. 

Questa avea sotto al suo rostro dipinti. 

Quai sotto al carro de la madre Idea, 

Due che 'I legno Iracan Frigii leoni, 

E d' Ida gli pendea di sopra il monte. 

Amaro suo disto, dolce ricordo 
Del patrio nido. In su la poppa assiso 
Slava il duce Troiano : e da sinistra 
Avea d’ Evandro il figlio, che tra via 
1/ interrogava or del viaggio stesso 
E de le stette, ed or de gli altri suoi 
0 per terra o per mar passati affanni. 
Apritemi Elicona, alme sorelle, 



(Ili intcr scse duri ccrlamina belli 
Conlulcranl: media Aencas Trota norie sccabat. 
Namque ut, oh Evandro castri» ingressus Etruscis, 
Regem adii, et regi memorai nomenque genusque; 
Quidve pelai, quidve ipse forai; Mezcnlius arma 
Quac sibi conciliel; violcnlaque pretore Turni 
Edocet; humanis quae sii fiducia rebus 
Admonet, imnmcelque prcccs: haud fll mora : Tarcho 
lungil opcs, foedusque ferii; turo libera fati 
Classem conscciulit iussìs gens Lydia divftm, 

Esterno commusa duci. AeucTa puppis 
Prima tcnct, rostro Phrygios subiuncla leoncs. 
Immincl Ida super, profugis gratissima Teucris. 

Hic magnus sedei Acneas, secumque volutat 
Eventus belli varios; Pallosque sinistro 
Afllxus lateri iam quacril sidera, opacac 
Noclis iter, iam quae passus terraque marique. 



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UDRÒ DECIMO 213 



Qtiae mnnus inlcrca Tusris comiletur ab ori* 
Aencan, ormelquc ratcs, pelagoquc vebalur. 

Massico* aorala princops sorai aequora ligri: 

Sub quo mille manus iuvrnum, qui moonia Clusl, 
Quiquc urbem liquore Cosas: qu)s tela sngillae 
Goryliquc levos humeris el lelifer arcus. 

Una lorvus Abas: buie (otum insignibus armi* 
Agmcn, et aurato fulgebal Àpollìne puppis. 
Sexcentos illi (lederai Populonia maier 
Eiporlos belli iuvenes; asl Uva Irecenlos 
Insula, inexbaiislis Cbalybum generosa metollis. 
Tertius, ille hominum divftmque inlerpres Asilas, 
Cui pecudum fìbrae, coeli cui sidera parcnt, 

Fi linguac volucrum, el praesagi lulminis ignes, 
Mille rapii densos arie appio horrenlibus basii*, 
llos parere iubenl Alpbeae ab origine Pisae, 

Urbs Elrusca solo. Sequitur pnldierrimus Aslur, 
Aslur equo fidens cl versicoloribus armi*. 
Terccnlum adiiciunl (mens omnibus una sequendi ), 
Qui Caerelc domo, qui sunl Minionis in arvis, 

Et Pyrgi velerei, intcmpestacque Graviscae. 



Non ego le, Ligurum durlor forliss ; me l*ello, 

Tra risieri m, Cinyra et paucis comitale Cupavo, 

Cuius olorinae surgunl de veri ice penane, 

C.rimen, Amor, veslrum, formneque insigne paterna?. 
Namque ferunt, luclu Cycnum Phaèihonlis amali, 
Populeas inler frondes umbramque sororum 
Duin cani!, et mocslum Musa solatur amorem, 
Canenlem molli piuma duxisse senecioni, 
Linqucntem lerras, et sidera voce sequenlcm. 

Filius, acquale* comilaius classe caterva*, 

Ingenlcm remi* Centaurum promovei; ille 
Instai aquac, sa.vumque undis immane minalur 
Arduus, el longa sulcal maria alia carina. 



Ilio eliam patriis agmcn ciel Ornus ab oris, 
Falidicae Manlus cl Tusci fìlius amnis, 

Qui niuros mairisque dedii libi, Manina, nomen, 
Manina, dives avis; sed non genus omnibus unum. 
Gens illi Iriplcx, popoli sub genie qualerni; 

Ipsa caput populis; Tu sco de sanguine vires. 
Virgilio vol. muco 



E cantale con me che genie c quanta 
D* Klrnria Enea seguisse, c di clic parie, 

E con qual armi, c come il mar solcasse. 

Massico il primo in su la tigre imposto 
Avea di mille giovani un drappello 
Che di Chiusi e di Cosa cran venuti 
Con I* arco in mano e con sacllc a' (lancili. 
Appresso a lui seguendo il lorvo Abanle 
Sodo l'insegna del doralo Apollo 
Seicento n’ imbarcò di Populonia, 

Trecento d' Elba, in cui ferrigna vena 
Abbonda sì clic erano ancor essi 
Dal capo a i piè tulli di ferro armali. 

Asila il terzo, sacerdote e mago 
Che di libre e di fulmini c d’ uccelli 
E di stelle era interprete e ’ndovino. 

Mille ne conducca, eh* un* ordinanza 
Facean lulla di picche, e lutti a Pisa 
Eran suggelli, a la novella Pisa 
Che, già figlia d’ Àlféo, d'Arno ora è sposa. 
Astore, ardito cavalicro c bello 
E con bell’ armi di color diverse, 

Vicn dopo questi con Irccenlo appresso 
Di vari lochi, ma d'un solo amore 
Accesi a seguitarlo. Eran marnimi 
Da Cerclc e da i campi di Mignone, 

Da i Pirgi anllchi e da 1* aperte spiagge 
De la non salutifera Gravisca. 

Di le non lacerò, Cigno gentile, 

Di Cupavo dicendo, ancor che poche 
Fosscr le grilli sue. Questi di Cigno 
Era figliuolo, onde ne 1* elmo uvea 
De le sue penne un candido cimiero 
In memoria del padre, e de la nuova 
Forma in eli* ei si cangiò, lua colpa, Amore. 
Cbè de l’ amor di Faetonte acceso, 

Come si dice, mentre clic piangendo 
Slava la morie sua, mentre cb'a l'ombra 
De le pioppo, che pria gti eran sorelle, 
Sfogava con la Musa il suo dolore; 

Fatto cantando già canuto e vèglio 
In augel si converse, c con la voce 
E con I* ali da (erra al cielo alzossi. 

Il suo figlio co* suoi portava un legno 
A cui tolto la prora c sopra l’ onde 
Slava un centauro minaccioso e loivo, 

Clic con le braccia e con un sasso in allo 
Sembrava di ferirle, e via correndo 
Col pello le Tacca spumose c bianche. 

Ocno poscia venia, del Tosco fiume 
E di Manto indovina il chiaro figlio. 

Che le, mia patria, eresse, e che del nome 
De la gran madre sua Manlun li disse; 
Manlua d’allo legnaggio, illustre e. ricca, 

E non d’ un sangue. Tre le genti sono, 

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2li 



DELL' ENEIDE 



liinc quoque quHigenlos in so Mczenlius armai, 
Quos patre Benaco velalus arumline glauca 
Mincius infosla dticebal in acquora pimi. 

Il gravis Aulestes, cenlenaque arbore flnrltim 
Verberal assurge»*: spuma»! vada marmorc verso. 
Hunc vchil immani* Trilon el ramila concila 
Kxterrcns troia: cui laterum lenus hispida nauti 
Frons hominem praefert, in prislin desimi alvus; 
Spumea semifero sub peclorc niurmural unda. 

Tol ledi proceres ler denis navibus ibanl 
Subsidio Troiue, el campus salis aere secabanl. 



Iamquc d es melo roncesseral, almaque corro 
Nodivago Phoebe medium pulsabat Olympum: 

Acneas ( neque enim mcmbris dal cura quiclem ) 

Ipse scdcns clavumque regii vclisquc minislral. 

Alque illi medio in spalio elioni*, ecce, sunrum 
Occurril comilum; Nymphae, qnas alma Cybcle 
Numeri habere maris. Nymphasquc e navibus esse 
lusserai, innabanl pariler, fluctusque serabant, 

Qùol prius aeralae sleleranl ad lilora prorae. 
Agnoscunl longe regem, luslranlquc elion i s. 

Quarum quac fandi dottissima, Cymodorea, 

Pone sequens delira puppiro lenel, ipsaque dorso 
Emine!, ac lae*a lacitis subremigat undis. 

Tum sic ignarum alloquilur: Vigilnsne, definì gens. 
Acnca ? Vigila, et velis immille rudenles. 

Nos sumus, Idaeae sacro de verlice pinus, 

Nunc potagi Nympbnc. classis tua. Perfìdus ut nos 
Praecipiles ferro Rutul us flommaque premebat, 
P.upimus invilae tua vincula, teque per aequor 
Quaerimus Itane Gcnclrix faciem miserala rcfccil. 

Et dedii esse dea*, oevumque agitare sub undis. 

Al pucr Ascauius muro fossisque lenetur 
Tela inter media alque horrenles Marte Latinos. 

Inni loca iussa lenel torli permixlus Etrusco 
Àrcas eques. Medias illit opponere lumia*, 

Ne caslris iungant, certa est sentenlia Turno. 

Surge age, el Aurora socios veniente vocali 
Primus in arma iube, el ciipeum cape, quern dedii ip'i 
Inviclum ignipolens, alque oras ambili auro. 

Crasi ina lux, mea si non irrita dieta pillar is, 

Ingcnles Ruiulae speclabii caedis acervos. 

Dixerat: et dexlra discedens impubi allam, 

Ilaud ignara modi, puppim. Fugil illa per undas 
Odor el iaculo et ventos acquante sagitta. 

Inde aline colorali! cursus. Slupet insci us ipse 



E de le Ire ciascuna a quattro impera. 

Di cui lulle ella è capo, e tutte insieme 
Sun con le forze de I’ Elruria unite. 

Quinci ne tur contro Mezcnzio armali 
Cinquecento altri; e Minrio mi tiglio alloro 
Del gran BéTiaco fu dm gli condusse 
Di verdi canne inghirlandato il Tronic. 

Giva il superbo Auleste con un legno 
Di cento travi il mar solcando in guisa 
Clic spumante il face*, sonoro e crespo. 
Premea lo spalle d* un Tritóne immane 
Clic con la cava sua cerulea conca 
Tremar si Tacca l' acqua e i liti intorno. 

Dal mezzo in su, la fronte ispido e ’l menta 
Sembra d' umana forma; c T ventre in pesce 
Gli si rislringc, c col ferino pcllo 
Fende il mar si clic rumoreggia e spuma. 

Da quesii eleni croi, con queste genti 
Eran 1* onde Tirrene allor solcale 
In sussidio di Troia. 

E già dal cielo 

Caduto il giorno, era de E orla in cima 
La vaga Luna, quando il Frigio duce 
Or al limone, or a la vela intento 
Co’ suoi pensicr vegliava. Ed ecco avanti 
Nuotando gli si fa di Ninfe un coro. 

Di lui prima compagne, c quelle stesse 
Clic, già sue navi, da Cibele in Ninfe 
Furo» converse, e dee falle del mare. 

Tante in frolla ne gian per V onde a nuolo 
Quante eran navi in prima. E di lontano 
Riconosciuto il re, danzando in cerchio 
Gli si strinsero intorno. Dna fra I* altre 
La più di tulle accorta parlalrice, 
Cimodocèa, la sua nave seguendo. 

Con la destra a la poppa, e con la manca 
Tacila remigando, il capo e il dorso 
Solo a galla lenendo, d'improvviso 
Cosi gli disse: Enea stirpe divina. 

Vegli lu ? Veglia : il fune allenta, e ’l seno 
Apri a le vele lue. De la lua classe 
Noi fummo i legni e de la selva Idea, 

E siamo or Ninfe. I Rullili col foco 
N’ hanno c col ferro dipartite e spinte 
Da’ tuoi nostro mal grado. Or le cercando 
Siam qui venule. Per pietà di noi 
La Berecinzia Madre in questa forma 
N* ha del mar falle abitatrici e dee. 

Ma ’l luo fanciullo Julo in mezzo a l’ armi 
Si sla cinto di fos>a e di muraglia 
Da’ feroci Lalini assediato. 

I tuoi cavalli e gli Arcadi e gli Etrusci 
Unitamente hanno già preso il loco 
Comandalo da le. Turno disegna 
Co' suoi d’ailmcr.'&rli, e porsi in mezzo 



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L1BK0 DECIMO 



215 



Tros Aiicliisiadcs; aiiimos lanieri ornine kiilil. 

Tum brevltor supera adspectuns conviva precalur: 
Alma parens Idaea deùtn, cui Dimlyinu cordi, 
Turrigeraeque uibes, biiugique ad frena (conca; 

Tu inibì nunc pugnae priuceps, lu rile propinque* 
Auguriuin, Plirygibusque adsi> pede, diva, secondo. 
Tannini cfTulus; el interro revoluta ruebal 
Matura iam luce dies, nuctcmque fuganti. 



Principio soni* cdiril, sigua sequantur, 

Alque animos apleot arinis, pugnaeque parchi se. 
laniqtie in conspeclu Teucros liabet et sua castra, 
Sloiis celsa ili poppi; clipetim quum deinde sinistra 
Kvlulil ardenlein. Clamorem ad sidera tollunt 
Dardnnidae e muri>; spes addila suscitai (ras: 

Tela maini iaciunl. Quale* sub nubibtis airi* 
Strymoniae dant signa grues, «Iqiie aelbera Irnnunl 
Cum sonito, fugiuiilque nolo* clamore secuudo. 

Al Rullilo regi ducibusque ea mira videri 
Ausoniis; dorme versa» ad liiora puppes 
llespiciunl, lotumque allibi clossibus oequor. 

Arde! ape* capili, cristisque a vertice flannna 
Fundilur, et vasi os limbo vomit aureus ignes: 

Nuli seeus, ac liquida si quando nocle comclau 
Sanguinei lugubre rubenl, aul Sirius arder: 
llle silim morbosque ferens morlalibus aegris 
Nascitur, et laevo contristai luminc coclum. 



Ilaud lanieri audaci Turno fiducia ccssil 
I. fiora proeeipere, et venienles pellere terra. 

| Ultro animos lollil diclis. alque increpat ullro:] 
Qnod voti» optasti*, ad est, perfringerc destra. 

In manibus Mars Ipse, viri. Nunc coniugi* osto 



Tra *1 rompo c loro Or via naviga, approda; 
Sorgi tu pria che ’l sole, e sii lu ‘I primo 
Ad ordinar le tuo genti a battaglia. 

Prendi l' invitto c luminoso scudo 
L>a Vulcuu fabbricalo e d' òr commesso. 

Clic dimmi, se mi credi, alta e famosa 
Farai lu strage de' nemici tuoi. 

Ciò disse, e come esperta al legno iu poppa 
Tal diè pinta al partir, die più veloce 
Corse die dardi* o slral die ’l vculo adegui. 
Dietro gli altri ofTretlàr si clic stupore 
N* ebbe d' Aneli isc il figlio. K rincoralo 
Da sì felice annunzio, al cielo orando 
Div Giumente si rivolse, e disse : 
j Mina di^a de gli dei gian genitrice, 

Di Dindiino regina, die di torri 
I Vai coronala e 'li su leoni assisa, 

Te per mia duce a questa pugna invoco. 

Tu rendi questo augurio e questo giorno, 
j Ti priego, a i Frigit tuoi propizio e lieto. 
Questo sol disse; e luminoso intanto 
Si fece il mondo. 

Fi primamente impose 
Che ratto al segno suo ciascun ne gisse, 

Ch’ ognun s’ armasse, ognuno a la battaglio 
Si disponesse. E già venuto a vista 
De’ Rullili e de’ Teucri, allo It-vossi 
lu su la poppa; s* imbracciò lo scudo, 

E lo vibrò sì eli’ ambedue raggiando 
Empiè di luce c di baleni i compì. 

Di su le mura la Dardnnia gente 
Gioiosa intino al cicl le grida alzuro; 

E soprngg uniti lu speranza a l' ira 
A Irar di nuovo c saettar si diero 
Con un rumor, qual sotto l’ atre nubi 
Nel dar segno di nembi enei fuggirli 
Fan le Slrimonie gru schiamazzo e rombo. 
Mentre ciò Turno e gli altri Ausouii duci 
Slavan meravigliando, ecco a la riva 
Si fa pien d’ armi e di navilii il mare. 

Enea di cima al capo e de la cresta 
Del fino elmo spargea lampi e scintille 
()* ardente, fiamma; e gran lustri e gran fochi 
Raggiava de lo scudo il colmo e I* oro, 
i Come uè la serena umida notte 
j La lugubre e mortifera cometa 

Sembra clic sangue avventi; o ’l Sirio rane, 
Quando nascendo a' miseri mortali 
Ardore c sete e pestilenza apporla, 

E col funesto lume il ciel contrista. [me 
Non meli per questo ha Turno ardire c spe- 
D' occupar prima il filo, e da I* terra 
Ributtare i nemici. Egli, animando 
E riprendendo la sua gente, avanti 
Si spinge a tulli, e grida: E< «o adempito 



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216 



DELL* ENEIDE 



Quisque suae lectiquc m- mnr; nane magna referto 
Facla, patroni laudes. L'Uro occurramus ad uudam, 
Dum trepidi, epressisque labanl vestigi.! prima. 
Àudenles Fortuna iuvat. 

Hacc aii, et scruni versai, quos ducere contro, 

Vcl quibus obscssos possi! concrcderc muros. 



Inlerea Acnens socio» de puppibtis altis 
Pontibus eiponii. Multi servare recursus 
Languenti» pelagi, et brevibus se credere solili; 

Por remos alii. Speculali!» litora Turrho, 

Qua vada non spiranl. ncc frat ta remurmurat mula. 
Sed mare inoffensum crescenti allnbilur aeslu; 
Adverlit subito proras, sociosqtic precalar: 

None, o leda mniius. validi» inrurnbilc rcrais; 
Tollite, ferie ralcs; inimicom (indite rostri» 

1 lane lerram, suleumque sibi prema! ipsa carina. 
Frangere nec tali puppim siatiqnc recuso, 

Arrepla tellure semel Quac tali» postquam 
EITalus Tarcho: socii eonsurgere tonsis, 
Spumantesquc ralcs arTis inferro l.atinis, 

Doncc rostro lencnl siecum, et sedere rarinae 
Omncs innocuae. Sed non puppis tua, Tarcho. 
Namquo, indirla vadis, dorso dum pendei iniquo, 
Atireps sostentata din, diiciusquc faligat: 

Solv tur, alqnc viros medi» evponit in undis; 
Fragmina remorum quos et duiloulia Iranstra 
Impediunt, relratiilquc pedem simul umla rclabens. 



Nec Tiirnum segni» rclinel mora; sed rapii acer 
Tolam aciein in Teucro», et comm in lilore sistit, 
Signa ramini Primi» lurmas invadi agreste» 
Aeneas, omen pugnile, slraviique Ulitins, 

Orciso Therone, virùm qui mavimus ultro 
Aenean petit; buie gladio perque aerea sula, 

Per tiiiii* ani sqiialcnlcm auro, lalus baurii apertimi. 
Inde Lichau ferii, c&scriuni ium maire pcrcnilo, 



Vostro maggior disio. P.ù non vi sono 
Le mura in mezzo. In voi, ne le man vostre 
La pugna e Marte e la vittoria è posta. 

Or qui de la sua donna, de' suo* figli, 

De la sua casa si rammenti ognuno : 

Ognun d’ avanti si proponga i fatti 
E le lodi de' padri. Alidiam noi prima 
A rincontrargli, ittfln clic fonda e T un lo 
Ce gli renile del mar noti fermi aurora. 

Via, clfagli ardili è In Fortuna amica. 

Dello cosi, va divisando come 
Parte lor centra ne conduca, c parte 
A I* assedio ne lasci. 

Intanto Enea 

Per disbarcare i suoi, le scafe e i ponti 
Avea già presti. E di lor molti attenti 
Al ritorno de' fluiti con un salto 
Si lanciarono in secco; e chi eoi remi, 

Chi con le travi nc F arena uscirò. 

Tnrconlc, poi eli’ ebbe la riva lulla 
Ben adocchiala, non là dove il vado 
Disperava dei lutto, o dove l'onda 
Mormorando frangea, ma dove chela 
K senza intoppo avea corso e ricorso. 

Voltò le prore; e, Via, disse, compagni, 

Via, genie della, ile con lutti i remi 
Di tulla forza, c si piagete i legni 
Clic si facciati ua lor canale e stazzo. 
Dividete co’ rostri e con le prore 
Questa nemica terra; in questa lerra 
Mi gittate una volta, c che che sia 
Segua poi del navile. A questo pregio 
Non curo del suo danno: aberri, e pera. 

Al detto di Tarconte alto in su' remi 
Levarsi; c si co’ rostri a’ Idi urlaro, 
Ch’empiér di spuma il mar, di sabbia i campi; 
E i legni ludi nc I’ asciutto infissi 
Fermarsi interi. Ma non già, Tarconte, 

Il legno luo, che d' una ascosa falda 
Ebbe di sasso in approdando intoppo; 

Dal cui dorso inchinalo, c dal mareggio 
Lungamente battuto, al fin del tutto 
Aperto c sconquassalo, in mezzo a I' onde 
Le genti espose; c *1 peso c l’ imbarazzo 
De Farmi, c gli armamenti infranti c sparsi 
Del rollo legno, e ’l fluito che rediva 
Le leunero impedite e risospinle. 

Turno le schiere sue rapidamente 
Al mar condusse, e tube in ordinanza 
Su ’l lite incontro a’ Teucri le dispose. 

Dicroti le trombe il segno. Il Troian duce 
Fu che prima assali le torme agresti, 

E si fc’ con la strage de’ Lalini 
E con la morie di Tcronc in prima 
Augurio a la vittoria. Era Teronc 



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unno decimo 



217 



El libi, Plioebc, sacrimi, casus evadere ferri 
Quod licuil parvo. Ncc longc, Cissea durum 
Immancmquc Gyan, slerncnlcs ognuna clava, 

Deiecii lelo: mini illos Ilerculis arma, 

Ncc valulae iuverc manus, gcnilorquc Melampus, 
Alcidae comes, usque grave* quum terra labore» 
Praebuil. Ecce Phnro, voces dum iaclal inertes, 
lntorqucns iarulum clamanti sislit in ore. 

Tu quoque, llavenlcm prima lanugine malas 
Dum sequeris Clylium infelix, nova gnudia, Cydon, 
Dardania slralus delira, securus amorum, 

Qui iuvenum libi sempcr crani, miserande, iacercs, 

Ni frairum stipala cuhors forct obvia, Pilorci 
Progenics, seplcm numero, seplenaque loia 
Coniiciunt: parlim galea clipcoque resullant 
Irrita; deflcxil parlim slringenlia corpus 
Alma Venus. Fidum Aeneas atTatur Achalrn: 

Suggcre leln milii; non ullum devierà fruirà 
Torseril in Rululos, stelerunt quae in corporc Graiùm 
lliacis campi». Tum magnani compii haslam, 

El iacil: illa volans clipei Iransverbcral aera 
Alaeonis, cl thoraca siniul cum pretore rumpil. 
lime fraler subii Alcanor, fralrcmque rueulcin 
Sustcnlal deliro: traicelo missa lucerlo 
Prolinus basta fu gii, servatque cruenta lenorem; 
Dcileraquc ci buincro ncrvis moribunda pepeudit. 
Tum Numilor, iaculo fralris de corporc mplo, 

Aencan pcliit: sed non el figere conira 
Ksl licilum, magnique femur perslrimil Achalae. 
llic Curibu», lidens primaevo corporc, Clausus 
Advcnil el rigida Dryopcm ferii eminus basta 
Sub meni uni, graviler pressa, parilerque loquenlis 
Yocem nnimamqiie rapii, traicelo gullure; al ille 
Fronte ferii lerram, el crussum vomii ore cruorem. 
Trcs quoque TlireTcios B >reae de genie suprema, 

El trcs, quos Ida» paler et patria Ismara miltit, 

Per varios sterilii casus. Accurril Ualesus, 
Àuruncneqiic manus; subii el Neplunia prole», 

Insigni» Mcssnpus equi». Espellere Icndunt 
Nunc Ili, mine illi; cerlalur limine in ipso 
Ausoniac. Magno discorde» actbere venti 
Proclia ceu lollunt, animi» el viribus acqui», 

Non ipsi inier se, non nubila, non mare, ccdunl; 
Ancep» pugna diu; stani obnixu omnia conira: 
llaud aliler Troianac acies aciesque Laiinac 
Concurruul, hacrcl pede pes, densusque viro vir. 



Un di corpo maggior de gli altri tulli ; 

E laido ebbe d' ardir che da sè slesso 
luconlr' Enea si mosse. Enea col brando 
Tal un colpo gli lras<c, che Io scudo, 
Benché ferrato, c la corazza e I banco 
Korogli insieme. Indi avventassi a Lica 
Che da I* aperte viscere fu tratto 
De la già morta madre, e pargoletto, 
Preservato dal ferro, a le fu sacro, 

Febo, padre di luce ; ed or morendo 
Vidima cadde a Marie. Uccise appresso 
Cisso feroce, e Già di corpo immane, 

Ch* ambi di mazze armali ivan le schiere 
De* suoi Teucri atterrando. E lor non valse 
Nè d’ Ercole aver I* ormi, nè le broccia 
D’erculea forza, nè che già Mdampo 
Lor padre in compagnia d* Ercole fosse 
Aliar che de la terra a soffrir ebbe 
I duri alTaniii. A Faro un dardo trasse 
Mentre gridando c millantando incontra 
Gli si Tacca. Cotpillo in bocca a punto, 

SI che lu chiuse e I* acchetò per sempre. 

E lu, Cidon, per le sue mani estinto 
Misero I giaceresti a Cliiin appresso 
Tuo novo amore, a cui de* primi Bori 
Eran le guance colorile a pena ; 

Nè più stato saresti esca a gli amori 
De* suoi simili, onde mai sempre ardevi ; 
Se non che de* fratelli ebbe una schiera 
Subitamente addosso. Erari costoro 
Selle figli di Forco, e sette dardi 
Gli avveniaro in un tempo. Altri de' (piali 
Da T elmo e da lo scudo risospinti, 

Altri furon da Venere sbattuti 
SI eli* o vani, o leggieri il corpo a pena 
Leccàr passando. In questa Enea rivolto, 
Dammi, disto ad Acato, de gl' intrisi 
Nel sangue Greco, c sodo Ilio provati ; 

E non fìa colpo in fallo. Una grand* asta 
Gli porse Acale in prima, ed ci la trasse 
Si che volando nc lo scudo aggiunse 
Di Méonc, e la piastra ond’era cinto 
E la corazza e ’l pedo gli Indisse. 

Alcanor suo fratello nel cadere, 

Mentre le braccia al tergo gli puntella, 

L* asta nel trapassare, il suo tenore 
Continuando, insanguinala e calda 
1 a destra gli confisse ; e dii le spalle 
Pendè del frate, infin clic I* un già morto, 
E I* altro moribondo, a lerra stesi 
Giacquero entrambi. Numitóre il terzo 
Da questo sconficcandola e da quello, 
Laminila incontro Enea Di ferir iui 
Non gli successe, ma del grande Acate 
Grufliò la coscia lievemente, o scorse. 



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218 



DELL’ ENEIDE 



Al piirlr ex alia, qua saia rnfanlia tate 
Impulciai lorrens arbustaque diruta ripis, 

A renda*. instino* aclcs inferro pedeslros, 

I l vidil Palla* l.alio dare (erga acquari; 

Aspern quis naturo lori dimillcre quando 
Sua>ii equos: unum qtiod rebus resini e genio, 

Rune prore, nunc dirti* virtulcm accendi! ainaris: 
Quo fugili*. sodi ? Por vns el fonia farla, 

Por duci» Evandri nnition, derirtnqur bolla, 

Spemquo meam, pairiae qua e mine subii annida laudi 
Fidile ne pedibu«. Ferro rumpenda por hoslos 
E>1 via. Qua gioliti* ilio virftm donsissimus urgel, 

Mac vos ol Pa I laura duerni patria alla reposc.il. 

>u mina nulla premunì; mortali urgemur ab lioslo 
Mortale*; lotidem nobis animaequo manusque 
Eroe, mnris magna Claudi! no* tdiiice ponlus; 

Dorsi inm lorra fugar. Pelago* Troiainne pelemusT 
Ilare nil, el medili* donsos prorumpi! in liosles. 
Obvius huic primum. futi* adducili* iniqui*. 

Fi! Lagos: lume, magno velli! dum pontiere simun. 
Intorto ligi! Irlo, discrimina rostis 
Por medium qua spina dabal; haslamque rceeptal 
Ossibus liaerenlom. Quom non super occupa! Ilisbo, 
Ilio quidem hoc. sporans: nani Pallas ante rumimi, 
Dum ruril, inrmi i u in crudeli morte sodali*, 

Kiripil, alque oliscili tumido in pulimmo rocondil. 
Itine Sllimelum polii, ol llliooii d - genie vollista 
Anoliomolum, Ihulamos ausum incestare noverca*. 



CI auso, il Sabino, ardilo c poderoso 
Qui si mostrò con una picca in inailo, 

E Driope iiuoslì nel primo incontro. 

Glie n’appuntò noi gorgoglile, c piiisc 
Tarilo ohe la parola c 'I Italo c P alma 
In un gli tolse. Ed ei cadde boccone, 

E per bocca giilò di sangue un fiume. 
Carciossi avanti, c tre di Tracia appresso 
Ilo la gente di lloren, e Ire de* figli 
D* lduulo, alunni d* (smura e di Troia, 

In variale guise a terra stese. 

Venne a rincontro Alo o, e do gli Aurunci 
Un* ordinanza. Di Nell uno il figlio 
Me.ssapu i suoi cavalli avanti spinse. 

Ed or questi sforzandosi, ed or quelli 
l>i cacciare i nemici, in su I* entrata 
Si couiLallca d* Dalia. E quai Ira loro 
S* azzurrano a le volle avversi, « pari 
Di contesa o di forza in aria i tèmi. 

Elio nè lor, nè lo nugole, nè T mare 
C odor si vede, e lungamente incerta 
Sì la mischia travaglia, di' ogni cosa 
D ogni parie tumultua e nonlraslu; 

Tale appunto do’ Itululi c de* Teucri 
Era la pugna, e si fu ra c sì slrella 
Elie giunte si vedeau farmi con I* a. mi, 

E le man con le mani, e i piè co* piedi. 

I>* altra parie ove rap do e torrente 
Avca il fiume travolti arbori e sassi, 

Da loco malagevole impediti 
Gli Arcadi cavalieri a piè smontar». 

K no* pedestri assalti ancor non usi. 

Da* Latini incalzali, avean le (erga 

Già volto a l.azio, quando ( quel dio s* usa 

In sì duri parlili) a lor rivolto 

Fallante, or oon preghiere, or con rampogno. 

Ah compagni, ah fratelli, iva gridando, 

Dove fuggite? Per onor di voi, 

Per la memoria di luuf altri vostri 
Egregi falli, e por l’egregia fama 
Per le villorie del gran duce Evandro, 

E per la speme che di me conceda 
A la paterna lode emula avete. 

Non ponete ne’ piè vostra fidanza. 

Col ferro aprir la strada ne conviene 
Per mezzo di color che là vedete, 

Clic più folti n* incalzano c più feri. 

Per là comanda I* alla putria nostra 
Che voi meco ri* andiate. E di lor nullo 
È clic sia dio: son uomini ancor essi 
Come siam noi; c noi eom* essi sverno 
Il cor, le mani e farmi. E dove, dove 
Vi salverete? Non vedete il mare 
Clic v* è d’ avanti, c che la terra manca 
Al fuggir vostro? E se per fonde ancora 



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UlinO DECIMO 



2I'J 



Vos cliam, gemini, Rutulis ccriili-tis in arvis, 
|);iucia, l.aridc Thymberquc, simillimn prole#, 
Indiscreta suis gralusque parenlibus error; 

At nunc dura dedii vobis discrimina Pallas: 

Nam libi, Thymbre, caput Evandrius obstulil ensis: 
Tc decisa suuni, Laride, desterà quaeril; 
Semianimcsque micanl digiti, ferrumque relraclant. 
Arcadas accensos moniti!, et praeclara luenles 
Pacla viri, rnixlus d<dor et pndor armai m hosles. 
Tum Pallas biiugis fugientem Ithoetea praeter 
Traiicit. Hoc spalium, tanlumque morae full Ilo. 

Ilo namque procul validam direnerai liaslam: 

Quam medius Rhoeteus intercipit, optime Teiilhra, 
Te fugiens, fratremque Tyrei»; curruque volul us 
Caedit scmianimis Hutulorum calcibus aria. 

Ac vclut, optato veutis aeslate coorti», 

Dispersa immiltit silvis incendia pastor; 

Correplis subito mediis, exlenditur una 
Horrida per lalos acies Vulcani» campos; 
llle sedens victor flammns despectal ov«nles; 

Non aliler sociAin virlus coil omnis in unum, 

Teque iuval, Palla. Sed belli# acer llalesus 
Tendil in adversos, seque in sua colbgil arma. 

Ilio mactat Ladona, Plieretaque, Dcmodocumque: 
Strymonio dcitram fulgenti dcripil ensc 
Elatam in iugulum; saxo ferii ora Tlioantis, 

Ossaquc dispersil cerebro permixla cruento. 

Fata cancns silvis genitor cclarat Hulesiim; 

Ut senior loto canentia lumina solvfl, 

Iniecere manum Parcae, lelisquc sacranml 
Evandri. Quetn sic Pallas petit onte prccatus: 

Da nunc, Thybri pater, ferro, quod missile libro, 
Fortunam alque vinm duri per peclus Ilalesi. 
linee arma exuviasque viri tua quercus habebil. 
Audiil illn deus: dum levi! (maona llalesus, 

A oca dio infeliv telo dai pcclus inermum. 

At non cacdc viri laida pedonila Lausus, 

Pars ingcns belli, siili! ngmina: primus Abantem 
Opposilum inlerimit, pugnae nodumque mnramquc. 
Slernitur Arcadiae pruina; sternuti tur Et r usci; 

Et vos, o Graiìs imperdita corpura, Teucri. 

Agmina concurrunt ducibusque et vinbus aequis. 
Estremi addensent acies; ncc turba (noveri 
Tela manusque sinit. Dine Pallas instai et urget, 
Itine conlra Lousus (nec niuitnm discrepai aelas), 
Egrcgii forma: sed quis fortuna negaral 
In patriam reditus. Ipsos concorrere pa«sus 
Haud laineu intcr se magni regnatur Olympi 
Mox illos sua fata mancnt maiore sub lioslc. 



Fuggiste, alfln dove n* andrete ? a Troia ! 

E, così detto, in mezzo de’ più densi 
E de’ più formidabili nemici 
Anzi a tulli avventossi. E Lago il primo 
Per sua disavventura gli s* oppose. 

Slava costui chinato, e per ferirlo 
Divelto area di terra un gran macigno, 
Quando lo sopraggiunse, c ne In schiena 
I ra costa e costa il suo dardo piantogli ; 

Si che tirando e d menando a pena 
Ne lo ritrasse. Islum, di Ungo amico, 

Menlr* egli in cift s* occupa, ebbe speranza 
Di vendicarlo, e ’ncoidra gli si mosse: 

Ma non gli riuscì ; citò meni' e incauto, 

Dal dolor trasportalo c da lo sdegno 
Del suo morto compagno, infuriava, 

Ne la spada del giovine infll/nssi 
Da T un de’ fianchi : onde Iralìlto c smunto 
Ne fu di sangue il cor, d’ ira il polmone. 
Poscia Stendo uccise ; uccise appresso 
Anclicmolo. Costui fu de I* antica 
Stirpe di Reto, incestuoso amante 
Di sua matrigna. E voi, Laride e Timbro, 
Figli di Dauco, ambi d’un parto nati, 

Per le sue man cadeste. Eran costoro 
Sì I’ un del lutto a l’ altro somigliante. 

(.he dal padre indistinti e da la madre 
Faccan lor grato errore e dolce inganno. 

Sol or Pallante ( alti I troppo duramente ) 

Vi fé’ diversi : eli’ a te ’l capo netto. 

Timbro, recise ; n le, I. aride, in terra 
Mandò la destra. E questa anche guizzando 
Te per suo riconobbe, e con le dila 
Strinse il luo ferro, e ’l brancicò più volle, 
(ìli Arcadi da* conforti e da le prove 
Accesi di Pallante, e per dolore 
E per vergogna di furor s’ arniaro 
Conira i nemici. Seguitò Pallante ; 

Ed a Reléo ch’era fuggendo in volta 
Sopra una biga, nel passargli a canto 
Trasse d’ un’ asta ; e tanto Ilo il’ indugio 
Ebbe a la morie sua, eh’ ad Ilo indritio 
Era quel colpo in prima. Ma Ib lèo 
Venne di mezzo, e ricevei lo in vece 
D’ altri colpi, che dietro minacciando 
(ìli veniali Teucro c Tiro i duo buon frali, 
Elie gli eran sopra. Traboccò dui curro 
Mezzo tra vivo c morto, e calcitrando 
De’ Rululi battè 1* amica terra. 

Come il pastor ne’ dolci estivi giorni 
A lo spirar de’ venti il foco accende 
In qualche selva : che diversamente 
lo sparge in prima; e con diversi incendi 
Subito di Vulcau ne va la schiera 
Ciò eh* è di mezzo divorando in guisa 



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20 



DELL* ENEIDE 



Cir un sol divento; ed ci stassi in disparte 
Del fatto altero, e di veder gioioso 
La vincitrice fiamma, e V arso bosco : 

Così 'I valor de gli Arcadi ristretto 
Per soccorrer l’aliante insieme unissi. 

Ma ’l bellicoso Aléso incontro a loro 
Si ristrinse ancor ei con l’armi sue, 

E Ladrone e Demódoco o Feretro 
Uccise in prima. Indi a Slrimonio un colpo 
Trasse di spada che la destra mano, 

Mentre con un pugnai gli era a la gola, 

Gli recise di netto. E si d' un sasso 
Ferì Tountc in volto, che gl’ infranse . 

Il teschio tutto, e ne schizzàr col sangue 
L’ ossa e ’l cervello Era d’ Aléso il padre 
Mago c 'mimino; e del suo figlio 'I fato 
Avca previsto; onde gran tempo ascoso 
In una selva il tenne. E non per questo 
Franse il destino; chè già vèglio a pena 
Chiusi ebbe gli occhi, che le Parche addosso 
Gli dier di mono: onde a morir devoto 
Fu per I* armi d' Evandro. Incontro a lui 
Mosse Fallante in colai guisa orando: 

Dà , Padre Tebro, a questo dardo indrizzo, 
Fortuna e strada, ond'i» nel petto il pianti 
Del duro Aléso : e *1 dardo e le sue spoglie 
A tc fìan poscia in questa quercia appese. 
Udillo il Tebro : c mentre Aléso aita 
Porgendo ad Imiion, lo scudo stende 
Per coprir lui, sè stesso discoverse 
Al colpo di Pallanlc, c morto cadde. 

I*auso, che de la pugna era gran parte, 

Visto al cader d' un sì degno campione 
Caduta la contesa e I* ardimento 
De le schiere Latine, egli in sua vece 
Tosto avanti si spinse c rinfrnncolle. 

E prima di sua mano Abante ancise, 

Ch' era di quella zuffa un duro intoppo, 

E de' nemici il più saldo sostegno. 

Or qui strage si fa d* Arcadi insieme, 

K de* Toschi, c di voi Troiani intatti 
Ancor de’ Greci. E qui d* ambe le parti 
Tutti con lutti ad affrontar si vanno. 

Pari le forze e pari i capitani 
Son d' ambi i lati; e quinci e quindi ardenti 
Si ristringono in guisa che gli estremi 
Fanno ancor calco e’mpedimenlo a’ primi. 
Da questa parte sta Pallanlc, e Lauso 
Da quella, i suoi ciascuno inanimando, 
Spingendo c combattendo. E V un diverso 
Non è mollo da 1* altro nè d* elafe, 

Nè di bellezza; c patimento il Tato 
A ciascuno ha di lor tolto il ritorno 
Ne la sua patria. E non però tra loro 
S* aflronlàr mai ; chè T regna lor celeste 



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unno DECIMO 



221 



Inlcrca soror alma monel succurrere Lauso 
Turnum; qui volucri curru medium secai agmoii. 

Ul vidil soeìos: Tcmpus dcsislcrc pugnae; 

Solus ego in Pallanta feror; soli milii Pallas 
Dcbctur; cupcrcm ipse parens spcelalor adcssel. 
Ilacc ait; el socii ctsscrunl acquore iusso. 

Al. Kululfim abscessu, iuvenis lum, lussa su|>«rba 
Miralus, slupel in Turno, corpusque per ingens 
Lumina volvil, oblique truci procul omnia risu; 
Talibus cl diclis il conira dieta lyrannl: 

Aul spoliis ego iam raplis laudabor opimis, 

Aul telo insigni. Sorli pater aequus ulrique est. 
Tollc minas. Kalua medium procedit in aequor. 
Frigidus Arcadibus roil in praecordia sanguis. 
Desiluil Turnus biiugis; pedes apparai ire 
Comminus. Ulque leo, specula quum ridii ob alla 
Stare procul campis medilanlem in proelia laurum, 
Advolat; haud alia esl Turni venienlis imago, 
liunc ubi contiguum missae fore credidit baslac. 

Ire prior Pallas, si qua fors adiurel ausum 
Viribus imparibus, magnumque ita ad aclhera Tallir: 
Per palris iiospilium, et mensas, quas advena adisti, 
Te precor, Alcide, coeplis ingcniibus adsis. 

Cerna! semineci sibi me capere arma cruenta; 
Victorcmquc ferant morienlia lumina Turni. 

Audiit Alcidcs iuvenein, magnumque sub imo 
Corde premi! gemilum, lacrimasquo cITudit inanes. 
Tum Genitor nalum diclis alTalur amicis: 

Stai sua cuique dies; breve et irreparabile leraipus • 
Omnibus est vi toc: sed ramaio estendere faci». 

Hoc virtulis opus. Troiac sub mocnibus allis 
Tot guati cecidere definì; quii) uccidi! una 
Sarpcdon, mea progcnics. Elioni sua ’l urnum 
Fata vocant, mclasquc dati pervciiit ad aeri. 

Sic ait, atque oculos Rululorum reiicit arvis. 

At Pallas magnis cmiilit viribus hastam, 

Vaginaquc cava (ulgcntem dcripit enscm. 

llla volans, humcris surguni qua legmina summa, 

Incidi!, atque, viam clipei molila per oras. 

Tandem etiam magno strinili de corpore Turni. 

Ilic Turnus ferro pracilium robur aculo 
In Pallanta diu librans iacit, alque ila Tatui; 

Adspice, num mage sii nostrum penetrabile tclum. 
Duerni; at clipcum, tot ferri terga, lol aeris 
Quum pellis lotiens obeal circumdaU lauri, 

Vibrami medium cuspii Iransverberal iciu, 
Loricaeque moras el peclus perforai ingens. 

■Ile rapii calidum frustra de vulnere telum: 

Una eadcmque via sanguis animusque sequunlur. 
Corruit in vulnus; sonilum super arma dedere; 

Et terram lioslilcm moriens petit ore cruento. 

Quem Turnus super adsistons: 

Arcadcs, liaec, iuquii, memores mea dieta refcrlc 
Virgilio voi. csico. 



Riserbava la morie d' ambedue 
A nemici maggiori. 

In questo meno 
La Ninfa, che di Turno era sorella, 
il suo frate avvcrliscc, che soccorso 
Procuri a Lauso. Ond'ci tosto col carro 
Le schiere attraversando, a' suoi compagni 
Giunto die fu, \ ia, disse, or non è tempo 
Che voi piti combattiate, lo sol nc vado 
Contro Pallanle: a me solo è dovuta 
La motte suo : così il suo padre stesso 
V" intervenisse, e spellalor nc fosse. 

Detto eh' egli ebbe, incontanente i suoi, 
Siccome imposto avea, del campo uscirò. 
Pallanle, visti i Rullili ritrarsi, 

E lui sentendo, che con tanto orgoglio 
Lor comandava; poscia che 'I conobbe, 

Lo squadrò lutto, e stupido fcrmossi 
A veder si gran corpo. Indi feroce 
Gli ocelli intorno girando, a i detti suoi 
Cosi rispose : Oggi o d' opime spoglie, . 

0 di morte onorala il pregio acquisto. 

E'I padre mio ( tal è d' animo invino 
Inconlr' ogni fortuna, o buona o rea 
Che sia la mia ) nc porrò 'I coro in pace. 
Via, che d' altro è meslier clic di minacce. 
E, ciò detto, si mosse, e Dero in mezzo 
Prcsentossi del campo. Un gel per t' ossa 
E per le vene a gli Arcadi nc corse. 

E Turno dalla biga con un salto 
Lanciossi a terra; eh' assalirla a piedi 
Prese consiglio. E qual nero leone 
Che, veduto nel pian da lunge un loro 
Con le corna a battaglia esercitarsi, 

Dal monte si dirupa c rogge c vola. 

Tal fu di Turno la sembianza a punto 
Nel girgli incontro. Il giovine, che meno 
Avea di forze, s' avvisò di tempo 
Prender vantaggio, e di provare osando 
S' aver potesse in alcun modo amica 
Almcn fortuna; e già eli' a tiro d' asla 
S’ cran vicini, al ciel rivolto disse : 

Ercole, se li fu del padre mio 
L'ospizio accetto, c la sua mensa a grado, 
Allor che peregrin seco albergasti, 

Dammi, li prego, a tanta impresa alta, 

SI che Turno egli stesso in chiuder gli occhi 
Veggio, e senta morendo ch’a me tocca 
Vincere c spogliar lui d’ armi c di vita. 

Uditlo Alcide, e per pietà che n' ebbe 
Nel suo cor se nc dolse e lagrimonne. 
Quantunque indarno. E Giove per conforto 
Del tiglio suo, cosi seco nc disse : 

Destinato a ciascuno ò il giorno suo ; 

E breve in tulli e lubrica e fugace 
2'J 



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222 



DELL’ ENEIDE 



Evandro: Qualem mentii, PalLinla remino. 

Quisquis honos tumuli, quidquid solamcn humandi csl, 
Largior. Houd illi stnbunt Aenei'a parvo 
Hospilia. Et laevo pressit pede, lalia fatua, 

Ezanimem, rapiens immania pondera belici, 
Imprcssumque nefas: una sub nocle iugali 
Coesa manus iuvenum fonde, tlialamique cruenti; 

Ouac Clonus Eurytidcs multo caelateral auro: 

Quo nunc Turnus orai spolio gaudctque potitus. 

Moscia mens liominum fati sorlisque futurae, 

Et servare modum, rebus sublata sccundis 1 
Turno lempus erit, magno quum oplavcril emlum 
Intactum Pallanla, et quum spolia isla diemque 
Odcril. Al socii multo gemitu lacrimisque 
Imposilum scuto referunt Pallanla frcqucnles. 

0 dolor alque decus magnum rediture parenti I 
llaec le prima dies bello dedit, hacc cadem auferl, 
Quum lamen ingentes Butulorum linquis acervos ! 



E non mai reparabilc sen sola 
L’ umana vita. Sol per fama è dato 
A gli uomini che siau vivaci e ciliari 
Più lungamente. Ma virtulc è quella 
Che gli fa tali. E non per questo alcuno 
È che non muoia. E quanti ne morirò 
Sotto il grand' Ilio, eh’ cran nati in terra 
Di voi celesti? E Sarpedonle è morto 
Cir era mio figlio; e Turno anco morrà ; 

E già de la sua vita è giunto al fine. 

Cosi disse, e da' Rullili confini 
Torse la vista, Allor l’aliante trasse 
Con gran forra il suo dardu, c'I brando strinse 
Incontro a Turno. Investi ’1 dardo a punto 
Là ’ve’l braccial su l'omero s'aflìbbia, 

E tra 'I suo groppo e l'orlo de lo scudo 
Come strisciando, di si vasto corpo 
Lievemente afferrò la pelle a pena. 

Turno, poiché T nodoso e ben ferrato 
Suo frassino brandito c bilanciato 
Ebbe più volte, Or prova tu, gli disse. 

Se T mio va drillo, e se colpisce c fora 
Più del tuo ferro: c trasse. Andò ronzando 
Per l’aura , e con la punta a punto in mruo 
Si piantò de lo scudo. E tante piastre 
Di metallo e d'acciaio, e laute cuoia 
Ond'era cinto, c la corazza c'I petto 
Passogli insieme. Il giovine ferito 
Tosto fuor si cavò di corpo il télo; 

Ma non gli valse, cliè con esso il sangue 
E la vita n'uscio. Cadde boccone 
In su la piaga, e tal diè d'armi un crollo. 
Che, ancor morendo, la nimica terra 
Trepida ne divenne e sanguinosa. 

Turno sopra il cadavere fermassi 
Alteramente, e disse: Arcadi, udite, 

E per me riportate al vostro Evandro, 

Che qual di rivedere fa meritato 
Il suo Pallante, tal glie ne rimando; 

E gli fo grazia, che d'esequie ancora 
E di sepolcro e di qual altro fregio. 

Che conforto gli sia. Torni e l'onori; 

Ch'assai ben caro infino a qui gli costa 
L'amicizia d'Enea. Cosi dicendo, 

Col manco piè calcò l'estinto corpo: 

E d'oro un cinto ne rapi di pondo. 

D'artificio e di pregio, ove per mano 
Era del buon Eurizio istoriata 
La fiera notte, c i sanguinosi letti 
Di quell'empie fanciulle, in grembo a cui 
Fur già tanfi in un tempo e frati e sposi 
Sotto fè d'imeneo giovani ancisi. 

Di ques'a spoglia altero e baldanzoso 
Vasscne or Turno. 0 cieche umane menti, 
Come siete de'fati e del futuro 



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LIBRO DECIMO 



221 



. Poco avvedute! E come olirà ogui modo 

Ne'felici successi insuperbite! 

Tempo a Turno verrà ch'ogni gran cosa 
Ricompreria di non aver pur tocco 
Pallente; e le sue spoglie e 'I di clic l'ebbe 
In odio gli cadranno. Il morto corpo 
Nel suo scudo composto i suoi compagni 
Lciàr dal campo, e con solenne pompa 
E con molli lamenti, e mollo pianto 
Lo riportaro al padre. Oli qual, Pallanlc, 
Tornasti al padre tuo gloria e dolore! 
Ch'uria stessa giornata, ch'a la guerra 
Ti diede, a lui ti tolse. Oh pur gran monti 
Lasciasti pria di tuoi nemici cslinlil 

Ncc iam lama mali tanti, sed ccrlior auctor Corse la fama, anzi il verace avviso 

Advolal Acneae, tenui discrimine leti A l'orecchio d'Enea d’un danno tale 

Esse suos: Icmpus, versis succurrcre Teucris. E d’un tanto periglio, che già vólto 



Provima quaeque metit gladio, lalumquc per agmen 
Ardens limilem agii ferro; le, Turno, superbtim 
Caedc nova quaerens. Pallas, Evandcr, in ipsis 
Omnia sunt oculis; mensae, quas ad vena primas 
Tunc adii!, dcitraeque datac. Snlmonc crealos 
Quatuor Ilio iuvenes, lotidem, quos educai Ufcns, 
Vivcnles rapii, inrerias quos immolet umbris, 
Captivoquc rogi perfundal sanguine flammas. 

Inde Mago procul infensam contenderai haslam. 

Ille asfu subii; et tremebunda supcrvolal basta; 

Et grnua amplcclens effalur talia supplei: 

Per palrios Manca, per spes surgenlis luti 
Te precor, hanc ammani serves natoque palriquc. 

Est domus alla; iaccnl penilus defossa talenta 
Cadali argenti; sunt auri pondera facti 
Infecliquc milii. Non Ine Victoria Tcucròm 
Vcrtilur; aut anima una dabil discrimina tanta. 
Divorai. Acneas conira cui talia reddit: 

Argenti alque auri memoras quae multa talenta, 
Gnalis parco luis. Belli commercia Turnus 
Sustulit ista prior iam tum Pallanlc peremlo. 

Iloc patris Anchisae Manes, hoc sentii lulus. 

Sic fatus galeoni lacta lenel, atque refleza 
Cervice oranlis capulo tcnus applicai cnsem. 

Kec procul Haemonìdes, Pliocbi Triviaequc saccrdos, 
Infula cui sacra redimibat tempora villa, 

Totus collucens veste alque insigmbus armis. 

Quem congressus agii campo, lapsumquc supcrslans 
Immolai, ingenlique umbra tcgil; arma Scrcslus 
Leda refert humeris, libi, rei Gradivo, tropacum. 
Inslaurant acies Vulcani stirpe crcatus 
Caeculus et veniens Marsorum monlibus Umbro. 
Dardanides conira furil Amuris cnsc sinislram 
Et lotum clipei ferro deicccrat orbem. 

Dixerat ille aliquid magnum, vimque affore verbo 
Credideral, coeloque animum forlasse ferebat, 
Canitiemque sibi et longos promiserai aiiuos. 
Tarquilus evsullans ronlra fulgcnlibus armis, 



Era il suo campo in fuga. Incontanente 
Si fa col ferro una spianata intorno; 

Poscia s'apre una vio, di le cercando, 
Turno, e’I tuo rintuzzar cresciuto orgoglio 
Per la vittoria di Pallanlc ucciso. 

Pallanlc, Evandro e raccoglierne loro 
E le lor mense, ove con tanto amore 
Forcslicr fu raccolto, e la contralta 
Già tra loro amistà d'avanli a gli occhi 
Si vedea sempre. E per onore a l'ombra 
De l'amico, e per vittima al grand'Orco 
Molli giovani avea già destinati 
Vivi sacrificar sopra al suo rogo; 

E di già ne Tacca quattro d'Ufenlc 
Addur legati, c quattro di Sulmona. 

E Ira via combattendo, incontra Mago 
Tirò d’un’ asta, a cui sotto chinossi 
L’astuto a tempo si clic sopra al capo 
Gli trapassò divincolando il colpo; 

E ratto risorgendo, umilemenlc 

Gii abbracciò le ginocchia, c cosi disse: 

Per tuo padre, c tuo figlio mi conserva. 

Di gran iegnaggio io sono, gran tesori 
Tengo d’argento sotterrali o d'oro 
In massa c’n conio. La vittoria vostra 
Solo in me non consiste. Una sol’alma 
In cosi grave c grand’aDar clic monta? 
Rispose Enea: Le Ine conserve d'oro 
E d'argento conserva a'iìgli tuoi. 

Questi mercati ha Turno primamente 
Tolti fra noi, poi ch'ha Pallanlc ucciso. 

Ed al mio padre ed al mio figlio in grado 
Fia-la tua morte. Ciò dicendo, a l'elmo 
La man gli stese; c poiché gli ebbe il collo 
Chinalo al colpo, insiilo a l'elsa il ferro 
Pie la gola gl’immcrse. Indi non lungo 
Emonide incontrando, un sacerdote 
Di Febo c di Diana, il fronte adorno 



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DELL’ ENEIDE 



224 

Silvicole Fauno Dryopo quem Njmpha creami, 

Obvins ardenti scsc obtulit: ille rrducla 
Loriram clipeique ingens onus impedii basta; 

Turo caput orantia ncquìdqiiam, et multa paranlis 
Dicere, deturbai terree, truncumquc lepenlem 
Provolvcns, super liaec inimico pectore falur. 

Islic nune, mclnende, iaec ! Non le optima maler 
Condet burnì, palriovc onerabil membra sepulcro: 
Alilibus linquerc feris; aul gurgile mersum 
linda terel, pisccsque impasti vulnera lambent. 

Prolenus Anloeum et bueam, prima agmina Turni, 
Pcrsequilur, Forlcmque Piumoni, fulvumquc Camcrtem, 
Magnanimo Volseente solum; dilissimus agri 
Qui Tuit Ausonidòm; et lacilis reguatil Arayclis. 

Acgaeon qualis, ecntum cui bracbia dicunl, 

Cenlenasque rnanus, quinquaginta oribus ignem 
Pccloribusquc arsisse, Ioiia quum Fulmina eontra 
Tot paribus slrcperet clipcis, tot stringerei enscs: 

Sic loto Acneas desaevil in acquorc victer. 

Ut semel inlepuil mucro. Quin ecce Niphaci 
Quadriiugcs in equos adversaque pectore tendil. 

Alquc illi, longe gradienlcm et dira Fremcntcm 
Ut videre, melu versi retroque rucnlcs 
EFTundunlque ducem, ropiunlquc ad lilora currus. 
Intcrea biiugis inrert so Lucagus albis 
In medios, Fraterquc 1-iger; sed Frotrr habenis 
Flcctit equos, striclum rotai aecr Lucagus cusem. 

Ilaud tuli! Acneas lanlo Fervore rurenles: 
lrruil, adversaque ingens apparili! basta. 

Cui Ligcr: 

bon biomedis equos, non currus ccrnis Achilli, 

Aul Phrygiac campos: nune belli Finis cl nevi 
His dabilur lerris. t esano (alia late 
Dieta volani Lìgerì: sed non et TroTus licros 
Dieta parai conira; iaculum nani torquet in hoslem. 
Lucagus ut pronus lendcns in verbera telo 
Admouui! biiugos; proieclo dum pede loevo 
Aplal se pugnar; subii oras basta per imas 
Fulgenlis clipei, lum laevum perForal ingucn; 

Eicussus curru moribundus volvilur arvis. 

Quem pius Aencas dictis alTolur amaris: 

Lucagc, nulla tuos currus Fuga segnis equorum 
Prodidii, aut vanne vertere c« hoslibus umhrac. 

Ipsc rolis saliens iuga deseris. liaec ita Fatua 
Arripuit biiugos. Fralcr Icndcbal inermes 
Infidi» palina», curru dclapsus codem: 

Per te, per qui te talcm gcmicreparcntes, 
tir Troiane, ainc hanc ammani, et misererò precanlis. ! 
Pluribus oranti Aencas: Ilaud (alia dudum 
Dieta dabas. Morere, et fralrcm ne deserc Fralcr. 

Tuui, lalcbras animar, pectus mucrone rccludil. 

Talia per eampos edebat Funcra duclor 
Dardanius, lorreutis aquae vcl lurbinis atri 
More Fureria. Tandem erompimi, cl castra rclinquunt 
Ascanius puer cl ncquidquam obscssa iuventus. 



Di sacra benda, c tulio rilucente 
Di vesti c d'armi, addosso gli si scaglia. 
Fuggc Emonide, c cade. Enea gli P sopra, 

Lo sacrifica a l'ombra, c d'ombra il copro. 
Poscia de Tarmi, clie'l mesebino a pompa 
Porli» più ch’a difesa, il buon Screslo 
Lo spoglia, e per troFeo le appellile in campo 
A le, g an Marte. Ecco di nuovo intanto 
Cecolo, di Vulean l'ardente figlio 
E 'I Marso Ombron ne la battaglia entrando, 
E rimettendo le lor genti insieme, 

Spingonsi avanti. Enea da l'altra parte 
Infuriava. Ari Ansurc avventossi, 

E T manco braccio con la spada in terra 
(iiltógli e de lo scudo il cerchio intero. 

Gran cose area costui cianciate in prima 
E roncepule; e d’adempirle ancora 
S'era promesso. Arca Forse anco in ciclo 
Riposti i suoi pensieri, e s'augurava 
Lunga vita c felice. E pur qui cadde. 

Poscia Tarqoilo ardente, e d'armi cinto 
Fulgenti e ricche, incontro gli si fece. 

Era costui di Fauno montanaro 
E de la Ninfa 1) lupe creato, 

Giovine fiero. Enea parossi avanti 
A la sua furia, c pinsc l'asta in guisa 
Glie lo scudo impcdigli e lo coreica. 

Allora indarno il misero a pregarlo 
Si diede. E mentre a dir molto s'alTaiina 
Per lo suo scampo, ei con un colpo a terra 
Gillógti il capo: e travolgendo il tronco 
Tiepido ancor sopra gli stette, o disse: 

Qui con la tua bravura le ne stai, 

Tremendo c formidabile guerriero. 

Rè di lerra tua mBdre li ricopra. 

Pii di tomba t'onori. A i lupi, a i corvi 
Ti lascio, o che la piena in alcun fosso 
Ti tragga, o che nel fiume, o che nel mare 
Ai Famelici pesci esca li mandi. 

Indi muove in un tempo incontro a l.ica, 

E segue Anteo, che ne le prime schiere 
Eran di Turno. Assaglie il forte Ruma, 

Fere II biondo Camene. Era Camerle 
Figlio a Volseente, generoso germe 
Del magnanimo padre, e de’ più ricebi 
b' Ausonia tutta: in quel tempo reggea 
La taciturna Amido. In quella guisa 
Clic si dice Egcòn con cento braccia 
F. cento mani, da cinquanta bocche 
Fiamme spirando c da cinquanta pelli, 
Esser già stato col gran Giove a fronte, 
Quando eontra i suoi Folgori e i suoi tuoni 
Con altrettante spade ed altrettanti 
Scudi tonava c Folgorava aneh' egli; 

In quella stessa Enea per Dillo ’l campo, 



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1JBB0 DECIMO 



223 



lunoiiem interra coni pellai lupiler utlro: 

0 germana milii atipie raderli gratissima rumimi, 
Ut rebare, Vcnns (ncc le sementili fallii) 



PoictT una volta il suo ferro fu caldo, 

Contra tulli vincendo infuriossi. 

Ecco Niféo su quattro corridori 
Si vede avanti : e contra gli si spinge 
SI rùinoso, e tal fa lor fremendo 
Tema e spavento, che i deslricr rivolli 
Lui col carro traboccano, c disciolti 
Scn vanno e vóti imperversando al mare. 
Lùcago intanto e Ligcri, due frali 
Con due giunti cavalli ambi in un tempo 
Gli si fan sopra. Ligcri, a le briglie 
Scdca per guida, e Lùcago rotava 
La spada a cerchio. Enea non sofTcrcndo 
La tracntama, a la già mossa biga 
Pianlossi avanti; c Ligcri gli disse : 

Enea, tu non sei già ron Diomede, 

Nè con Achille a questa volta a fronte : 

Nè son questi i cavalli e’I carro loro. 

Di Lazio è questo, e non dc’Krigii il campo. 
Qui finir ti convicn la guerra c i giorni. 
Queste vane minacce e questo vento 
Soffiava il folle. Enea d'altra risposta 
Non gli diè clic de T asta. E mentre avanti 
Spinge I' uno i destrieri, c l' altro al colpo 
Si sta chinato, c col piè manco in atto 
Di ferir lui, la sua lancia a lo scudo 
Entrò sotto di Lùcago, e nel manco 
Lato ne l' inguinaia il colse a punto, 

E giù dal carro moribondo il trasse. 

Indi ancor egli motteggiollo, c disse ; 

A te nè paventosi, nè restii 

Son già, Lùcago, stali i tuoi cavalli. 

Tu da te stesso un si bel salto hai preso 
Fuor del tuo carro. E, ciò detto, a i destrieri 
Diè di piglio. Il suo frale uscito intanto 
Dal carro stesso, umile e disarmato 
Slcndea le palme in tal guisa pregando : 

Deli per lo tuo valore c per coloro 
Clic ti fèr tale, abbi di me. Signore, 

Pietà, che supplicando in don ti chieggo 
Questa misera vita. E seguitando 
La sua preghiera, a lui rispose Etica : 

Tu non hai già così dianzi abbaialo. 

Muori; e morendo il tuo frale accompagna. 

E con queste parole il ferro spinse, 

E gli apri 'I petto, e f alma ne disciolsc. 
Mentre cosi per la campagna Enea 
Strage facendo, c di torrente in guisa 
E di tempesta infuriando srorrc, 

Ascanio c la Troiana gioventute 
Indarno entro a le mura assediati 
Saltano in campo. 

Ed a Giunone intanto 
Così Giove favella : 0 mia diletta 
Sorella e sposa, ecco testé si vede 



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226 



DELI.’ ENEIDE 



Troiana? sustenlal opes, non vivida bello 
Delira viris, aniniusque feroi, paticnsque perieli. 

Cui Iuno submissa: Quid o, pulcherrime comuni, 
Sollicilas aegram cl lua irislia dieta limenlcm ? 

Si inibì, quac quondam lucrai, quamque esse decebai, 
Vis in amore forel ! Non Irne milii namque nepares, 
Omnipoiens, quin el pugnae subducere Turnum, 

Et Dauno posseni incolumem servare parenti. 

None pcreat, Tcucrisquc pio del sanguine pocnas, 

Ilio tamen nostra deduci! origine nomen, 

Piiumnusquc illi quarlus pater; et tua targa 
Saepc manu mullisquc oneravi! limine donis. 

Cui rev aellierii breviter sic fatus Olympi: 

Si mora praesenlis lidi lempusque caduco 
Oratur imeni, meque boc ita ponere sentisi 
Tolte fugo Turnum, atque instantibus eripc falis. 
llacteuus indulsissc vacai. Sin ullior islis 
Sub precibus venia ulta latet, lotumquc moveii 
Hutarive pulas belluini ?pes pascis inanes. 

Et Iuno allacrimans; Quid si, quod voce gravaris, 
niente dares, atque hacc Turno rata vita mancrctl 
Nunc mancl insontem gravis ciilus, aul ego veri 
Vana feror. Quod ut o potius formuline falsa 
Ludar. cl in melius tua, qui potes, orsa rcflectas I 
llacc ubi dieta dcdil, coclo se prolcnus alto 
Misi!, agens bieniem, nimbo succinola, per auras, 
Iliacamque aciem et Laurcntia castra pelivi!. 

Tum dea nube cava tenuem sine viribus umbram 
In faciem Acneac (visti mirabile monslrum) 

Dardaniis ornai telis; clipeumque iubasque 
Divini assimulat capiti»; dal inania verba; 

Dal sine mente sommi, grcssusque cfllngil cuntis: 
Morte obita quale» fama est volitare figuras, 

Aut quac sopitos dcludunt somnia scnsiis. 

Al prìmas laela ante acies eisullal imago, 

Irrilatipie virum telis, et voce laccasi!. 

Instai cui Tumus, stridenlemque eminus liastam 
Coniirii; illa dato verlit vestigio tergo. 

Tum vero Acncan eversimi ut cedere Turnus 
Credidii, atque animo spem lurbidus hausit inanem: 
Quo fugis, Aenea ? Tlialamos ne deserc paclos; 

Ilac dabilur delira lellus quacsila per undas. 

Tatia vociferans sequilur, striclumquc coruscal 
Miicronein; nec fcrre videi sua gaudio venlos. 

Forte ratis celsi cornimela crepidine sali 
Evposilis stabal scali», cl ponte parato; 

Qua rei Clusinis advectus Osinius oris. 
lluc scse trepida Acneac fugicnlis imago 
Conilcil in latebra?; nec Turnus segnior instai; 
Evsupcrolquc moras, et pontcs transilit allos. 

\is proram atligerat: rumpil Saturnia funem, 
Avulsamquc rapii revoluta per aequora navem. 

[ lllum aulem Aencas absentem in proelia poscil; 
Olivia multa virùm dcmitlil corpora morti. ] 

Tum levis hauti ultra lalcbras iam quacrit imago; 



Cora' ba la tua credenza e'I tuo pensiero 
Verace incontro, e come Cilerea 
Sostenta i Teucri suoi. Vedi coni - essi 
Non son nè valorosi, nè guerrieri, 

E i cor non hanno a i lor perigli eguali. 

A cui Giunon tutta rimessa. Ah, disse. 

Caro consorte, a che mi strali c pugni, 
Quando è pur troppo il mio dolor pungente, 
E pur troppo lem' io le tue puliture ? 

Ma se qual era, e qual esser potrebbe, 

Fosse or tcco il poter de l’ amor mio, 

Teco che tanto puoi, do le negato 
Non mi fòro, signor, eh' oggi il mio Turno 
Fosse do la battaglia c da la morte 
Per me sottratto e conservalo al vecchio 
Dauno suo padre. Or péra, c col suo sangue, 
Clic pur è pio, la cupidigia estingua 
De’ suoi nemici. E pur aneli' egli è nato 
Dal nostro sangue : c pur Pilunno è quarto 
Padre di lui : da lui pur largamente 
Gli aitar molto fiate e i tempii tuoi 
Son de’ suoi molti doni ornali e 'carelli. 

Cui del ciel brevemente il gran Motore 
Cosi rispose : Se indugiar la morte, 

Ch' è già presente, e prolungare i giorni 
Al già caduto giovine C aggrada 
Per alcun tempo, e tu con questo inteso 
1.' accetti, va' tu stessa, e da la pugna 
Sottrailo e dal destino. A tuo contentu 
Fin qui mi lece. Ma se in ciò presumi 
Ancor più di sua vita, o de la guerra, 

Clic del tutto si mule o si distorni, 

In van lo speri. A cui Grano piangendo 
Soggiunse ; E clic saria, se quel che in voce 
Ti grava a darmi, olmeti nel tuo secreto 
Mi concedessi ? E questa vita a Turno 
Si stabilisse ? già che indegna e cruda 
Morte gli s’ avvicina, o eh" io del vero 
Mi gabbo. Tu che puoi, signor, rivolgi 
La mia paura e i tuoi pensieri in meglio. 
Poscia che cosi disse, incontanente 
Dal ciel discese, e con un nembo avanti 
E nubi intorno, occulta infra i due campi 
Sopra terra colossi. Ivi di nebbia. 

Di colori e di vento una figura 
Formò ( cosa mirabile a vedere I ) 

In scmbiania d' Enea; d’ Enea lo scudo, 

La corona, il cimiero e l' armi tutte 
Gli finse intorno, c gli diè il suono e T moto 
Propri di lui, ma vani, e sema forze 
E senza mente; in quella stessa guisa 
Clic si dice di notte ir vagabonde 
L’ ombre de' morti, c che i sopiti sensi 
Son da' sogni delusi e da fantasme. 

Questa mentila imago anzi a le schiere 



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LIBRO DECIMO 



227 



Sed sublime volans nubi se itnmiscuil alrae: 

Quum Turnum medio inlerea feri aequorc turbo. 
Respicil ignarus rerum, ingralusquc saluti», 

Et dupliccs cum voce maiius ail sidera tendi!: 
Omnipotcns genìtor, lanton' me crimine digoutn 
Duiisli, et lales voluisti Dipendere poenas ? 

Quo feror ? unde abii 7 quae me fuga, quemve reduce!? 
Laurenlesne itcrum muros aul castra videbo ? 

Quid manus illa virùm, qui me meaque arma seculi? 
Quosne <nelas) omnes infamia morte reliqui ? 

Et nunc palanles «ideo, gemitumque cadentum 
Accipio. Quid ago ? aul quae iam satis ima debiscat 
Terra mihi ? Vos o potius miscrcscilc, «enti I 
In rupes, in saia (rolens vos Turnus adoro) 

Ferie ratem, saevisque vadis immillile Syrlis, 

Quo ncque me Rululi, ncc conscia fama sequalur. 
llacc memorans, animo nunc bue, nunc Ructual illue; 
An sese mucrone ob tantum dedecus amens 
Induat, et crudum per costai exigat ensem; 

Fluctibus an iaciat tnediis, et litora nando 
Curva pelai, Teucrùmque iterum se reddat in arma. 
Ter conatus utramque viam: ter maiima luno 
Conlinuit; iuvcncmque animi miserata repressi!. 
Labitur alla secans flucluque aesluque sccundo; 

Et patria anliquam Dauni defertur ad urbeni. 



Lieta insultando, a Turno s’ appresenla , 

Lo provoca e lo sfida. E Turno incontra 
Le si spinge c l' affronta : c pria da lungo 
Il suo dardo le avventa, al cui stridore 
Volg' ella il tergo e fugge. Ed ci so-pinlo 
Da la vana credenza, e da la folle 
Sua speme insuperbito, la persegue 
Con la spada impugnala : e dove, c dove, 
Dicendo, Enea, tcn fuggi ? ove abbandoni 
La tua sposa novella ? Io di mia mano 
De la terra fatale or or l'investo, 

Che tanto per lo mar cercando andavi. 

E gridando l' incalza, c non s' avvede 
Che quel che segue c di ferir agogna, 

Non è che nebbia che dal vento è spinta. 
Era per sorte in su la riva un sasso 
Di molo in guisa; ed un navilc a canto 
Gli era legalo, che la scala e T ponte 
Avea su 'I lilo, onde ne fu pur dianzi 
Osinio il re di Chiusi in terra esposto. 

In questo legno, di fuggir mostrando, 
Ricovrossi d' Enea la tinta imago, 

E vi s’ ascose. A cui dietro correndo 
Turno senza dimora infurialo 
Il ponte ascese. Era a la prora a pena, 

Che Giunon ruppe il fune c diede al legno 
Per lo travolto mare impeto c fuga. 

Intanto Enea, di Turno ricercando, 

A battaglia il chiamava. Ed or di questo, 

Ed or di quello c di molti anco insieme 
Facca strage c scompiglio; e la sua larva, 
Poiché di più celarsi uopo non ebbe, 

Fuor de la nave uscendo alto levossi, 

E con l'atra sua nube unissi, e sparve. 
Turno cosi schernito, e già nel mezzo 
Del mar sospinto, indietro rimirando 
Come del fatto ignaro, e del suo scampo 
Sconoscente e superbo, al cicl gridando 
Alzò le palme, e disse: Ah dunque io sono 
D'un tanto scorno, onnipotente padre, 

Da te degno tenuto? A tanta pena 
M' hai riservalo? Ove son io rapilo? 

Onde mi pano? Chi cosi mi caccia? 

Chi mi rimcna? E fla eli’ un'altra volta 
Io ritorni a Laurcnlo? e ch'io riveggia 
L’oste più con qucst'occhi? E che diranno 
i mici seguaci, e quei clic m'han per capo 
Di questa guerra, che da me son tulli 
(Ahi vitupero I) abbandonati a morte? 

E già rotti gli veggio, e già gli sento 
Gridar cadendo. 0 me lasso I che faccio ? 
Qual à del mar la più profonda terra 
Che mi s'apra e m'ingoi? A voi più tosto, 
Vènti, incresca di me. Voi questo legno 
Fiaccale in qualche scoglio, in qualche rupe, 



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*28 



DELL’ ENEIDE 



Al lovis inforca monili* Mezcntius ardcn» 

Sur.cedil pugnac, Teiierosquc invadit ovante». 
Concurrutil Tyrrhcnoe ocics, alque omnibus uni, 

Uni ndiisque viro tdisque frequenlibus installi. 

Illc, vclut rupe*, vaslum quoe prodii in acquor, 
Obvia ventorum furiis, exposlaque pomo, 

Vim cunctnm alque minas perfori coeliquc marisque 
Ipsa immola manens: prolem Dolichaouis Hebrum 
Sterilii Immi, cum quo Lalagum, Palmumque fu 

gacem : 

Scd Lalagum saxo alque ingenti frogmine monti» 
Occupai os fnciemquc adversam; poplitc Palimim 
Succiso voi vi segnem sinit; ormaque Lauso 
Donai Labore liumeris, cl vcrlice figero crislas. 

Noe non Evanlliem Phrygium, Paridisque Mimantn 
Acqualcm comiiemquc: una quom nocle Tbeano 
In lucem genitori Amyco dedii, el face praegnans 
Cissei's regina Parili: Pari» urbe paterna 
Occubal; ignarum Laurens Label ora Mimanla. 

Ac velili illc canum morsu de monlibus alti* 

Actus apcr, multo» Vesulu» quem pinifer annos 
Defcndit, multosve palus Laurenlia, silva 
Paslus arundinca, poslquam inlcr relia vcnlum esl, 
Substitil, infremuilquc ferox, el inhorruil armos: 

Noe cuiquam irasci propiusque accedere virlus; 

Scd iaculi* tulisque procul clamoribus instane 
lite aulem impavido* parte* cunctalur in ornile», 
Denlibii3 infrendens, et tergo deculil haslas: 

Haud alitcr, iustae quibus esl Mezcntins irai;, 

Non ulti est animus strido concurrerc ferro; 
Missilibus longe et vasto clamore lacessunt. 

Venerai antiqui* Corythi de finibus Acron, 

Graius homo; infeclos linquens profugus bymenaeos: 
llunc ubi miscentem longe media agmina vìdil, 
Purpurcum pennls el paclae coniugi» oslro: 

Impaslus stabula alta leo ccu saepe peragrans, 
(Suadcl enim vesana fame») si forte fugaccm 



Ch’io stesso lo vi dileggio: o ne le sirli 
Mi seppellite, ove mai più non giunga 
Hululo clic mi veggio, o mi rinfacci 
Questa vergogna e questa infamia, ond'io 
Sono a me consapevole c nimico. 

Cosi dicendo, un laulo disonore 
In sè sdegnando, e di sè slesso fuori, 
Slrani, diversi e torbidi pensieri 
Si volgea per la mente: o con la spada 
Passarsi il pollo, o traboccarsi in mezzo, 

SI com’era, del mare, e far notando 
Prova, o di ricondursi ond’era (olio, 

0 il ‘aiTogarsi. E Luna c l'altra via 
Tentò tre volte; c tre volle la dea, 

Di lui mossa a pietà, ne lod slolse. 

Dal turbine e dal mar cacciato intanto 
Si scorse il legno, clic del padre Dauno 
A l'antica magion per forza il trasse. 

Mezenzio in questo mentre che da l’ira 
Era spinto di Giove, ardente e Itero 
Entrò nella battaglia, e i Teucri assalse 
Che già *1 campo tencnn superbi c lieti. 

Da l'altro canto le Tirrene schiere 
Mossero incontro a Ini. Contro lui solo 
i S’unir tulli dc'Toschi c gli odii c farmi: 

Ed egli, a tulli opposto, alpestre scoglio 
Sembrava, che nel mar si sporga, e i fluiti, 
E i vènti minacciar si senta intorno, 

E non punto si crolli. Ognun cli'avanli 
0 l’ardir gli mandava o la fortuna, 

A' piè si distonica. Nel primo incontro 
Ebro di Dolicóo, Là lago c Palmo 
Tolse di mezzo. Ebro passò fuor fuori 
Con un colpo di lancia; il volto c 'I lesch’o, 
Un gran macigno a Làlago avventando, 
Infranse lutto: ambi i garelli a Palmo, 
Clfavanti gli fuggia, tronchi di netto, 

Lasciò che rampicando a morir lunge 
A suo bell'agio andasse; ma de farmi 
Spogliollo in prima, c la corazza in collo 
E felino in lesta al suo Lauso ne pose. 
Uccise dopo questi il Frigio Evante; 

Poscia Mimante eli’ era pari a Pari 
Di nascimento, e d’ ornar seco unito 
| D’ Amico nacque, e ne la stessa notte 
Teona la sua madre in luce il diede, 

Che diè Paride al mondo Ecuba, pregna 
Di fatai fiamma. E par l’ un d' essi ucciso 
Fu ne la patria, e f altro sconosciuto 
Qui cadde. Era a veder Mezenzio in campo 
Qual orrido, sannulo, irto cignale 
| In mezzo a’ cani allor clic da' pineli 
Di Vcsolo, o da’ boschi o da' pantani 
Di Laurcnlo è caccialo, ove moli’ anni 
Si sia difeso ; eh' a le reti aggiunto 



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LIBRO DECIMO 



Conspexil cuprea!», aut surgeulem in comua ccrvoni, 
Gaudcl, hlans immane, comasquc arrcxit, et hoerel 
Visceribus super incumbens; la vii improba tcler 
Oro cruor: 

Sic ruit in densos alocer Mczenlius hoslcs. 

Slcrnilur infelii Acron, et calcibus atram 
Tundil liumum exspirans, infraclaque tela cruentai. 
Atque idem fugienlem liaud est dignalus Oroden 
Sternere, nec iacta caecum dare cuspide vulnus: 
Obvius adversoque occurril, seque viro vir 
Contulil , hauti furio nielior, sed fortibus armis. 

Tum super abicctum posilo pede nixus et basta: 

Pars belli liaud lemncnda, viri, lacci allus Orodes. 
Conclamarli sodi laetum paena seculi. 
llle aulem exspirans: Non me, quicunquc es, inulto, 
Victor, nec longum laetabero: te quoque fata 
Prospeclanl paria, atque eadem mot arva tenebis. 

Ad quem subridens mix la Mezcntius ira: 

Nunc morerc : asl de me divùm pater atque homi* 

num rei 

Villerii- Hoc dicens eduxit corporc lelum. 

Olii dura quies oculos et ferreus urgel 
Somnus; in aeternam clauduniur lumina noclem. 
Caedicus Alcailmum obtruncat, Sacralor Jlydaspcn; 
Parlheniumque Rapo el praedurum viribus Orscn: 
Messa pus Cloniumque Lycaotiiumquc Ericetcn; 

Illuni infrenis equi lapsu lei Iure iacenlem, 
llunc peditem pedes. Et Lycius processerai Agis: 
Quem (amen liaud expers Yaterus virimi» avilac 
Dciicil ; at Tbronium Salius, Saliumquc Nealces, 
Insigni» iaculo el longe fallente sagilla. 



Virgilio vol. unico 



Si ferma, arruffo gli omeri, c fremisce 
Co’ denti in guisa clic non è chi presso 
Osi affrontarlo, ma co' dardi solo, 

E con le grida a man salva d* intorno 
Gli fon tempesta. Così contro a lui 
Non s* arrischiando le nemiche squadre 
Stringere i ferri, le minacce c l’ armi 
Gli avventavan da lunge ; ed ci fremendo 
Stava intrepido c saldo, c con lo scudo 
Sbaltea de Paste il tempestoso nembo. 

Di Cónto venuto a questa guerra 
Era un Greco bandito, Acron chiamalo, 
Novello sposo che, non giunto ancora 
Con la sua donna, a le sue nozze il folle 
Avea Tarmi anteposte. E in quella mischia 
D'ostro e d’ór riguardevole c di penne, 
Sponsali arnesi e doni, ovunque andava 
Per le schiere, facci strage e bar ulta. 
Mezeuzio il vide ; c qual digiuno c fiero 
Leon da forno stimolato, errando 
Si sla talor sotto la mandra, c rugge ; 

Se poi fugace damme, o di ramose 
Coma gli si discopre un cervo avanti. 
S’allegra, apre le canne, arruffa il dorso, 

Si scaglia, ancide e sbrana, e’1 ceffo c Pugne 
D’ atro sangue s' intride ; in tal sembiante 
Per mezzo de lo stuol Mczenzio altero 
S* avventa. Acron per terra al primo incontro 
Nc va rovescio ; e P armi e. ’l pollo infranto, 
Sangue versando, e calcitrando spira, 

Morto Acrone, ecco Orode, che davanti 
Gli si lolle. Ei lo segue ; c non degnando 
Ferirlo in fuga, o clic fuggendo occulto 
Gli fosse il fcrilor, Io giunge e'I passa, 

1/ incontra, lo provóca, a corpo a corpo 
Con lui s’ azzuffa, clic di forze e d'armi 
Più valca che di furto. Al fin l'atterra, 

E P asta e ’l piè sopra gP imprime, c dice: 
Ecco Orode è caduto. Una gran parie 
Giace de la battaglia. A questa voce 
Lieti alzaro i compagni al elei le grida : 

Ed ci tncnlre spirava, Oli, disse a lui, 

Qual che In sii, non fia senza vendetta 
La morie mia : nè lungamente alierò 
N’ andrai; cliè dietro a me nel campo stesso 
Cader convienti. A cui Mczenzio un riso 
Tratto con ira, Or sii tu morto intanto, 
Rispose, e quel che può Gìoyc disponga 
Poscia di me. Così dicendo, il tèlo 
Gli divelse dal corpo, ed ci le luci 
Chiuse al gran buio ed al perpetuo sonno. 
Ccdico uccise Aleuto. Sacralóre 
Uccise Idaspe. A due la vita tolse 
Rapo, a Partenio ed al gagliardo Orsoue, 
Mcssapo aneli’ egli a due !a morte diede: 

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DF.I I/ ENEIDE 



130 



lam gravi* acquattai luctus et mutua Mavors 
Funeri, coedebant pariler pariterque ruebant 
Victores victique; ncque bis fuga noia, ncque Illis. 

Di lovis in Ipclis ira ni misrrantur inanem 
Ambonim, et lantos mortalibus esse labores; 

Itine Vcnus. bine centra spretai Saturnia luno. 
Pallida Tisipbone media inter millia saevit. 

Al vero ingentem quatiens Mezenlins hastam 
Turbidus ingreditur campo. Quam magnus Orion, 
Quunt pedes incedi! medii per maiima Nerei 
Stagna viam scindens, Immero supereminct undas; 
Aul, summis referens annosam montibus ornimi, 
Ingrcditurque solo et caput inter nubila condii: 

Talis se vaslis inferi Mezrntius armis. 

Iluic conira Aeneas, speculatus in agmine longo, 
Obvius ire parai. Manel impertcrrilus ilio, 

Iloslcm magnnnimum opperiens, et mole sua stai; 
Alque cetili» spalium emensus, quanlum sntis basine: 
Destra, mibi deus, et telum, quod missile libro, 

Nunc adsinl ! Voveo praedonis corpore raplis 
Indutum spoliis ipsum te, l.ause, tropaeum 
Aencac Divi!, stridcnlemquc eminus hastam 
lniicil, illa \olans clipeo est escussa, proculque 
Egrcgium Autoreti latus inter et ilia lìgi»; 

Herculis Antoren comitem, qui missus ab Argis 
llaeserat Evandro, atque Itala consederat urbe. 
Slernitur infcliz alieno vulnere. coelumque 
Adspicil, et dulces moriens reminiscitur Argos. 

Tum pius Aeneas hastam iacit: illa per orbem 
Aere cavum triplici, per linea terga, trihu'quc 
T ransiil inleitum tauris opus, imaque sedi! 

Inguine; sed vires baud pertulit. Ocius enscm 
Ameas, viso Tyrrbeni sanguine laetus, 

Eripit a Temine, el trepidanti fervidus instai. 
Ingemuit cari gravilcr genitoris amore, 

Ut vidit, Lausus; locrimaequc per ora volutae. 

Ilio morlis durac casum, tuaque optima facta, 

Si qua (idem tanto est operi latura veluslas, 

Non eqnidem, nec te, juvenis memorande, silebo. 
lite pedem referens, et inulilis, inque ligatus 
Cedcbat, clipeoquc inimicum bastile trabebat. 
Prorupit iuvenis, seseque immiscuit armis; 
lamque assurgenlis dextra plagamquc ferenlis 
Acneoe subiil mucronem, ipsumque morando 
Suslinuit; socii magno clamore sequunlur, 

Dum genitor nati panna prolectus abiret; 

Tclaque coniiciunt, prolurbantque eminus hoslem 
Missilibus. Furit Aeneas, tectusque tenel se. 



A Ctonio da cavallo , ad Kricete, 

Cir era pedone, a piede. Agi di Licia 
Movendo incontro a lui, fu da Valero, 

De' suoi degno campione a terra steso: 

Per man di Salio cadde Tronio, e Salio 
Per ninno di Neolcc, die di dardo 
Era gran feritore e gronde arderò. 

I)' ambe le parti erano Morte, e Marte 
Del pari; c parimente i vincitori 
E i vinti ora cadendo, ora incalzando, 
Seguian la zulTa; nè viltà, nè fuga 
Nè di qua, uè di là vedeansi ancora. 

L' ira, la pertinacia e le fatiche 
Erano e quinci e quindi ardenti e vane. 

E di questi e di quelli avean gli dei, 

Che dal cicl gli vedean, pietà e cordoglio. 
Slava di qua Ciprigna e di là Giuno 
A rimirargli; e pallida fra mezzo 
Di molte mila infuriando andava 
La nequitosa Erinni. Una grand' asta 
Prese Mezenzio un'altra volta in mano, 

E turbalo squassandola, del campo 
Piantossi in mezzo, ad Orlon simile 
Quando co* piè calca di Néreo i flutti, 

E sega l’ onde, con le spalle sopra 
A l’ onde tulle; o qual da' monti a l’ aura 
Si spicca annoso corro, e 'I capo asconde 
Infra le nubi. In tal sembianza armalo 
Slava Mezenzio. Enea tosto che’l vede 
Ratto incontro gli muove. Ed egli immolo 
Di coraggio e di corpo, ad aspettarlo 
Sta qual pilastro in sè fondato e saldo. 

Poscia di' a tiro d' asta avvicinato 
Gli fu davanti, 0 mia destra, o mio dardo, 
Disse, che dii mi siete, il vostro nume 
A questo colpo imploro : ed a te, Lauso, 

Già di questo ladron le spoglie e 1' ormi 
Per mio trofeo consacro. E, così detto, 
Trasse. Stridendo andò per l' aura il tèlo; 

Ma giunto, c da lo scudo in altra parte 
Sbattuto, di lontan percosse Antere 
Fra le costole e'I fianco, Anlor d' Alcide 
Onoralo compagno. Era venuto 
D'Argo ad Evandro : c qui cadde il meschino 
D* altrui ferita. Nel cader le luci 
Al cirl rivolse, e d’ Argo il dolce nome 
Sospirando, le chiuse. Enea con l' asta 
llcn tosto a lui rispose. E lo suo scudo 
Percosse anch'egli, c l'interzate piastre 
Di ferro e le tre cuoia e le Ire falde 
Di tela, ond' era citilo, inflno al vivo 
Gli passò de la coscia Ivi fermossi, 

Chè piò forza non ebbe. Ma ben tosto 
Ricovrò con la spada, e fiero c lieto, 

Visto già del nemico il sangue in terra 



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turno DECIMO 



231 



Ac velut, eflìisj si quando grandiue nimbi 
Praecipitanl, oiunis campii dilTugil aralor, 

Omnis el agricola, et loia laici arce vialor, 

Aul amnis ripis, uut olii Fornice savi, 

Dum pini! in terris, ui possìnl, sole reduclo, 
Ezercere diem: sic obrulus undique lelis 
Aeneas nubcm belli, dum deloncl, omnem 
Suslinel, et Lausum increpitai, Lausoqne minalur. 
Ouo moriture ruis, maioraque viribus audes ? 
Fallii le incautum pietas tua. Nec minus ilio 
Eisultal demens. Saevac iamque allius irae 
Dardanio surgunt ductori, eilrcmaque Lauso 
Parca e fila legunl: validum namque esigi! coseni 
Per medium Aeneas iuvenem, lolumquc reconditi 
Transiil el parmam mucro, levia arma minaci», 

El lunicam, molli maler quam neveral auro; 
Implevilquc sinum sanguis; lum vita per auros 
Concessi! inoesla ad Hanes, corpusque reliquie 
Al vero u! vullum vidil morienlis el ora, 

Ora modis Ancbisiadcs pallenlia mirisi 
ingemmi miserans graviler, dcslramquc tclcndil, 
El mcntem palriae slrinsil piclalis imago. 

Quid libi nunc, miserande puer, prò laudibus ìslis. 
Quid pius Aeneas lauta dabil indole dignum ? 
Arma, quibus laelalus, habe tua; leque parcnlum 
Manibus el cineri, si qua est ea cura, remino. 

Hoc (amen inFeliz miseralo solabcrc mortemi 
Aeneae magni destra cadis. Increpat ullro 
Cunctanlcs socios, el terra sublevat ipsum, 
Sanguine lurpanlem comlos de more capillos. 



E 'l lerror ne la Fronte, a lui si slriuse. 
Lauso, che in lauto rischio il caro padre 
Si vide avanti, amor, tema e dolore 
Se ne semi, ne sospirò, ne pianse. 

E qui, giotinc illustre, il caso indegno 
De la tua morie c 'i Ino zelo e 'I luo Falò 
Non lacerò; se pur tanta pietatc 
Fia chi creda de' posteri, e d' un figlio 
D' un empio padre. Il padre a si gran colpo 
Si trasse in dietro, cbè di già Ferito, 

Benché non gravemente, c da F intrico 
De l’ asta imbarazzalo, era a la pugna 
Fallo inutile e lardo. Or mentre cede, 
Mentre che de lo scudo il dardo ostile 
Di sFerrar s' argomenta, il buon garzone 
Succede nc la pugna, e del gii mosso 
Braccio e del brando che stridente c grave 
Calava por Ferirlo, il mortai colpo 
Ricevè con lo scudo e lo sostenne. 

E perdi' agio a ritrarsi il padre avesse 
Riparalo dal figlio, i suoi compagni 
Secondàr con le grida ; e con un nembo 
D' armi, che gli avvenlir lutti in un tempo. 
Lo ribullaro. Enea via piò Feroce 
InFuriando , sotto al gran pavese 
Si tenea ricoverlo. E qual, cadendo 
Grandine a nembi, il vialor talora, 

Che in sicuro a l' albergo è già ridotto, 

Ogni agricola vede, ogni aratore 
Fuggir da la campagna ; o qual d 1 un greppo 
D' una ripa, o d' un antro il zappatore, 
Piovendo, si Fa schermo, e 'I sole aspetta 
Per compir l' opra ; in quella stessa guisa, 
Teinpeslato da l' armi Enea la nube 
Sostenea de la pugna : e Lauso inlanlo 
Minacciando garria : Dove ne vai, 
Mescliinello, a la morie ? A che pur osi 
Più che non puoi ì La tua pietà l' inganna, 

E sei giovine c soro. Ei non per questo, 
Folle, meno insultava ; onde più crebbe 
L‘ ira del Teucro duce. E già la Parca, 

Véla la rocca c non pien anco il Fuso, 

Il suo nitido filo avea reciso. 

Trasse Enea de la spada, e nc lo scudo 
Clic liev' era e non pari a tanta Forza, 

Lo colpi, lo passò, passogli insieme 
La reste che di seta e d' or contesta 
Gli avea la stessa madre ; c lui per mezzo 
Trafisse, e moribondo a terra il trasse. 

Ma poscia ebe di sangue e di pallore 
Lo vide asperso e della morte in preda, 

Ne gl’ increbbe e nc pianse ; c di paterna 
Pietà quasi una imago avanti a gli occhi 
Veder gli parve, e ’nteuerito il core 
Stese la destra c sollcvollo, e disse ; 



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232 



DliLI/ ENEIDE 



Inierca genilor Tiberini ail duminis untlam 
Vulnera siccabal lympltis, corpusquc Icvabat 
Arbori* acclini* Irunco. Procul aerea ramis 
Depcndel galea, el proio gravi» arma quicscunt. 

Stani ledi circum iuvenes: ipse noger, anhclnns, 

Colla fovel, fusus propexam in peclorc barbino; 

Al olla super Lauso rogiiat, multosque remillit. 

Qui revocenl, nioesliquc feranl mamlata parcnlis. 

Al Lausum sodi evanimcm super arma fcrebant 
Flentes, iugenfciii, alque ingenti vulnero victum. 
Agnovit longe gemilum prac>aga mali mcns. 

Caniliem niullo deformai pubere, el amba* 

A«l eoclum Icndil polmas, el eorporc inhaercl. 

Tanlanc nic lennil rivendi, naie, voluplas. 

Mi prò me liosiili patcrer succedere dexlrae, 

Quem genui ? Tuane bacc genilor per vulnera scrvor, 
Morte Ina vivens ? Ileu, nunc misero miiii demum 
Exsilium infelix ! nunc alle vulnus adaclum I 
Idem ego, nate, luum maculavi crimine nonien, 

Pulsus ob invidiati) soiio sceptrisquc paterni*. 

Debucram palriae pocnas ndiisque meorum: 

Omnes per niorles onimam sonlcra ipse dedisscm. 

Nunc vivo! ncque adirne bomines lueemque relinquo ! : 
Sed linquam. Simili boc dicens nllollii in aegrum 
Se femur; cl, quamquam vis allo vulnero lardai, 

Hauti deicclus, equum duci iubet. line decus illi, 

Hoc solnmen eroi; bcllis hoc viclor allibai 
Omnibus. Àlloquilur mocrenlcm, cl lalibus inlit: 
Rliocbe, din (rcs si qua diu morlalibus ulta est) 
Viximus. Aut hodie viclor spolia illa emonia 
El caput Acneac referes, Lausique dolorum 
lJllor ciis mecum: aut, apcril si nulla viam vis, 
Occunibes pariler. Ncque cnim, fortissime, credo, 
lussa aliena pali et dominos dignubcrcTeucrus. 

Divii, cl cxceplus tergo consuela locavi! 

Membra, manusque ambas iarulis oncravil acutis, 

Acre caput fulgcns, crislaquc hirsulus equina. 

Sic cursum in medios rapidns dedil. Acstuat ingens 
l'no iu corde pudor, mixtoquc insania luclu; 



Miserabil fanciullo! c quale aila, 

Quale il pietoso Enea può farli onore 
Degno de le lue lodi c del presagio 
Clic n’ Imi dato di (e ? L' armi che lauto 
Ti son piaciute, a te lascio, c T luo corpo 
A la cura de* tuoi, se di ciò cura 
Ila pur l' empio luo padre, acciò di tomba 
E d’ esequie l’onori. E tu, meschino, 

Poiché dal grand* Enea morte ricevi, 

Di morir li consola. Indi assccura, 

Sollecita, riprende, e de I* indugio 
Garrisce i suoi compagni; c di sua mano 
L'alza, il sostiene, il terge c de la gora 
Del suo sangue lo tragge, ove rovescio 
Giacea languido il volto e lordo il crine. 

Clic di rose eran prima e d' ostro c d* oro. 

Slava del Tcbro in su la riva intanto 
Lo sfortunato padre, c la ferita 
Già lavala nc Monde, afflino e stanco 
S* era con la persona appo d’ un tronco 
Por posarsi appoggialo; c I* olmo a canlo 
Da’ rami gli pendea. L* armi piò gravi 
Su ’l verde prato avean posa con lui. 

Slavagli intorno de* più scelti un cerchio 
K de* più fidi. Ed egli anelo ed egro, 

Chino il collo al (roncone c *1 mento al petto, 
Mollo di Lauso interrogava, e molli 
Gli mandava or con preci, or con precetti, 
Cl»* al mesto padre ornai si rilraesse. 

.Ma già vinto, già morto e già disteso 
Sopra al suo scudo, a braccia riportato 
Da' suoi con mollo pianto era il meschino. 
Udì Mczenzio il pianto, e di lontano 
( Come del mal sovente è M uom presago ) 
Morto il figlio conobbe. Onde di polve 
Sparso il canuto crine, ambe le mani 
Al ciel alzando, al suo corpo accoslossi : 

Ah mio figlio, dicendo, ah come tanto 
Fui di vivere ingordo, che soffrissi 
Te, di me nato, ondar per me di morto 
A sì gran rischio, a tal nimica destra 
Succedendo in mia vece? Adunque io salvo 
Son per le tue ferite? Adunque io vivo 
Per la tua morte? 0 miseralo) vita ! 

0 sconsolato csiglio! Or questo è ’l colpo 
Ch’ai cor m’è giunto Ed io, mio figliolo sono 
Ch’ho macchialo il luo nome, ch’ho sommerso 
La tua fortuna c’I mio stalo felice 
Co’ demeriti miei. Dal mio furore 
Son dal seggio deposto. Io son clic debbo 
Ogni grave supplizio ed ogni morte 
A la mia patria, al grand'odio de* miei. 

E pur son vivo, c gli uomini non fuggo? 

E non fuggo la luce? Al»! fupgirolla 
Pur una volta. E, così detto, alzossi 



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LIBRO REGIMO 



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l El Fui iis agitatus amor, cl conscio virlus |. 

Alquc Ire Acncan magna ter voce vocatil. 

Acneas agnovit cnim, laetusque prccalur: 

Sic poter ille deùm facinl, sic allus Apollo I 
Incipias confcrre mannm. 

Tanluin effalus, cl inresla subii obrius liasla. 

Ille aulem: Quid me, ercplo, saevissime, nolo, 
Tcrrcs ? llacc ila sola fuil, quo perdere posse». 

Nec morlcm liorremus, lice divAm parcimus ulti. 
Desine: iam renio morilurus, cl haec libi porto 
Dona prius. Dixil, telumquc intorsil in hoslem; 

Inde aliud super atque aliud figilque, volalque 
Ingenti gyro: sud sustincl aureus umbo. 

Ter circuiti adslanlcm lacros equilaril in orbes, 

Tela manu iacicns; ter secum TroTus lieros 
Immanem aeralo circumferl tegmine silvam. 

Inde ubi tol Iravisse mora», tot spicula lacdel 
Veliere, cl nrgclur pugna congressus iniqua: 

Molla morcns animo, iam tandem crumpil, el inlcr 
Bellaloris equi cava lempora coniicil liaslam. 

Tallii se arreclum quadrupes, et calcibus auras 
Verbcral, elfusumquc cquilem super ipse seculus 
Implicai, ciccloque incumbil ccrnuus armo. 

Clamore inccndunt coclum Trocsquc Laiinique, 
Advulat Acneas, taginaque eripit cnsem, 

Et super liacc: Ubi nunc Mczcnlius accr, et illa 
KITcra vis animi ? Contea Tyrrlienus, ut auras 
Suspiciens liausit coelum, menlemquc recepii: 

Iloslis amare, quid incrcpilas, morlcmque minaris ? 
Nullum in caede nefas; ncc sic ad proclia veni; 

Nec tecuin meus linee pcpigit mihi fonderà Lausus. 
Unum hoc, per, si qua csl ticlis venia boslibus, oro; 
Corpus liumo paliarc legi. Srio acerba meorum 
Circumslare odia: hunc, oro, Refende furorem; 

El me consorlem itali concede sepulcro. 

llacc loquilur, iuguloque haud inscius accipit ensem, 

Vndanliquc animam diffundil in arma cruore. 




Su la ferila coscia. E benché tardo 
Per la piaga ne fosse e per l'angoscia, 

Non per questo avvilito, un suo cavallo 
Ch'era quanto diletto e quanta speme 
Arca ne l'armi, e quel clic in ogni guerra 
Salvo mai sempre e vincilor lo rese, 

Addur si fece. E poi clic addolorato 
Se ’l vide avanti, in tal guisa gli disse: 
Rebo, noi siam fin qui vissuti assai, 

Se pur assai di vita Ita mortai cosa. 

Oggi è quel di che 0 vincitori il capo 
Riportercm d'Enea con quelle spoglie 
Clic son del sangue del mio Aglio infoile , 
E che tu del mio duolo e de la morie 
Di lui vcndicator meco sarai; 

0 che meco, se vano è 'I poter nostro, 
Finirai parimenle i giorni tuoi; 

Chè la tua fé, cred'io, la lua fortezza 
Sdegnoso li fari d'esser soggetto 
A' miei nemici, c di servire altrui. 

Cosi dicendo, il consueto dorso 
Per sé modesmo il buon Rcbo gli offerse 
Ed ei l'elmo ripreso, il cui cimiero 
Era pur di cavallo un'irta coda, 

Suvvi, come potè, comodamente 
Vi s'adagiò. Poscia d'acuti strali 
Ambe cardie le mani, infra le schiere 
Lanciossi. Amor, vergogna, insania c lutto 
E dolore c furore c coscienza 
Del suo stesso valore accolli in uno 
Gli arsero il core e gii ovvamparo il volto. 
Qui Ire* volle a gran voce Enea sAdando 
Chiamò: che tosto udillo, e baldanzoso, 
Cosi